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Cochrane Corner: I corticosteroidi nel trattamento dei pazienti affetti da sepsi

giovedì, aprile 7th, 2016

Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

Su Twitter: @P_Balzaretti

 

Conoscenze attuali

L’impiego di steroidi nella sepsi ha una lunga storia. Inizialmente furono proposti trattamenti con alte dosi per brevi periodi, la cui è efficacia è stata smentita da alcune revisioni alla metà degli anni’90 (1). Per questo motivo sono stati proposti regimi terapeutici a basati su dosi più basse, ma le evidenze a riguardo risultano tutt’ora contraddittorie con i due più importanti trial randomizzati che riportano conclusioni conflittuali (Annane 2002 e Sprung 2008).

Secondo le linee guida della Surviving Sepsis Campaing, i corticosteroidi non andrebbero impiegati nei pazienti con sepsi. Nel caso di pazienti con shock settico, la somministrazione andrebbe riservata a coloro i quali permangono ipotesi dopo adeguato riempimento volemico e introduzione di vasopressori. Qualora indicato, viene consigliato l’impiego di idrocortisone con dose massima giornaliera di 200 mg. Il trattamento andrebbe scalato quando non vi è più necessità di supporto aminico (2).

La revisione sistematica che andremo a vedere affronta nuovamente il tema, proponendosi di sintetizzare le evidenze fin qui pubblicate.

 

La Revisione Cochrane (3)

Titolo: Corticosteroids for treating sepsis.

Autori: Annane D, Bellissant E, Bollaert PE, Briegel J, Keh, Kupfer Y.

Citazione bibliografica: Cochrane Database Syst Rev 2015; 12: CD002243.

Link: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/2663326

Obiettivo: Esaminare gli effetti dei corticosteroidi sulla mortalità ad un mese e valutare se la dose e la durata del trattamento influenzano la risposta al trattamento.

Studi inclusi: trial randomizzati controllati, in cieco o meno.

Outcome primario: mortalità totale a 28 giorni

Outcome secondari: mortalità in Terapia Intensiva, mortalità intra-ospedaliera, regressione dello shock a 7 e 28 giorni, entità della disfunzione d’organo, durata della degenza in Terapia Intensiva, durata della degenza ospedaliera, eventi avversi.

N°. di studi inclusi: 33

N° di pazienti: 4268

Risultati:

 

 

Parametro

Risultato

N° di pazienti

Mortalità a 28 giorni

Corticosteroidi vs. controllo*

Risk ratio

0,87 (I.C. 95% 0,76 – 1,00)

3176

Corticosteroidi (basse dosi, lunga durata) vs. controllo

Risk ratio

0,87 (I.C. 95% 0,78 – 0,97)

2266

Corticosteroidi (alte dosi, breve durata) vs. controllo

Risk ratio

0,96 (I.C. 95% 0,80 – 1,16)

910

Corticosteroidi vs. controllo (solo studi con doppio cieco adeguato)

Risk ratio

0,95 (I.C. 95% 0,84 – 1,08)

2259

Corticosteroidi vs. controllo (solo pazienti con shock settico)

Risk ratio

0,88 (I.C. 95% 0,78 – 0,99)

1444

Mortalità intra-ospedaliera

Corticosteroidi vs. controllo

Risk ratio

0,85 (I.C. 95% 0,73 – 0,98)

2014

Corticosteroidi (basse dosi, lunga durata) vs. controllo

Risk ratio

0,91 (I.C. 95% 0,82 – 1,01)

1708

Differenza del SOFA score a 7 giorni

Corticosteroidi vs. controllo

Differenza delle medie

-1,53 (I.C. 95% -2,04 – 1,03)

1132

Eventi avversi

Sovrainfezioni

Risk ratio

1,02 (I.C. 95% 0,87 – 1,20)

2567

Iperglicemia

Risk ratio

1,26 (I.C. 95% 1,16 – 1,37)

2081

Emorragia digestiva

Risk ratio

1,24 (I.C. 95% 0,92 – 1,67)

2382

 

Tabella 1. Riassunto dei principali risultati. * solo due studi non prevedevano placebo. Basse dosi sono definite come dosi inferiori a 400 mg al giorno di idrocortisone o dosaggi equivalenti; se la durata del trattamento è ≥ a 3 giorni è definita lunga.

 

Interpretazione – conclusioni

Anche questa revisione evidenzia come l’impiego di corticosteroidi abbia un’efficacia molto scarsa nel trattamento del paziente con sepsi, anche nel caso si impieghino basse dosi per periodi prolungati. Parte dell’efficacia registrata potrebbe essere legata puramente alle limitazioni metodologiche degli studi primari, come dimostrato dalle analisi per sottogruppi: qualora vengano presi in considerazione solo gli studi di migliore qualità, l’impatto sulla sopravvivenza a 28 giorni viene completamente vanificato.

Anche l’impiego nei soli pazienti con shock settico, suggerito dalla Surviving Sepsis Campaign, sembrerebbe avere un impatto modesto, ai limiti della significatività statistica. Tali effetti devono essere considerati alla luce di un aumento del rischio di iperglicemia pari al 26%.

Questi dati potrebbero essere in qualche modo in accordo con la visione proposta recentemente nelle nuove definizione di sepsi e shock settico proposte dalla Society for Critical Care Medicine e l’European Society for Intensive Care Medicine secondo cui l’elemento con il maggior impatto sulla sopravvivenza del paziente con infezione e sepsi non è l’entità della risposta infiammatoria (la cui riduzione è l’obiettivo del trattamento con corticosteroidi) ma l’insorgenza di disfunzione d’organo. A questo riguardo, comunque, l’impiego di steroidi sembrerebbe avere un effetto benefico, garantendo la riduzione del SOFA score di circa 1,5 punti: questo dato potrebbe portare a riconsiderarne le indicazioni nei pazienti a maggiore rischio.

 

Bibliografia

  1. Lefering R, Neugebauer EAM. Steroid controversy in sepsis and septic shock: a meta-analysis. Crit Care Med 1995;23(7):1294–303. Link

  2. Dellinger RP, et al. Surviving Sepsis Campaign: International Guidelines for Management of Severe Sepsis and Septic Shock: 2012. Crit Care Med 2013; 41:580–637. Link

  3. Annane D, Bellissant E, Bollaert PE, Briegel J, Keh D, Kupfer Y. Corticosteroids for treating sepsis. Cochrane Database Syst Rev 2015; 12: CD002243. Link

  4. Singer M, et al. The Third International Consensus Definitions for Sepsis and Septic Shock (Sepsis-3). JAMA 2016;315(8):801-810. Link

Trattamento post-rianimazione da arresto cardiaco nell’adulto: opinione di un panel di esperti

martedì, gennaio 12th, 2016

 

Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

Su Twitter: @P_Balzaretti


Fare riferimento a linee guida internazionali è importante; è peraltro esperienza comune come sia spesso difficile adattare tout-court documenti sviluppati in contesti clinici ed organizzativi molto diversi da quello in cui si opera abitualmente. Per questo è importante sostenere la “produzione” di raccomandazioni locali, quanto meno nazionali, che tengano conto delle particolarità organizzative ed epidemiologiche del nostro Paese.

Parliamo dunque ben volentieri del documento dal titolo “Implementazione del Trattamento post-rianimazione da arresto cardiaco nell’adulto: opinione di un panel di esperti”, pubblicato recentemente sul Giornale Italiano di Cardiologia. Si tratta di un documento inter-societario cui hanno partecipato l’Italian Resuscitation Council (Irc), l’Associazione Nazionale Cardiologi Ospedalieri (Anmco), la Società Italiana di Medicina d’Emergenza-Urgenza (Simeu), la Federazione nazionale dei collegi Ipasvi e la Società Italiana dei sistemi 118 (Sis-118). Per Simeu ha partecipato il dott. Andrea Fabbri, direttore della Struttura complessa di Pronto soccorso, Medicina d’urgenza e 118 dell’Azienda Usl di Forlì nonché Responsabile del Centro Studi Simeu.

La mortalità dei pazienti rianimati con successo dopo arresto cardiaco rimane ancora piuttosto elevata. Dunque la ripresa del circolo spontaneo, che spesso viene interpretato come “un traguardo” sudato, rappresenta in realtà un punto di partenza di un percorso molto complesso che gli Autori hanno suddiviso in fasi successive, seguendo l’impostazione proposta dall’Ilcor nel 2008: 1) fase immediata (ripresa del circolo spontaneo – 20 minuti), 2) fase precoce (20 minuti – 6 ore), 3) fase media (6 ore – 72 ore) e 4) fase di recupero oltre le 72 – 96 ore.

