IL BLOG DI SIMEU

 

Archive for maggio, 2023

“Infermiere! Infermiere!”

lunedì, maggio 29th, 2023

di Anna Arnone

 

È questa la parola più pronunciata, urlata, sussurrata e ascoltata durante il giorno in quel tumulto di voci, allarmi, campanelli, rumori di passi, grida, silenzi.

 

Nella Medicina d’Urgenza dell’ospedale più grande del Mezzogiorno il tempo non ha misura e il giorno si confonde con la notte. In un continuo susseguirsi di incessanti turni dal momento in cui il paziente viene preso in carico nell’unità operativa fino alla sua dimissione.

 

Quando il paziente accede in questo nuovo confine si sente smarrito, disorientato, spesso non ha con sé un cellulare per parlare con i suoi cari, sta terribilmente scomodo su una barella che l’ha trasportato dal pronto soccorso, si sente solo, un peso.

 

Ed è qui che l’infermiere entra in scena, gli spiega dove si trova e quale trattamento dovrà fare, gli chiede di cos’ha bisogno; il care e il core diventano indissolubili, con un meccanismo innato e autentico. In altre circostanze non c’è tempo di parlare, bisogna fare presto, è necessario correre e tirare fuori il paziente dal vortice dell’emergenza: un arresto cardiaco improvviso allertato dai monitor appena posizionati, un’insufficienza respiratoria contenuta con la ventilazione non invasiva prontamente collocata attraverso una maschera facciale che non lascia spazi sul volto.

 

C’è fame d’aria e c’è fame di salvezza.

 

In questi ultimi tempi anche l’infermiere ha fame d’aria: deve proteggersi e deve proteggere, deve coprirsi e deve coprire naso e bocca.

Ma non basta.

Bisogna vestirsi interamente, lasciando scoperti gli occhi visibili solo attraverso una visiera. “C’è il Covid qui? Io voglio andare a casa! Ho paura!”

Lo smarrimento cresce e lascia posto all’angoscia.

“No signora, stia tranquilla, stiamo proteggendo noi e soprattutto voi!” è questa la frase più detta durante la giornata.

A volte non basta, bisogna ripeterlo più e più volte.

 

La Medicina d’Urgenza non è solo una Medicina d’Urgenza, ma è una porta di accesso dal mondo esterno, quasi diretta sul pronto soccorso, un tempo un lazzaretto sovraffollato di folle di parenti accanto ai propri cari, barelle vicinissime senza alcun distanziamento e ora solo un triste ricordo.

 

Quella porta accoglie da sempre come oggi tipologie diverse di pazienti verso i quali è richiesta una forte competenza infermieristica, eterogenea, complessa, efficace al fine di saper rispondere agli specifici bisogni dell’individuo.

 

Non si tratta solo di un ruolo ma una sfida continua con sé stessi e un lavoro di team numeroso, compatto e per questo vincente.

 

