IL BLOG DI SIMEU

 

Archive for the ‘Storie’ Category

MEDICINA E MEDICINA D’URGENZA PER GIUNTA!

lunedì, aprile 15th, 2024

di Giacomo e Vincenzo (papi) Menditto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Motteggi tra padre e figlio

 

“Un’idea di strada quindi, per quanto appena abbozzata e già piena di buche e ostacoli, io la ho già: voglio iscrivermi a Medicina per fare l’Urgentista!

 

Un vero e proprio attentato alle mie povere coronarie di padre quasi cinquantenne – io che ho provato a controllare fino ad ora tutti i fattori di rischio cardiovascolari non genetici – arriva da chi meno te lo aspetti:

mio figlio Giacomo, ultimo anno del Liceo.

 

E, aggiungo, tirato su fin da tenera età con l’unico intento di evitargli di diventare un medico (sob).

 

“Ok” dico, “allora cominciamo proprio dalle buche:

lo sai che ti aspettano anni di notti da passare in Pronto Soccorso e Medicina d’Urgenza?

Starai quasi sempre in piedi e alla fine del turno sarai stanco ed annientato.

Poi ti aspettano così tanti weekend con turni mattutini o pomeridiani che ‘spezzano’ le giornate alla grande che alla fine non saprai neppure più cosa significa la parola ‘finesettimana’: venerdì pomeriggio-sabato-domenica, sabato-domenica, domenica?

E non potrai nemmeno protestare più di tanto perché lavorerai a stretto contatto con i tuoi amici di sventura Infermieri che fanno orari tipo 6-14, 14-22 o 22-6 o, se proprio va bene, 7-14 e 14-21 ed una notte ogni 4 giorni …”

 

“Vogliamo passare agli ostacoli?

Troverai figli di papà, raccomandati, baroni a bizzeffe, donne e uomini spietati, arroganti, presuntuosi come in tutte le professioni, ma i veri ostacoli saranno in te, nelle tue preoccupazioni e nella tua coscienza …

Ti troverai, come me a suo tempo, a vedere i cartelli necrologici per strada insieme ai vecchietti già a 26 anni con il timore di riconoscere un nome in un tuo paziente (che speri di non avere dimesso).”

 

“Gli scrupoli per non avere fatto abbastanza saranno le tue Erinni perenni e, come i migliori investigatori, come Poirot, Scherlock o Montalbano, non ti ricorderai dei casi (clinici) brillantemente risolti, no!

Avrai davanti agli occhi quelli delle persone che non sei riuscito a salvare, anche se magari era impossibile farlo.”

 

Mi dici: “io voglio e diventerò un medico perché so essere la mia passione ed è quello che mi immagino di voler fare per i prossimi cinquant’anni.”

 

“Ecco” ti rispondo subito “lo Stato ti prenderà in parola e non ti permetterà di andare in pensione senza 50anni di lavoro!!! Questo almeno se rimani in Italia e non te lo consiglio! Abbiamo gli stipendi più bassi d’Europa o quasi, e se fai l’Urgentista non potrai nemmeno fare la Libera Professione.

In pratica, tu salverai vite umane a tonnellate ed i tuoi colleghi cureranno persone e avranno stipendi da intra-moenia molto più alti dei tuoi.

Non so chi te lo fa fare!”

 

“Ecco” replica lui, “le parole ‘non so’ dovrebbero essere alla base di qualsiasi lavoro, specialmente quello del medico …”.

 

Provo a controllarmi, ma non ci riesco.

“Non so dici: non saprai mai tante cose perché rischi di essere condannato civilmente e penalmente ogni giorno, perché rischi di prenderti le mazzate mentre fai il tuo lavoro, perché un giorno ti chiamano eroe e l’altro farabutto …”

 

“Dai papi, ne riparliamo…adesso vediamo insieme la TV, danno Doc o forse ER, due patatine e ci rilassiamo, ba bene (come diceva quando era piccolo)?”

 

“Ok” mi ha già convinto con il suo sguardo bello e speranzoso…

 

Penso che le serie TV mediche sono quasi tutte ambientate in una Emergency Room, che in fondo in Italia abbiamo solo sbagliato il nome, ma fare l’Urgentista è bellissimo!