Nel documento viene data importanza a tre argomenti in particolare, dei quali viene fatta un’approfondita analisi: la gestione della temperatura corporea, l’eventuale indicazione a coronarografia in urgenza e prognosi neurologica.

Per ognuno dei temi trattati vengono esposte le relative indicazioni, suddivise in due gradi di “forza”: le indicazioni “suggerite” sono quelle che si basano su evidenze più solide (trial clinici randomizzati, registri clinici, raccomandazioni di esperti contenute in linee guida internazionali), quelle “da considerare” invece hanno basi scientifiche meno solide (studi osservazionali, studi animali).

Speriamo che questo documento favorisca l’ulteriore collaborazione tra le Società scientifiche dell’emergenza-Urgenza in Italia, come già avvenuto in passato.

 

COCHRANE CORNER: Sostituzione degli accessi venosi periferici: meglio a intervalli regolari o quando indicato clinicamente?

mercoledì, dicembre 9th, 2015

Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

Su Twitter: @P_Balzaretti

 

Conoscenze attuali.

I cateteri venosi periferici (CVP) sono il metodo più comune e semplice per ottenere un  accesso endovenoso per la somministrazione di fluidi e farmaci. Il posizionamento di un dispositivo intravascolare che consenta l’accesso venoso periferico è una delle procedure più utilizzate nel Pronto Soccorso: secondo una rilevazione del 2010 negli Stati Uniti, venivano somministrati farmaci per via endovenosa nel 27% circa dei pazienti che accedono al Pronto Soccorso (1).
Con il progressivo prolungarsi della permanenza dei pazienti nelle Aree di Emergenza (in parte a causa della scarsità dei posti letto in ospedale, in parte per l’istituzione di Aree di Terapia Subintensiva e Osservazione Breve Intensiva all’interno dei Dipartimenti di Emergenza), uno dei problemi che si pone sempre più frequentemente riguarda il timing della sostituzione degli accessi venosi periferici.
Due sono le strategie possibili: la prima consiste nel sostituire gli accessi a intervalli regolari, ogni 72-96 ore circa, mentre la seconda prevede il riposizionamento della cannula periferica quando indicato clinicamente, in base al suo mancato funzionamento o alla presenza di segni di flogosi o infezione.

Al momento non vi sono, nelle linee guida ufficiali, indicazioni uniformi su come procedere. Mentre da un lato le raccomandazioni della Infusion Nurses Society (2) e del progetto epic3 del Servizio Sanitario Nazionale inglese (3) raccomandano di sostituire l’accesso quando clinicamente indicato, le linee guida per la prevenzione delle infezioni ospedaliere del CDC di Atalanta consigliano di sostituire l’accesso ogni 72 – 96 ore, ritenendo quella della sostituzione su base clinica una questione “ancora non risolta”.
La revisione sistematica di cui andremo a parlare in questo post si inserisce proprio in questo dibattito, tentando di fornire delle evidenze solide a sostegno dell’una o dell’altra strategia.

La Revisione Cochrane

Titolo: Clinically-indicated replacement versus routine replacement of peripheral venous catheters

Autori: Webster J, Osborne S, Rickard CM, New K

Citazione bibliografica: Cochrane Database Syst Rev 2015; 8: CD007798
Link: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26272489
Obiettivo: valutare gli effetti di rimuovere gli accessi venosi periferici in base all’indicazione clinica piuttosto che rimuoverli e riposizionarli routinariamente.

Studi inclusi: trial randomizzati e controllati

Outcome primario: incidenza di infezioni del torrente circolatorio associate al catetere venoso periferico (definite come: emocoltura positiva raccolta da accesso venoso periferico + segni clinici di infezione + non altre evidenti fonti di infezione del torrente circolatorio + riscontro del medesimo micro-organismo nell’emocoltura e nell’esame colturale della punta dell’accesso venoso); tromboflebiti; infezioni del torrente circolatorio di qualsiasi origine (definite come: qualsiasi emocoltura positiva raccolta da accesso periferico mentre è posizionato un accesso venoso o entro le prime 48 dalla sua rimozione); costi (in termini di materiali e lavoro associato al posizionamento di un accesso venoso periferico).

Outcome secondari: stravaso, occlusione o malfunzionamento dell’accesso, infezione locale, mortalità.

N° di studi inclusi: 7 trial randomizzati, di cui 5 nella meta-analisi

Qualità degli studi inclusi: il bias principale riguarda l’assenza di blinding in tutti gli studi. In altri termini, sia il paziente che l’operatore erano a conoscenza del trattamento cui veniva sottoposto il paziente.

N° di pazienti: 4895.

Risultati:


Interpretazione – conclusioni

I limiti principali di questa revisione sistematica riguardano che i trial considerati non erano in cieco e la discreta dipendenza dei risultati da un singolo studio, da cui provengono i 2/3 di tutti i pazienti arruolati. Inoltre, in considerazione dei pochissimi eventi verificatisi, le conclusioni riguardanti le infezioni del torrente circolatorio totali e accesso-correlate non sono affidabili, così come per le infezioni locali.

In base ai risultati di questa revisioni sistematica, non vi sono chiare evidenze a supporto del riposizionamento degli accessi venosi ogni 72-96 ore piuttosto che quando indicato clinicamente. Bisogna però tenere conto che, sebbene non vi siano dati a riguardo in questo lavoro, è stato ipotizzato che quest’ultima strategia possa ridurre il numero di accessi effettivamente posizionati garantendo una riduzione del dolore e del discomfort associato alla procedura così come i relativi costi, sia in termini monetari che di impegno lavorativo.

Si ringrazia per la supervisione del post Vincenzo Peloponneso, infermiere presso il Dipartimento di Emergenza e Urgenza ASO S. Croce e Carle – Cuneo (@vinpel su Twitter).

Bibliografia

1. CDC. National Hospital Ambulatory Medical Care Survey: 2010 Emergency Department Summary Tables. link

2. Infusion Nurses Society. Infusion Nurses standards of practice. J Infus Nurs 2011; 34: S1 – S109. Link

3. Loveday HP, Wilson JA, Pratt RJ, Golsorkhi M, Tingle A, Bak A, Browne J, Prieto J, Wilcox M, UK Department of Health. epic3: national evidence-based guidelines for preventing healthcare-associated infections in NHS hospitals in England. J Hosp Infect. 2014;86 Suppl 1:S1-70. Link

4. O’Grady NP, Alexander M, Burns LA, Dellinger EP, Garland J, Heard SO, Lipsett PA, Masur H, Mermel LA, Pearson ML, Raad II, Randolph AG, Rupp ME, Saint S; Healthcare Infection Control Practices Advisory Committee. 2011 Guidelines for the prevention of intravascular catheter-related infections. Link

COCHRANE CORNER: Farmaci non oppiacei per il trattamento della colica renale

lunedì, luglio 27th, 2015


Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

Su Twitter: @P_Balzaretti

 

Conoscenze attuali.

La colica renale è una sindrome caratterizzata dall’insorgenza acuta di intenso dolore al fianco, eventualmente irradiato anteriormente fino alla sede pubica, associato frequentemente a nausea e vomito. Questa è dovuta più spesso legato all’ostruzione acuta dell’uretere provocata dalla presenza di calcoli e dal relativo spasmo della muscolatura liscia ureterale adiacente. Cause diverse dall’ureterolitiasi sono possibili ma meno frequenti (1).

Dato che il dolore della colica renale è solitamente molto intenso, un tempestivo trattamento analgesico è il primo passo della gestione del paziente, una volta terminata la valutazione diagnostica iniziale.

Le due opzioni iniziali sono la somministrazione endovenosa di oppiacei o di anti-infiammatori non steroidei (FANS), la cui efficacia è stata confrontata in una revisione sistematica della Cochrane Collaboration del 2005 (2). I farmaci più efficaci risultavano essere i FANS, i quali, proprio sulla base di questo lavoro, vengono raccomandati con terapia di prima scelta, in assenza di controindicazioni, sia dalle linee guida dell’Associazione Urologica Europea (3) che da Bultitude e Rees (1).