Specialisti in pionierismo

lunedì, maggio 15th, 2023

di Alessandro Salzmann

La nascita della Specializzazione in Medicina d’Emergenza-Urgenza ha rappresentato un evento storico per la medicina italiana.
Al di là di un folkloristico interesse che l’emergenza suscita tanto nello studente quanto nel medico pensionato (che spesso si esprime con una concezione trasfigurata dello specialista MEU, del tipo: “Anche io sono un medico d’emergenza-urgenza, perché ho trasportato due volte un paziente in ambulanza”), la MEU è una disciplina di cui avevamo bisogno e che ha segnato senza dubbio un progresso per l’organizzazione delle cure in Italia.
 Chi ha scelto di percorrere questa strada, tuttavia, lo ha fatto più o meno consapevolmente per una fascinazione verso un progetto più ambizioso rispetto ad un tradizionale percorso che avrebbe perseguito all’interno di una qualsiasi altra specializzazione (anche se lo scontro tra vecchio e nuovo rappresenta una sfida in qualsiasi ambito).
Ho iniziato la scuola di specializzazione nel 2017 e insieme alla mia collega Silvia siamo stati i primi specializzandi MEU dell’Università di Chieti-Pescara.
Essere pionieri è una bella sensazione, soprattutto all’inizio. Nessuno capisce esattamente cosa sei e nei casi fortunati capita che ti accarezzino i capelli, sorridendoti compiaciuto per aver scoperto che esisti, oppure che pensino “quanto sono carini questi MEU appena arrivati”, quasi fossi un bassotto trotterellante per i corridoi ospedalieri.
Tuttavia questa tenerezza viene rapidamente sostituita da altre sensazioni non altrettanto piacevoli, questo perché essere pionieri comporta molte responsabilità e grande sacrificio, a maggior ragione per coloro che si ritrovano ad operare in zone d’Italia dove la specializzazione MEU si può trovare scritta solo nei quotidiani nazionali.
Se durante gli anni di specializzazione ci si ritrova in gruppi di specializzandi che divergono prevalentemente su grossolani obiettivi professionali e di vita, una volta terminati i cinque anni ognuno prende la sua direzione e va a collocarsi in aree geografiche diverse.
E’ da quel momento che iniziano le prime vere soddisfazioni tanto quanto i veri dolori, che spesso nascono proprio dalla condivisione del lavoro con le più disparate tipologie di colleghi, con cui la convivenza professionale può risultare davvero complicata.
D’altronde però anche questo è processo fisiologico ed è uno dei prezzi da pagare allo scopo di raggiungere l’obiettivo della diffusione del verbo della MEU anche negli angoli più remoti del Paese.
Eppure al di là di questa retorica è necessario scontrarsi con una realtà indiscutibile.
Padroneggiare determinate conoscenze e abilità rappresenta per lo specialista MEU una prerogativa fondamentale affinché la nostra disciplina si distingua dalle altre e allo scopo di raggiungere l’autonomia necessaria a distinguerci rispetto al passato, ma accade spesso che noi giovani specialisti MEU arriviamo al titolo di specializzazione con un bagaglio teorico e ancor più spesso pratico non adeguato, perlomeno rispetto a quello che avremmo voluto e dovuto raggiungere.
Ciò accade non necessariamente e solamente a causa nostra, ma perché i percorsi formativi ideali si scontrano con sistemi e protocolli che mal combaciano con le nostre necessità formative. Quel che non ci era stato detto all’inizio (o meglio, che non avevamo pensato prima di iniziare i cinque anni) è che essere pionieri della MEU sarebbe potuto significare anche lasciarsi indietro qualcosa in termini di formazione.
E’ probabile che alcuni di noi si siano immaginati parte di una rivoluzione già scritta e apparecchiata, scoprendo poi che le cose non vanno esattamente in questo modo; tuttavia è altrettanto vero che i sistemi in cui ci troviamo a lavorare spesso necessitano di una ristrutturazione quasi completa, processo che necessita di tempo e abnegazione.
Esempi banali:
> a cosa serve conoscere a memoria l’ATLS se nell’ospedale in cui lavoriamo il paziente traumatizzato è destinato per protocollo, scritto o meno, ad essere sottoposto ad una TC total body e io il drenaggio toracico comunque non mi sento in grado di posizionarlo?
> Che senso ha conoscere a memoria le linee guida sulla sepsi se dal laboratorio scendono a linciarti ogni volta che richiedi le emocolture in PS?
Questi e innumerevoli altri cortocircuiti possono rappresentare una delle molteplici cause alla base degli abbandoni della MEU, in entrata (vedi la voce “borse non assegnate”) o ancor più in uscita. 
La realtà è che il nostro ruolo, specialmente in quelle zone d’Italia dove la MEU è ancora soltanto una sigla, non si esplica soltanto nella rappresentazione di uno specialista con competenze nuove, ma anche soprattutto attraverso un lavoro più complicato di mediazione con la dirigenza, i colleghi e con tutti i membri del team.
Alle necessarie competenze di base, che durante gli anni professionali devono essere rinnovate da un costante aggiornamento e dalla volontà di riempire i vuoti di una preparazione non sempre adeguata, si affianca un’attitudine e una capacità a guidare il cambiamento verso un modello di gestione nuovo, in cui la figura dello specialista MEU abbia il ruolo che gli spetta.
Non c’è dubbio sul fatto che il nostro sia un compito ancor più difficile di quel che immaginavamo prima di iniziare i cinque anni di specializzazione, soprattutto in un sistema compromesso come quello in cui ci troviamo ad operare nel SSN.
Tuttavia può essere utile avere una visione di speranza così come la intende Václav Havel:  “La speranza non è ottimismo/La speranza non è la convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo/La speranza è la certezza che ciò che stiamo facendo ha un significato/Che abbia successo o meno…”, perché nel grande marasma che viviamo possiamo trovare la base per un vero e sostanziale cambiamento.

 





SIMEU - SOCIETA' ITALIANA di MEDICINA D'EMERGENZA-URGENZA

Segreteria Nazionale:
Via Valprato 68 - 10155 Torino
c.f. 91206690371 - p.i. 2272091204

E-mail: segreteria@simeu.it
pec: simeu@pec.simeu.org
Tel. 02 67077483 - Fax 02 89959799
SIMEU SRL a Socio Unico

Via Valprato 68 - 10155 Torino
p.i./c.f. 11274490017
pec: simeusrl@legalmail.it