 

 

 

Gli affetti altrui.

domenica, marzo 31st, 2024

di C.B. DEA Santa Maria Annunziata

 

Fin dai primi tirocini, la maggior parte degli studenti di infermieristica è bramosa di svolgere parte della propria formazione in un particolare Setting: il DEA.

L’idea di affinare tecniche e conoscenze in situazioni in cui il tempo è davvero prezioso, è estremamente eccitante.

 

In questo Setting vengono messi a dura prova i nervi e le capacità di ogni professionista che, sotto la pressione dei codici incalzanti, è tenuto non solo ad agire tempestivamente, ma anche a saper rispondere in maniera coerente, efficace ed efficiente alle improvvise e diverse esigenze che gli si presentano.

La frenesia che si continua a percepire anche dopo la Laurea è questa: ci aspetta una sfida ogni giorno!

Affiancamento dopo affiancamento, tra un corso di formazione e l’altro, l’Infermiere acquisisce sempre maggiori competenze che  vanno a costituire un bagaglio personale che si potrà poi utilizzare in ogni altro Setting lavorativo successivo.

 

Dal punto del coinvolgimento è un ruolo tanto provante quanto gratificante, anche se a volte ci capita di trascurare il lato emotivo di noi stessi e delle situazioni, delle persone, in cui ci imbattiamo durante il turno lavorativo.

Ad esempio la signora con frattura di femore è molto di più di un caso clinico! E’ una settantanovenne che vive sola, lontana dalla famiglia, amante dei reality show che la sera, per tenersi compagnia, passa le ore al telefono con la nipote.

Oppure, il ventenne che si è lacerato una falange, ha appena iniziato il suo primo impiego ed è preoccupato per il posto di lavoro.

 

Il nostro ruolo è denso di relazioni umane, cosi come lo è anche di coinvolgimento personale anche se, in prima battuta, la natura del Setting ci spinge ad essere estremamente competenti nella parte tecnica. Dopo una più attenta riflessione ci possiamo però  rendere conto che esige anche un grande coinvolgimento dal punto di vista relazionale.

 

Negli ultimi due-tre anni, come mai prima l’Infermiere è stato chiamato a rispondere a situazioni nuove e mutevoli, a partire dall’esperienza della pandemia iniziata nel 2020.

L’infermiere di Pronto Soccorso non è solo colui, che insieme al resto dei professionisti sanitari, è tenuto a rispondere alle esigenze della popolazione in modo rapido e efficace, ma è colui che ha dovuto imparare a gestire il problema delle distanze, delle solitudini, delle emozioni profonde e purtroppo spesso anche del lutto attraverso un filtro.

Ovattato nella sua bolla, separato da strati di guanti e materiale isolante, si è improvvisamente dovuto far carico di tante cose di grande impatto umano.

 

Il gap non è stato solo di tipo fisico, ma anche e soprattutto emozionale: la situazione creata dalla pandemia covid ci ha portato a dover imparare a salutare i cari morenti di fatto soli, ove possibile, attraverso non solo tute impermeabili, ma a volte attraverso uno schermo.

Negato il calore di una carezza, di una mano amica: abbiamo assistito a situazioni pesanti come amici che non si sono più visti, mogli e mariti che non si sono più baciati, figli e figlie, madri e padri che non si sono più abbracciati per un ultimo saluto.

 

Per noi infermieri è stata un esperienza disarmante: non aver avuto più tempo in una condizione in cui il tempo era già di per se sfuggente.

È come se una situazione già gravosa di per sé a causa della natura della morte stessa e della fatalità della vita, dove vige un senso incolmabile di dolore, a volte rancore e amarezza si fosse ulteriormente appesantita.

 

In quel momento la figura onnipresente con i pazienti dell’infermiere ha svolto un ruolo fondamentale. Gestire i processi della malattia non è mai semplice, ancora meno lo è stato ostacolati da una pandemia mondiale dove tutti erano a rischio e nessuno poteva assistere direttamente il proprio caro. L’Infermiere  a questo punto si è fatto carico anche degli affetti altrui.