 

La Revisione Cochrane (4)

Titolo: Nonsteroidal anti-inflammatory drugs (NSAIDs) and non-opioids for acute renal colic.

Autori: Afshar K, Jafari S, Marks AJ, Eftekhari A, MacNeily AE.

Citazione bibliografica:Cochrane Database Syst Rev 2015 Jun 29;6:CD006027.

Link: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26120804

Obiettivo: valutare rischi e benefici dei FANS e di farmaci non oppioidi nel trattamento di pazienti adulti con colica renale e se possibile individuare quale farmaco (o classe di farmaci) sia più indicato in questo ambito.

Studi inclusi: trial randomizzati o trial quasi-randomizzati.

Outcome primario: variazioni dell’intensità del dolore al termine della prima ora, proporzione di pazienti con significativa riduzione del dolore; proporzione di pazienti che necessitano di un trattamento analgesico “di salvataggio” entro le prime 6 ore di trattamento; tasso di recidiva del dolore.

Outcome secondari: incidenza di effetti avversi.

N°. di studi inclusi: 50 nella revisione sistematica e 37 nella meta-analisi

Qualità degli studi inclusi: i dubbi più rilevanti riguardano la randomizzazione e il blinding.

N° di pazienti: 5734 nella revisione sistematica, 4483 nella meta-analisi

Risultati:

 

Riduzione del dolore Pazienti con riduzione del dolore ≥ 50% Necessità di analgesico di salvataggio
Pazienti inclusi nell’analisi Differenza media della VAS* (I.C. 95%) Pazienti inclusi nell’analisi RR (I.C. 95%) Pazienti inclusi nell’analisi RR (I.C. 95%)
FANS vs. spasmolitici 303 -12.97 (-21,80 – -4,14) 196 2.44** (1.61 – 3.70) 299 0.34 (0.14 – 0.84)
FANS + spasmolitici vs. FANS 310 -1.99 (-2.58 – -1.40) 906 1.00 (0.89 – 1.13) 589 0.99 (0.62 – 1.57)

Tabella 1. Sintesi dei principali risultati della meta-analisi. *: calcolata in mm, su una scala di 100; **: analisi che prende in considerazione solo lo spasmolitico ioscina.

 

Interpretazione – conclusioni

Tra le molteplici analisi portate a termine, mi sono concentrato su quelle che ho ritenuto più significative, tralasciando il confronto fra due FANS diversi, tra FANS e farmaci non-oppiodi non spasmolitici, non oppiodi vs. placebo e non oppiodi vs. non oppioidi.

Questa revisione sistematica non fornisce risultati particolarmente solidi, essendo tutti basati su piccoli campioni e con analisi caratterizzate da ampia eterogeneità.

Per quanto riguarda il confronto tra FANS e spasmolitici, la riduzione della VAS è significativa dal punto di vista statistico mentre la significatività clinica è dubbia: infatti, secondo precedenti studi, una riduzione della VAS che si associa a un cambiamento effettivamente percepito dal paziente dell’intensità del dolore è pari ad almeno 13 mm (Todd 1996, Gallagher 2001). In altri termini, sebbene sia possibile rilevare una differente efficacia con l’inferenza statistica, è probabile che questa sia appena percepita dal paziente (per ulteriori approfondimenti sulla differenza tra significatività statistica e clinica vi segnaliamo questo articolo di Sedgwick su BMJ). E’ possibile però supporre una superiorità dei FANS rispetto agli spasmolitici guardando alla maggiore prevalenza di pazienti con una riduzione del dolore ≥ 50% e alla minore necessità di ricorso all’analgesico “di salvataggio”.

L’aggiunta degli spasmolitici ai FANS non sembrerebbe avere alcun impatto: di nuovo, la riduzione della VAS di 1,99 mm non ha alcuna rilevanza clinica e non vi è alcuna riduzione della necessità di ricorrere ad ulteriori analgesici.

Infine, dati riguardanti i potenziali eventi avversi sono del tutto insufficienti, in parte per la mancata registrazione, in parte per scarsa numerosità campionaria.

 

Bibliografia

  1. Bultitude M, Rees J. Management of renal colic. BMJ 2012;345:e5499. Link

  2. Holdgate A, Pollock T. Nonsteroidal anti-inflammatory drugs (NSAIDS) versus opioids for acute renal colic. Cochrane Database Syst Rev 2005; 1: CD004137. Link

  3. Turk C, et al. Guidelines on urolithiasis 2014. Link

  4. Afshar K, Jafari S, Marks AJ, Eftekhari A, MacNeily AE. Nonsteroidal anti-inflammatory drugs (NSAIDs) and non-opioids for acute renal colic. Cochrane Database Syst Rev 2015 Jun 29;6:CD006027. Link

COCHRANE CORNER: La manovra di Epley per la vertigine parossistica posturale benigna

mercoledì, aprile 1st, 2015


Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

Su Twitter: @P_Balzaretti

 

Conoscenze attuali

La vertigine parossistica posturale benigna (VPPB) viene definita come una disturbo caratterizzato dal susseguirsi di brevi episodi di vertigini, della durata inferiore ad un minuto, generalmente indotti da cambiamenti di posizione del capo (1, 2) come può succedere quando ci si gira nel letto, si oscilla la testa all’indietro o ci si china in avanti (1). E’ un quadro di riscontro piuttosto frequente in Pronto Soccorso (circa il 9% dei casi di vertigine secondo Navi e colleghi (3)) con massima incidenza d’esordio tra i 60 e 70 anni; nella maggior parte non è possibile trovare una chiara causa scatenante. Questa diagnosi dovrebbe essere presa in considerazione solo nel momento in cui siano escluse cause centrali di vertigini, come per esempio ischemie del circolo posteriore, decisamente più rilevanti dal punto di vista prognostico.

La spiegazione fisiopatologica più accreditata chiama in causa la dislocazione all’interno dei canali semicircolari di piccoli otoliti (cristalli di carbonato di calcio), normalmente posizionati in corrispondenza della macula dell’utricolo. Essendo in posizione più declive rispetto all’utricolo, il canale semicircolare posteriore è quello più frequentemente coinvolto (1, 2).

Per il trattamento della VPPB del canale posteriore si è progressivamente diffuso l’impiego della manovra di Epley (o di riposizionamento dei canaliti), la cui base razionale risiede proprio nella mobilizzazione degli otoliti dal canale semicircolare posteriore nuovamente nell’utricolo, dove non provocano disturbi (2).

Al momento sono disponibili in letteratura due importanti linee guida relative al trattamento della VPPB. La prima, rilasciata dall’American Academy of Otolaryngology – Head and Neck Surgery Foundation, raccomanda di sottoporre il paziente con BPPV del canale posteriore a manovre di riposizionamento degli otoliti, tra le quali segnalano la manovra di Epley e quella di Semont (Bhattacharyya 2008). Il secondo documento, pubblicato dall’American Academy of Neurology, raccomanda più direttamente la prima (Fife 2008).

La revisione sistematica di cui parleremo (2) è l’aggiornamento di precedente versione del 2010 e si pone come obiettivo quello di valutare l’efficacia della manovra di Epley nel trattamento dei pazienti con VPPB.

 

La Revisione Cochrane

Titolo: The Epley (canalith repositioning) manoeuvre for benign paroxymal positional vertigo

Autori: Hilton MP, Pinder DK.

Obiettivo: valutare l’efficacia della manovra di Epley nel trattamento della VPPB.

Outcome primario: risoluzione completa della vertigine

Outcome secondari: negativizzazione del test di Dix-Hallpike, effetti avversi.

N°. di studi inclusi: 11 trial controllati e randomizzati, 10 dei quali inseriti nella meta-analisi

Qualità degli studi inclusi: mediamente bassa; i problemi principali riguardano le procedure di blinding.

N° di pazienti: 745 (tra 60 e 100 pazienti per studio)

Risultati:

 

Parametro

Risultato

N° di pazienti

Manovra di Epley vs. placebo

Risoluzione completa della vertigine

Odds Ratio

4,42 (I.C. 95%: 2,62 – 7,44)

273 (5 studi)

Negativizzazione del test di Dix-Hallpike

Odds Ratio

9,62 (I.C. 95%: 6 – 15,42)

507 (8 studi)

 

Tab. 1. Risultati della meta-analisi. Non è stata condotta la metanalisi per il confronto tra la manovra di Epley e altri trattamenti.

Gli eventi avversi sono stati pochi e non è stata riportata una sintesi. I principali sono stati l’insorgenza di nausea e vomito durante la procedura e l’intolleranza alla manovra legata alla presenza di problemi della colonna cervicale.

 

Interpretazione – conclusioni

In base a risultati di questa meta-analisi, la manovra di Epley è più efficace del placebo (nella maggior parte dei casi si trattava di manovre verosimili ma prive di rilevanza terapeutica) per la completa risoluzione della vertigine in pazienti affetti da VPPB; la decisione di trattare il paziente dovrebbe essere presa tenendo comunque conto della tendenza alla risoluzione spontanea del disturbo (1).

Il principale aspetto positivo di questo lavoro è la capacità di dimostrare un’efficacia terapeutica consistente (il trattamento quadruplica di fatto la probabilità di risoluzione del disturbo) a fronte di effetti avversi quasi trascurabili. Per altro verso, la portata di questo risultato positivo è in parte ridimensionata da alcuni problemi metodologici. In primo luogo, l’eterogeneità tra i singoli studi è alta (I2 tra 68% e 72%) e gli Autori non provano neanche ad ipotizzarne le potenziali cause (tra le quali, si possono annoverare, secondo me, il differente setting in cui sono stati eseguiti gli studi e alcune differenze nelle manovre eseguite). Inoltre, i lavori erano mediamente di bassa qualità, cosa che potrebbe aver comportato una sovrastima dei benefici stimati. Infine, un ultimo problema è legato alla natura “soft” dell’outcome principale, il quale è esposto ad una certa soggettività nell’attribuzione. Per garantire una’analisi più oggettiva è stata valutata la negativizzazione del test di Dix-Hallpike, la quale sembrerebbe anch’essa assai più probabile nei pazienti trattati.

Sempre sul tema, a corredo di questo questo post, è disponibile online il video Maneuvers to Diagnosis and Treat Benign Paroxysmal Positional Vertigo su Nejm Video, il canale youtube del New England Journal of Medicine.

Bibliografia

  1. Kim J-S, Zee DS. Benign paroxysmal positional vertigo. New Engl J Med 2014; 370: 1138-1147. Link

  2. Hilton MP, Pinder DK. The Epley (canalith repositioning) manoeuvre for benign paroxysmal positional vertigo. Cochrane Database Syst Rev. 2014;12: CD003162. Link

  3. Navi BB, Kamel H, Shah MP, et al. Rate and Predictors of Serious Neurologic Causes of Dizziness in the Emergency Department. Mayo Clin Proc 2012; 87: 1080-1088. Link

  4. Bhattacharyya N, Baugh RF, Orvidas L, et al. Clinical practice guideline: Benign paroxysmal positional vertigo. Otolaryngol Head Neck Surg 2008; 139 (5 Suppl 4): S47-S81. Link

  5. Fife TD, Iverson DJ, Lempert T. Practice Parameter: Therapies for benign paroxysmal positional vertigo (an evidence-based review). Report of the Quality Standard Subcommittee of the American Academy of Neurology. Neurology 2008; 70: 2067-2074. Link

Ecografia toracica in urgenza per lo scompenso cardiaco acuto

mercoledì, gennaio 28th, 2015

Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

Su Twitter: @P_Balzaretti

L’impiego dell’ecografia toracica nella valutazione del paziente con dispnea acuta è uno dei progressi più significativi e “caratterizzanti” a cui si è assistito negli ultimi anni nella Medicina d’Emergenza–Urgenza.

Come sappiamo, l’ecografia toracica permette di rilevare la presenza di liquidi in sede interstiziale in modo indiretto, per mezzo della comparsa di specifici artefatti, le cosiddette linee B o “code di cometa”, la cui genesi, a tutt’oggi, non è del tutto chiarita, sebbene sembri essere legata all’alterazione del rapporto tra il contenuto di liquidi e di ossigeno nel parenchima polmonare (Soldati 2009). La presenza di linee B bilaterali, nel corretto contesto clinico, è indicativa di edema polmonare (Volpicelli 2012).

Nel corso degli anni le evidenze a supporto hanno incominciato ad accumularsi e oggi possiamo iniziare a trarre le prime conclusioni, che nel vocabolario dell’Evidence-based Medicine significa pubblicare una revisione sistematica, cosa effettivamente avvenuta nel fascicolo di agosto di Academic Emergency Medicine.

Al Deeb e colleghi hanno eseguito una ricerca esaustiva degli studi volti a quantificare il potenziale diagnostico delle linee B nella diagnosi di scompenso cardiaco acuto. Complessivamente hanno identificato 7 studi originali (per un totale di 1075 pazienti) la cui qualità è risultata essere per lo più media o buona. Due studi hanno avuto luogo in Terapia Intensiva, due in Pronto soccorso, due in reparti ospedalieri e uno ha arruolato pazienti sia in Pronto soccorso che in sede pre-ospedaliera.

La sensibilità cumulativa risultava pari al 94,1% (C.I. 95% 81,3 – 98,3%) e la specificità al 92,4% (CI 95% 84,2 – 96,4%); il rapporto di verosomiglianza positivo era pari a 12,4 (CI 95% 5,7 – 26,8) mentre quello negativo a 0,06 (C.I. 95% 0,02 – 022).

Per capire meglio questi numeri, proviamo ad utilizzare l’approccio bayesiano partendo dalle stime di prevalenza di scompenso cardiaco nei pazienti che giungono in P.S. lamentando dispnea riportate da Burri e colleghi. In caso di esame positivo, la probabilità di malattia passa dal 39% all’88%: in altri termini, in un contesto clinico adeguato, quando vediamo le linee B siamo quasi certi che il paziente presenti uno scompenso cardiaco. In caso di esame negativo, la probabilità si riduce fino al 3,7%, un valore sufficientemente basso da spingere a cercare eventuali cause alternative del disturbo.

Questi dati confermano ulteriormente l’opinione di molti di noi sulla grande importanza che questo strumento diagnostico riveste nella diagnosi differenziale della dispnea. Per chi volesse approfondire, vi segnaliamo i corsi SIMEU di Ecografia clinica di base, nei quali si parla anche di ecografia toracica. Per informazioni, cliccate qui.

MUBEE#14. Leggere i risultati di un studio: number needed to treat

martedì, dicembre 9th, 2014

 

Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

Su Twitter: @P_Balzaretti

 

Internet, dandoci la possibilità di accedere più facilmente a studi scientifici originali, ci ha consentito di poggiare la nostra pratica clinica su basi più solide. Questi lavori, però, possono presentare l’efficacia del trattamento che esaminano in modi molto diversi, e ciò può influenzare la decisione del professionista di adottare il trattamento in questione o meno. In un precedente post abbiamo già parlato di riduzione relativa e assoluta del rischio, in questo post ci occuperemo del “number need to treat” (NNT).

Cos’è l’NNT e come si calcola

Proposto per la prima volta circa 25 anni fa’, l’NNT è una misura dell’efficacia di un intervento terapeutico e indica il numero di pazienti che devono essere trattati per prevenire un evento avverso aggiuntivo (1, 2). Dal punto di vista matematico è il reciproco della riduzione assoluta del rischio (1):

  • NNT = 1/ Riduzione Assoluta del Rischio = 1/ (tasso di eventi nel gruppo di controllo – tasso di eventi nel gruppo di trattamento);

nel caso il tasso di eventi sia presentato in forma percentuale:

  • NNT = 100/Riduzione Assoluta del Rischio = 100/(tasso di eventi nel gruppo di controllo – tasso di eventi nel gruppo di trattamento).

Maggiore è il valore dell’NNT, minore è l’efficacia dell’intervento terapeutico. Utilizziamo come esempio i dati di un recente trial sulla trombolisi nei pazienti con embolia polmonare, il PEITHO Trial, in cui la mortalità nei pazienti trattati è pari all’1,2% mentre nei controlli all’1,8%. Dunque: NNT = 100/(1,8 – 1,2) = 100/0,6 = 167. Ciò significa che è necessario sottoporre a trombolisi con tenectaplase 167 pazienti con embolia polmonare a rischio intermedio per prevenire un decesso (3).

Ecco alcuni esempi, giusto per avere un’idea del NNT di alcuni provvedimenti terapeutici che adottiamo abitualmente:

 

Tabella 1. Alcuni esempi di NNT.

 

Come si interpreta

Per interpretare correttamente l’NNT (soprattutto se si vogliono confrontare strategie terapeutiche diverse) bisogna tenere in considerazione quattro aspetti: il rischio nei pazienti non trattati (baseline risk), l’intervallo di tempo considerato, il trattamento di confronto e l’outcome.

Per quanto riguarda il primo, dato che la riduzione relativa del rischio tende ad essere costante per popolazioni con profili di rischio diversi, nelle popolazioni dove quest’ultimo è più alto, la riduzione assoluta del rischio è maggiore e dunque l’NNT minore. Per capire meglio riprendiamo nella tabella 2 l’esempio già utilizzato nel precedente post, riguardante l’impiego di antibiotici nella riacutizzazione di BPCO (4).

Tabella 2. Variazioni dell’NNT al variare del rischio di base (che corrisponde alla mortalità dei controlli). In UTI, dove la mortalità è maggiore, minore è il numero di pazienti da trattare per risparmiare un decesso. La riduzione relativa del rischio considerata è 5,7.

 

In altri termini, nei pazienti ricoverati in UTI, verosimilmente con rischio più alto di morte, il numero di pazienti da trattare per evitare un decesso è minore rispetto a ciò che succede in Medicina Interna e dunque si può ipotizzare che l’impatto del trattamento sia maggiore.

In secondo luogo, l’NNT tende a variare in base alla durata del follow up: per uno stesso farmaco e uno stesso outcome, l’NNT si riduce al prolungarsi della durata del periodo di osservazione (1). Ciò è più importante per le terapie croniche: spesso infatti si estrapolano i risultati di studi con 2-3 anni a periodi di trattamento molto più lunghi, come succede per esempio con gli anti-ipertensivi. Nel caso dell’Emergenza-Urgenza, i follow up sono più brevi e le differenze meno significative.

Terzo: l’NNT non è una proprietà intrinseca di un intervento terapeutico ma dipende dal trattamento adottato nel gruppo di controllo, sia in modo esplicito sia sotto l’etichetta di “usual care”. Per esempio, è possibile che l’NNT dell’aspirina nei pazienti con STEMI che abbiamo riportato prima, se misurato oggi in cui la terapia farmacologica è molto più ampia e comprende tra l’altro eparina e beta-bloccanti, sarebbe probabilmente più alto.

Infine, l’outcome: un farmaco ha un impatto su più esiti differenti (per es., mortalità, necessità di ricovero, etc.) e chiaramente l’NNT è diverso: per questo è necessario fare attenzione a confrontare trattamenti diversi facendo riferimento al medesimo outcome.

Come utilizzare l’NNT

Leggendo la tabella 1 vi sareste chiesti: “quando un NNT è sufficientemente piccolo per poter essere considerato interessante?”. Chiaramente non ci sono risposte univoche. Tra gli aspetti da tenere in considerazione, innanzitutto, la natura dell’outcome: per esiti particolarmente rilevanti, come la morte, è possibile prendere in considerazione NNT più alti. La rilevanza, se possibile, dovrebbe essere stabilita con il paziente.

In secondo luogo, dato che la decisione di somministrare un trattamento dovrebbe scaturire sempre da un bilancio tra rischi e benefici, oltre che l’NNT sarebbe opportuno tenere conto anche del Number Needed to Harm (NNH), ovvero il numero di pazienti che è necessario trattare per ottenere un effetto avverso. L’NNH permette di una avere una rappresentazione sintetica dei potenziali rischi cui la terapia espone, in modo tale da permettere di semplificare la valutazione dei “pro e contro” nel processo decisionale.

Limiti dell’NNT

Un limite importante dell’NNT riguarda l’intervallo di confidenza. In caso di risultati non statisticamente significativi, l’intervallo di confidenza della riduzione assoluta del rischio comprende anche il valore 0; in base alla nostra formula, l’NNT in questo caso sarebbe pari a “infinito” (∞), un risultato chiaramente inutilizzabile. Per questo, spesso l’intervallo di confidenza dell’NNT, soprattutto per risultati non significativi, non viene riportato: per questo è opportuno non accontentarsi ed è meglio sempre valutare anche il Rischio relativo, alla riduzione relativo del rischio e a quella assoluta da cui l’NNT è derivato e i relativi intervalli di confidenza.

Nonostante in origine si pensasse che la possibilità di racchiudere una stima di efficacia terapeutica in un singolo numero potesse semplificare la condivisione della informazioni con i pazienti, ciò purtroppo non si è rilevato vero. I pazienti (5), e probabilmente anche alcuni medici e infermieri, hanno difficoltà a comprendere l’NNT e ciò ne limita l’impiego.

NNT.com

Se siete rimasti positivamente impressionati da questa misura statistica, un fonte affidabile di risultati è il sito www.NNT.com, amministrato dal dott. David Newman (figura sempre più nota in America) e da alcuni colleghi. Vi sono raccolti numerosi NNT, principalmente inerenti alla Medicina d’Urgenza, organizzati in rapporto alla disciplina e all’utilità (in termini di rapporto rischio-beneficio), simboleggiata da simpatici “semafori”, di immediata comprensione.

 

Bibliografia

  1. McAlister FA. The “number needed to treat” turns 20 – and continues to be used and misused. Can Med Ass J 2008; 179: 549 – 553. Link to free ful text

  2. Barratt A, Wyer PC, Hatala R, McGinn T, Dans AL, Keitz S, Moyer V, Guyatt G, for the Evidence-based Medicine teaching Tips Working Group. Tips for learners of evidence-based medicine: 1. Relative risk reduction, absolute risk reduction and number needed to treat. Can Med Ass J 2004; 171: 353-358. Link to free full text

  3. Meyer G, Vicaut E, Danays T, et al for the PEITHO Investigators. Thrombolysis for patients with intermediate-risk pulmonary embolism. New Engl J Med 2014; 370: 1402-1411. Link

  4. Vollenweider DJ, Jarrett H, Steurer-Stey CA, Garcia-AimerichJ, Puhan MA. Antibiotics for exacerbations of chronic obstructive pulmonary disease. Cochrane Database of Systematic Reviews 2012; 12: CD010257. Link

  5. Zipkin DA, Umscheid CA, Keating NL, et al. Evidence-based risk communication: a systematic review. Ann Intern Med. 2014 Aug 19;161(4):270-80. Link

 

COCHRANE CORNER: Il magnesio solfato nel trattamento del paziente adulto con esacerbazione di asma in pronto soccorso

martedì, luglio 22nd, 2014

 

Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

Su Twitter: @P_Balzaretti

 

Conoscenze attuali

L’asma è una patologia infiammatoria cronica delle vie aeree, caratterizzata dalla possibilità di periodiche esacerbazioni acute, le quali talvolta possono diventare potenzialmente fatali.

Gli strumenti terapeutici a disposizione nel Dipartimento d’Emergenza sono: l’ossigeno, in caso di insufficienza respiratoria, i beta-agonisti inalatori a breve durata d’azione, l’ipatropio bromuro inalatorio (in associazione ai beta-agonisti), i corticosteroidi (sistemici o inalatori) e il magnesio solfato per via endovenosa.

Quest’ultimo trova attualmente un ruolo come farmaco di seconda linea nel trattamento dell’attacco acuto grave di asma che non abbia avuto una risposta iniziale soddisfacente ai bronco-dilatatori inalatori e ai corticosteroidi o in caso di attacchi potenzialmente fatali (1, 2). La sua efficacia è stata già valutata in diverse revisioni sistematiche, le più recenti delle quali sono quella di Mohammed et al (3) e quella di Shan e colleghi (4) (i relativi risultati sono sintetizzati nella tabella 1). La necessità di una nuova sintesi delle evidenze disponibili (nella forma di un aggiornamento di una precedente revisione Cochrane, prodotta da Rowe e colleghi nel 2009), nasce dalla pubblicazione nel 2013 di un trial randomizzato da parte di Goodacre et al (5), il quale, con i suoi 1109 pazienti, è lo studio con la maggiore numerosità campionaria tra quelli in letteratura.

 

Autore Tipo di analisi Parametro Risultati Campione dell’analisi

Mohammed 2007

Funzione respiratoria

SMD

0,25 (I.C. 95% -0,01 – 0,51)

1699 pazienti

Ricovero ospedaliero

Risk ratio

0,87 (I.C. 95% 0,70 – 1,08)

Shan 2013

Funzione respiratoria

SMD

0,30 (I.C. 95% 0,05 – 0,55)

1754 pazienti

Ricovero ospedaliero

Risk ratio

0,86 (I.C. 95% 0,73 – 1,01)

Tab. 1. Sinossi. I dati riguardano solo la somministrazione per via endovenosa e solo in pazienti adulti. SMD: deviazione standard dalla media; un valore positivo indica un miglioramento della funzione respiratoria.

 

La Revisione Cochrane (6)

Titolo: Intravenous magnesium sulfate for treating adults with acute asthma in the Emergency Department.

Autori: Kew KM, Kirtchuk L, Michell CI

Obiettivo: valutazione della sicurezza e dell’efficacia della somministrazione di magnesio solfato (MgSO4) in adulti trattati per asma acuto in Pronto Soccorso.

Outcome primario: ricovero ospedaliero

Outcome secondari: durata della permanenza in Pronto Soccorso, incidenza del ricovero in Terapia Intensiva, parametri vitali (frequenza cardiaca, frequenza respiratoria, pressione arteriosa, saturazione di ossigeno), parametri spirometrici (picco di flusso espiratorio, volume espiratorio forzato nel primo secondo (FEV1)), punteggio di intensità dei sintomi, eventi avversi.

N°. di studi inclusi: 14, di cui 13 inclusi nella meta-analisi

Qualità degli studi inclusi: sono stati inclusi trial randomizzati; i problemi più rilevanti riguardano la possibilità di attrition bias (legato all’elevato numero di pazienti che si sono ritirati dallo studio prima di raggiungere l’outcome) e pubblicazione selettiva dei risultati.

N° di pazienti: 2313 pazienti

Risultati: sono riassunti nella tabella seguente.

 

Parametro

Risultato

N° di pazienti

Ricovero ospedaliero

Odds Ratio

0,75 (I.C. 95% 0,60 – 0,92)

1769

Ricovero in unità di Terapia Intensiva

Odds Ratio

2,03 (I.C. 95% 0,7 – 5,89)

752

Durata del ricovero ospedaliero

Riduzione della durata media (giorni)

-0,03 (I.C. 95% -0,33 – 0,27)

949

Durata del trattamento in P.S.

Riduzione della durata media (minuti)

-4,00 (I.C. 95% -37,02 – 29,02)

96

FEV1 (% del predetto)

Variazione del valore medio

4,41 (I. C. 95% 1,75 – 7,06)

523

PEF

Variazione del valore medio (l/min)

4,78 (I. C. 95% 2,14 – 7,43)

1129

Frequenza respiratoria

Variazione del valore medio (atti/min)

-0,28 (I.C.95% -0,77 – 0,20)

1276

Frequenza cardiaca

Variazione del valore medio (battiti/min)

-2,37 (I.C. -4,13 – -0,61)

1195

 

Tab.2. Sinossi dei risultati della revisione sistematica di Kew e colleghi.

Per quanto riguarda gli eventi avversi, quelli segnalati più frequenti sono vampate di calore, astenia, nausea e cefalea. Nello studio più ampio, quello di Goodacre e colleghi (5), sebbene il rischio di eventi collaterali aumenti nei pazienti sottoposti a trattamento con MgSO4, interessa comunque non più del 16% dei pazienti. Questi dati riguardano un trattamento costituito da una singola somministrazione; dosi ripetute possono condurre a ipermagnesemia con relativa ipostenia muscolare e insufficienza respiratoria (1).

Conclusioni

Secondo questa revisione Cochrane, la somministrazione di 2 g di magnesio solfato in 100 ml di soluzione fisiologica infusi in 20-30 minuti, in aggiunta alla terapia con broncodilatatori inalatori, steroidi sistemici e ossigeno (impiegati nella maggior parte degli studi), ridurrebbe il rischio di ricovero ospedaliero e migliorerebbe la funzione respiratoria nei pazienti con asma acuto in Pronto Soccorso. Sebbene quest’ultima sia statisticamente significativa, l’impatto clinico è dubbio. La somministrazione contemporanea di ipatropio non sembrerebbe modificare l’efficacia del magnesio solfato. L’azione del farmaco sembrerebbe la medesima a prescindere dalla gravità del quadro clinico, anche se questa considerazione si basa su classificazioni di gravità incomplete ed eterogenee.

 

Bibliografia

  1. Scottish Intercollegiate Guidelines Network. British Guideline on the management of asthma. A national clinical guideline (SIGN 101). 2012 revision. Link al free full text

  2. Global Initiative for Asthma. Gobal strategy for Asthma management and prevention 2014. Available from: www.ginasthma.org.

  3. Mohammed S, Goodacre S. Intravenous and nebulised magnesium sulphate for acute asthma: systematic review and meta-analysis. Emerg Med J 2007; 24: 823-830. Link al free ful text

  4. Shan Z, Rong Y, Yang W, Wang D, Yao P, Xie J, Liu L. Intravenous and nebulized magnesium sulphate for treating acute asthma in adults and children: a systematic review and meta-analysis. Respir Med 2013; 107: 321-330. Link

  5. Goodacre S, Cohen J, Bradburn M, Gray A, Benger J, Coats T, on the behalf of the 3Mg Research Team. Intravenous or nebulised magnesium sulphate versus standard therapy for severe acute asthma (3Mg trial): a double-blind, randomised controlled trial. Lancet Respir Med 2013; 1: 293-300. Link al free full text

  6. Kew KM, Kirtchuk L, Michell CI. Intravenous magnesium sulfate for treating adults with acute asthma in the Emergency Department. Cochrane Database of Systematic Reviews 2014, Issue 5. Art.No.: CD010909. Link

L’affidabilità delle linee guida: un’intervista al dottor Primiano Iannone

mercoledì, marzo 19th, 2014

di Paolo Balzaretti, redazione blog Simeu

@P_Balzaretti


Le linee guida rappresentano da sempre una tipologia di lavoro scientifico molto discussa. Tra i limiti che da sempre ne hanno ostacolato la diffusione ci sono le difficoltà di adottare indicazioni diagnostico-terapeutiche create in altri contesti geografici e culturali, l’eccessiva rigidità e complessità di alcuni documenti e i dubbi riguardo all’affidabilità del processo che conduce alla loro pubblicazione.

A proposito di quest’ultimo punto, il dott. Iannone, primario della Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso dell’Ospedale di Chiavari, ha recentemente pubblicato su JAMA Internal Medicine un’interessante analisi del grado di evidenze che sta alla base delle linee guida pubblicate da importanti società scientifiche internazionali. Abbiamo colto l’occasione per intervistarlo e approfondire ulteriormente questi temi.

Dott. Iannone, potrebbe sintetizzarci gli obiettivi e risultati del vostro lavoro?

L’obiettivo principale è stato – attraverso un case study – valutare i limiti degli attuali strumenti e metodi utilizzati per giudicare l’affidabilità delle raccomandazioni presentate dalle linee guida. Finora, l’aderenza a griglie valutative predefinite come l’AGREE e la concordanza delle raccomandazioni fra linee guida sullo stesso argomento emanate da fonti diverse erano ritenute sufficienti per ritenerle credibili. Noi abbiamo dimostrato il contrario, poiché ben tre linee guida nominalmente “evidence based” di rinomate società scientifiche fornivano raccomandazioni erronee sull’uso del dronedarone, se misurate col metro del sistema GRADE, il più sofisticato, rigoroso ed esplicito sistema di produzione di raccomandazioni, messo a punto, tra gli altri, dal mio grande e compianto maestro Alessandro Liberati. Ciò invita i lettori ad una maggiore cautela nell’interpretare le raccomandazioni delle linee guida soprattutto in presenza di conflitto d’interessi dichiarato o sospetto e evidenti difetti metodologici, e stimola le società scientifiche a produrre linee guida di maggiore qualità. Questo non vuol dire che le linee guida, soprattutto quelle prodotte da organismi governativi come NICE, SIGN o l’OMS, in assenza di conflitto d’interessi, con solide basi metodologiche, e con la partecipazione di tutti gli stakeholders – non solo degli specialisti, quindi- non debbano essere prese in seria considerazione. Purtroppo, invece, le linee guida delle società scientifiche erano poco affidabili vent’anni fa e lo rimangono spesso tuttora.

Parte del vostro lavoro di analisi si è concentrato sui potenziali conflitti di interesse degli estensori dei documenti, derivanti dai loro legami con le industrie farmaceutiche. Secondo Lei questi rapporti possono influenzare significativamente il processo di preparazione delle linee guida?

Il conflitto d’interessi non basta dichiararlo: bisogna gestirlo e neutralizzarlo e, come dice Lisa Bero, esiste un limite oltre il quale è inaccettabile.

Un’ampia gamma di evidenze suggerisce che il conflitto d’interessi sia in grado di influenzare significativamente l’affidabilità delle linee guida. Nel case study che abbiamo analizzato, quello del dronedarone, vi era una presenza pervasiva di esperti con forti legami con la casa produttrice del farmaco. Addirittura le Linee Guida europee, le più sbilanciate a favore del dronedarone, avevano nel panel il prinicipal investigator di uno dei maggiori trials – sponsorizzati- su quel farmaco. Si badi bene che il conflitto d’interessi non è solo di natura economica. Può essere anche di natura intellettuale, come nel caso succitato, e del tutto in buona fede. L’importante è riconoscerlo, ammetterlo e controllarlo. C’è anche chi sostiene che le linee guida debbano essere fatte da persone prive del tutto di conflitto d’interessi. Soprattutto se le evidenze sono oggettive, come quelle scaturite dai trials, non c’è alcun bisogno di esperti “conflicted” per decidere se una determinata raccomandazione possa essere sostenuta o no ma buon senso clinico, onestà scientifica e, magari, maggiore attenzione ai genuini interessi dei pazienti e della società nel suo complesso.

C’è una crescente consapevolezza del fatto che in letteratura c’è una maggiore disponibilità di informazioni riguardanti l’efficacia dei nuovi farmaci piuttosto che la loro sicurezza: è d’accordo? Ciò può influire sulle raccomandazioni pubblicate?

Certamente. Si è spesso propensi a dimenticare che i trials possono – se ben condotti – dare informazioni affidabili sulla efficacia dei trattamenti. Gli effetti collaterali, invece, soprattutto se rari e inattesi, sono molto meno rilevabili con questo strumento di indagine, ed è per questo che occorre moltissima cautela prima di raccomandare nuovi trattamenti che magari conferiscono vantaggi clinici marginali – quando ci sono – e poi si scopre che sono dannosi. Le raccomandazioni cliniche dovrebbero incorporare questo principio di cautela, ma spesso non lo fanno.

Quali sono i passi più importanti che possono essere intrapresi per aumentare l’affidabilità delle linee guida?

Innanzitutto, sarebbe bene che le società scientifiche specialistiche che sono le maggiori indiziate di produrre raccomandazioni fallaci si aprissero di più all’apporto di metodologi privi di conflitti di interesse, richiedendo il supporto e il know – how di organizzazioni governative (NICE, OMS, SIGN) con esperienze solide in questo ambito, per convertirsi a un maggiore rigore. Di fatto ancora oggi molte Linee Guida che si dichiarano evidence based in realtà sono basate sul consenso di esperti (spesso in conflitto d’interessi). Il metodo GRADE è lo strumento più idoneo per produrre raccomandazioni evidence based, ma anche qui non basta dichiararlo nei metodi della linea guida (come nel nostro case study hanno fatto i canadesi): bisogna dimostrare di aver seguito passo passo gli step previsti dal GRADE. Attenzione: il GRADE non elimina la soggettività insita in qualunque raccomandazione clinica, ma rende esplicite e chiare le dimensioni valutative che inducono il panel a decidere sulla forza (forte o debole) della raccomandazione e sulla sua direzione: rilevanza degli outcomes, precisione delle stime, congruenza dei risultati fra studi diversi, difetti metodologici degli studi primari, bilancio complessivo fra vantaggi e svantaggi, preferenze dei pazienti, costi e risorse. Solo e soltanto le raccomandazioni che tengono conto di tutti questi fattori si possono realmente considerare credibili.

In secondo luogo, non si vede proprio il bisogno che ogni società scientifica produca la sua linea guida su un argomento trito e ritrito. Nel caso della fibrillazione atriale, ne abbiamo analizzate ben tre, tutte rilasciate in un breve lasso di tempo e praticamente sulle stesse evidenze. Erano proprio necessarie o ne bastava una? Una maggiore coordinazione fra le medical specialty societies sarebbe quindi auspicabile.

Del conflitto d’interessi si è già detto, ma certamente le relazioni fra case farmaceutiche e società scientifiche specialistiche vanno riviste, per evitare che le loro linee guida non finiscano per diventare (sempre più) strumento di marketing surrettizio, invece che di orientamento clinico.

Vi è inoltre l’importante aspetto legato alla composizione del panel degli esperti ed estensori delle linee guida: medici generalisti, metodologi, pazienti dovrebbero affiancare in proporzione adeguata gli “esperti” per evitare il cosiddetto “good intention bias”. E’ noto che gli specialisti sovrastimano i benefici e sottostimano i rischi dei trattamenti e forniscono raccomandazioni tendenzialmente sbilanciate, pur se animati dalle migliori buone intenzioni.

Ma soprattutto, tenuto conto che gli strumenti di valutazione formale della qualità delle linee guida (come l’AGREE) non catturano adeguatamente la questione essenziale – cioè se le loro singole raccomandazioni sono affidabili o no e i nuovi criteri IOM sono forse troppo restrittivi per un loro utilizzo routinario, lo spirito critico degli utilizzatori rimane la migliore misura per favorire il miglioramento di questi strumenti decisionali. Un cosiddetto “public marketplace” delle Linee Guida, con “quotazioni” stabilite da un dibattito sul web, moderato, ospitato da una organizzazione autorevole, spassionato e pubblico del loro valore, come è stato suggerito, potrebbe essere un grande strumento a favore dei medici, pazienti e decisori. Oltre che degli estensori delle linee guida stesse, ovviamente.

COCHRANE CORNER: l’attacco acuto di emicrania in pronto soccorso

martedì, dicembre 10th, 2013

Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

@P_Balzaretti


La cefalea è un disturbo che causa una quota non indifferente di accessi in Pronto Soccorso. Nell’iter diagnostico, il primo passo è quello di escludere che si tratti di una forma secondaria a una patologia sistemica o primitiva del sistema nervoso centrale; quando queste possibilità sono state escluse con un sufficiente grado di sicurezza, si deve prendere in considerazione la possibilità di una cefalea primaria: tra queste quella di più frequente riscontro è l’emicrania.

Secondo le linee guida per la classificazione dei disturbi cefalalgici dell’International Headache Society, l’emicrania è un “disturbo cefalalgico ricorrente con attacchi della durata di 4-72 ore, tipicamente caratterizzati da dolore pulsante a localizzazione unilaterale, di intensità media o forte, peggiorato da attività fisica di routine e associato a nausea e/o fotofobia e fonofobia”. Un aspetto rilevante, per l’approccio in P.S., è la cronicità del disturbo: sono richiesti infatti almeno 5 episodi analoghi nella storia clinica del paziente per poter confermare la diagnosi. In uno studio del 2007, circa il 39% dei pazienti giunti in P.S. lamentando cefalea presentava i criteri per la diagnosi di emicrania dell’International Headache Society; la percentuale saliva al 60% dei pazienti con cefalea primaria (1).

Secondo l’americana Agency for Healthcare Research and Quality, negli Stati Uniti vi è una ampia difformità nella gestione della cefalea emicranica in urgenza e credo che questa considerazione sia valida anche per la realtà italiana. Farmaci ampiamente utilizzati per il trattamento di questo disturbo in urgenza sono gli anti-infiammatori e il paracetamolo. Nel corso del 2013 la Cochrane Collaboration ha pubblicato diverse revisioni sistematiche volte a valutare l’efficacia di questi farmaci, da soli o in associazione con un antiemetico, per il trattamento dell’emicrania.

Sintesi dei risultati

Sono stati presi in considerazione 5 studi che rispondevano a questo quesito: “in pazienti con un attacco acuto di emicrania l’impiego del farmaco x, associato o meno ad anti-emetici, è più efficace del placebo per controllare il dolore?”. In alcuni studi il confronto non avveniva con il placebo bensì con un triptano, ma di questi non tratteremo.

In tutti gli studi si fa riferimento a formulazioni somministrabili per via orale: ciò si adatta solo in parte alla realtà del Pronto Soccorso, dove spesso ricorriamo alla somministrazione di farmaci per via endovenosa. Tuttavia ritengo i risultati comunque rilevanti sia perchè si può ipotizzare che la somministrazione per via endovenosa sia quantomeno ugualmente efficace rispetto a quella per os, sia perchè questi risultati ci garantiscono la possibilità di fornire delle indicazioni ai pazienti su quali farmaci impiegare al domicilio per situazioni analoghe.

Nella tabella 1 sono riassunte le caratteristiche salienti delle revisioni sistematiche.

 

Studio

Confronto

Dosaggio

Studi

Pazienti

Derry 2013 (2)

Diclofenac vs. placebo 50 mg

5

1356

Kirthi 2013 (3)

Aspirina vs. placebo 900 o 1000 mg

13

4222

Aspirina + metoclopramide vs. placebo 900 mg + 10 mg

3

765

Derry 2013 (4)

Paracetamolo vs. placebo 1000 mg

11

2942

Rabbie 2013 (5)

Ibuprofene vs. placebo 400 mg

9

4373

Law 2013 (6)

Naprossene vs. placebo 500 mg o 825 mg*

6

2735

 

Tab.1 Caratteristiche delle revisioni sistematiche prese in considerazione. * non si sono registrate differenze significative tra i diversi dosaggi di naprossene.

Risultati

Per renderli confrontabili, i risultati sono stati presentati come number needed to treat (NNT). Questo parametro statistico indica il numero di pazienti cui è necessario somministrare un farmaco per ottenere un evento nell’ intervallo di tempo preso in esame. Si calcola con la seguente formula:

100

NTT =

|(Rischio nel gruppo di trattamento – Rischio nel gruppo sperimentale)| (in %)

 

Prendendo un esempio da i nostri dati, potremo dire che è necessario trattare circa 7 pazienti con ibuprofene affinchè un paziente risulti asintomatico per cefalea emicranica a due ore. Chiaramente, minore è il NNT, maggiore è l’efficacia del farmaco. Simmetricamente, il “number needed to harm” (NNH) indica il numero di pazienti cui è necessario somministrare il trattamento perché si verifichi un evento avverso; in questo caso, maggiore è il numero, maggiore è la sicurezza del farmaco. Per interpretare e confrontare gli NNT è necessario tenere conto che questi sono specifici per le caratteristiche di gravità del paziente e per il tempo di osservazione. Per esempio, non è possibile confrontare l’NNT dei beta-bloccanti per prevenire l’infarto miocardico tra pazienti in prevenzione primaria e pazienti che hanno già avuto una sindrome coronarica acuta, perché quest’ultimi presenteranno verosimilmente una situazione coronarica di base più compromessa. Allo stesso modo, non è corretto confrontare l’NNT di una statina per prevenire l’ictus in prevenzione primaria calcolato per un follow up di 5 anni e uno calcolato su un follow up di 10 anni. Per chi volesse approfondire, suggerisco due letture (qui e qui).

Come si può vedere nella tabella 2, il farmaco più efficace in acuto sembrerebbe essere l’ibuprofene, seguito dall’aspirina.

 

 

Confronto

Assenza di cefalea a 2 h (NNT)

Riduzione del dolore a 2 h (NNT)

Qualità dell’evidenza*

Ibuprofene vs. placebo

7,2 (5,9 – 9,2)

3,2 (2,8 – 3,7)

Moderata

Aspirina vs. placebo

8,1 (6,4 – 11)

4,9 (4,1 – 6,2)

Moderata

Aspirina + metoclopramide vs. placebo

8,8 (5,9 – 17)

3,3 (2,7 – 4,2)

?

Diclofenac vs. placebo

8,9 (6,7 – 13)

6,2 (4,7 – 9,1)

Moderata

Naprossene vs placebo

11 (8,7 – 17)

6 (4,8 – 7,9)

Moderata

Paracetamolo vs. placebo

12 (7,5 – 32)

5 (3,7 – 7,7)

Bassa

 

Tab.2 Risultati a breve termine del trattamento. * per entrambe gli outcome.Tra parentesi, gli intervalli di confidenza al 95%.

La perfomance risulterebbe simile anche per l’efficacia a 24 ore, come sintetizzato della tabella 3.

 

Confronto

Assenza di cefalea a 24 h (NNT)

Riduzione della cefalea a 24 h (NNT)

Qualità dell’evidenza*

Ibuprofene vs. placebo

No dati

4,0 (3,2 – 5,2)

Moderata

Aspirina vs. placebo

No dati

6,6 (4,9 – 10)

Moderata

Diclofenac vs. placebo

9,5 (7,2 – 14)

No dati

Moderata

Naprossene vs placebo

19 (13 – 34)

8,3 (6,4 – 12)

Moderata

 

Tab. 3. Risultati a lungo termine del trattamento. Non ci sono dati riguardanti l’associazione aspirina + metoclopramide e paracetamolo vs. placebo per gli outcome considerati. * per entrambe gli outcome.

Contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, il paracetamolo sembrerebbe correlarsi a un maggior rischio di eventi avversi, sebbene la qualità dei dati per questa analisi sia bassa.

 

Confronto

Almeno un evento avverso (NNH)

Qualità dell’evidenza*

Aspirina vs. placebo

34 (18 – 340)

Bassa

Ibuprofene vs. placebo

26 (15 – 100)

Moderata

Naprossene vs placebo

28 (15 – 130)

Bassa

Paracetamolo vs. placebo

21 (11 – 300)

Bassa

 

Tab. 4. Eventi avversi. NNH = number needed to harm. Per il diclofenac non era disponibile il NNH ma solo l’odds ratio. * per entrambe gli outcome.

Note: il ruolo della metoclopramide

L’impiego della metoclopramide per via endovenosa è stato introdotto da lungo tempo; il razionale risiederebbe nel trattamento sintomatico della nausea e del vomito (con relativo miglioramento della motilità gastro-intestinale, l’aumento dell’assorbimento e dunque della biodisponibilità del farmaco) (6). L’unica revisione sistematica che ho trovato sull’argomento risale al 2004 (7): per quanto riguarda il confronto con il placebo, venivano presi in considerazione 3 studi per un totale di 207 pazienti. L’odds ratio era pari a 2,84 (95% CI 1,05 – 7,68), favorendo il trattamento rispetto al placebo; la mia stima del NNT è 4,5 (95% CI non calcolabile)..

Conclusione

In conclusione, vi sono evidenze di moderata qualità che gli anti-infiammatori per via orale siano abbastanza efficaci per il controllo del dolore in corso di attacco emicranico acuto; si può supporre che le formulazioni per via endovenosa siano quanto meno altrettanto efficaci. L’associazione con metoclopramide per via endovenosa potrebbe ulteriormente potenziare questo effetto.

Bibliografia

  1. Friedman BW, Hochberg ML, Esses D, Grosberg B, Corbo J, Toosi B, Meyer RH, Bijur PE, Lipton RB, Gallagher EJ. Applying the International Classification of Headache Disorders to the Emergency Department: An Assessment of Reproducibility and the Frequency With Which a Unique Diagnosis Can Be Assigned to Every Acute Headache Presentation. Ann Emerg Med 2007; 49: 409-419. Link

  2. Derry S, Rabbie R, Moore RA. Diclofenac with or without an antiemetic for acute migraine headaches in adults. Cochrane Database of Systematic Reviews 2013; Issue 4. Art. N°: CD008783. Link

  3. Kirthi V, Derry S, Moore RA. Aspirin with or without an antiemetic for acute migraine headaches in adults. Cochrane Database of Systematic Reviews 2013; Issue 4. Art. N°: CD008041. Link

  4. Derry S, Moore RA. Paracetamol (acetaminophen) with or without an antiemetic for acute migraine headaches in adults. Cochrane Database of Systematic Reviews 2013; Issue 4. Art. N°: CD008040. Link

  5. Rabbie R, Derry S, Moore RA. Ibuprofen with or without an antiemetic for acute migraine headaches in adults. Cochrane Database of Systematic Reviews 2013; Issue 4. Art. N°: CD008039. Link

  6. Law S, Derry S, Moore RA. Naproxen with or without an antiemetic for acute migraine headaches in adults. Cochrane Database of Systematic Reviews 2013; Issue 10. Art. N°: CD009455. Link

  7. Colman I, Brown MD, Innes GD, Grafstein E, Roberts TE, Rowe BH. Parenteral metoclopramide for acute migraine: meta-analysis of randomized controlled trials. BMJ 2004; 329 (7479): 1369-73. Link





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