 

L’idea di conforto sia per chi esalava gli ultimi respiri, sia per i familiari lontani, passava proprio attraverso la figura che in quel momento assisteva h24, minuto dopo minuto le persone, le uniche figure a poter essere in qualche modo vicine a chi soffriva in quel momento delicato.

Se prima questo ruolo era affidato alla famiglia, in quel momento era diventato del tutto nostro.

 

Forse questa esperienza ci è servita a sviluppare in questi anni successivi una diversa consapevolezza ed un’ attenzione maggiore all’importanza delle relazioni umane, anche nella quotidianità attuale al di fuori dalla bolla covid.

 

Anche dove e quando i minuti sono davvero contati, la qualità della relazione umana può fare la differenza.

 

CI SONO GIORNI.

venerdì, dicembre 22nd, 2023

di Roberta Marino

Vercelli

 

Ci sono giorni in cui vedo la luce in fondo al tunnel con la certezza che non si tratti di un treno né di una esperienza di pre morte.

 

Un* specializzand* MEU da quasi un anno vegetava in attesa di rifare il concorso di specializzazione per andare a fare anestesia e rianimazione, avendo deciso che non voleva più fare MEU.

 

L* mandano da noi, “tanto quest* poi molla a ottobre”, della serie “non vale la pena investirci”. Noi però investiamo sempre nei giovani, perché siamo fatti così, perché così abbiamo visto fare con noi quando eravamo giovani.

 

Ebbene il concorso l’ha fatto, è brav* e quindi è entrat* nella scuola di anestesia che preferiva, ma intanto frequentava attivamente, imparava in fretta, sembrava content*, dava l’idea (e la verbalizzava pure) che qualcosa nelle sue convinzioni si stesse incrinando.

 

Oggi ha consapevolmente lasciato scadere il termine per presentare l’iscrizione.

È MEU, ama la MEU, resta MEU.

È felice, lo leggi nei suoi occhi, sa di aver scelto la cosa giusta per l*i.

 

Noi siamo ancora più felici: siamo riusciti a far capire a un* giovane MEU in crisi che il nostro, nonostante tutto, è ancora il mestiere più bello del mondo.

 

Ma la cosa più soddisfacente è che l’ha capito guardando noi, vedendo quanto soddisfatti siamo, vedendo che un’organizzazione del lavoro decente e la voglia di tutti di fare bene questo mestiere può fare la differenza anche in un periodo storico come questo, tra mille difficoltà, carenze di personale e tutti i problemi che conosciamo.

 

La considero una grandissima vittoria della MEU fatta bene.

La considero una svolta vera e ancora mi commuovo a pensarci nonostante i miei oramai quasi vent’anni di anzianità di servizio.

Ci credo ancora, qui ci crediamo ancora tutti.

E riusciamo anche a “venderla” a chi aveva già rinunciato a crederci.

 

Se stai sorridendo è perché ci credi ancora pure tu ed è per quello che volevo sapessi questa storia a lieto fine.

 

Giovan* professionst* alla Summer School SIMEU 2023

 

Aria acqua terra e fuoco.

martedì, dicembre 5th, 2023

di Francesca O – Specializzanda MEU

 

In principio era dio.

E poi ci fu la filosofia.

Qualcuno pensó che fosse l’acqua il principio di tutte le cose.

Nulla esiste senza l’acqua.

È quella che in turno ci aspetta e che non beviamo mai, quella che diamo ai nostri pazienti, quella che diluisce i nostri farmaci, che pulisce e lenisce le ferite.

Il sudore, le lacrime.

Ma anche la doccia fredda nel dire al nostro paziente o ai familiari che le notizie non sono tanto buone.

Potrebbe essere.

 

Qualcun altro invece disse è sicuramente l’aria. Non ha limiti nè forma.

 

In effetti l’aria è quella che ci manca quando corriamo per gestire un codice rosso, quella che ci aiuta quando un paziente non respira più o lo fa male, quella che veicola i suoni, le parole. Quella dove a volte galleggiano i nostri sogni.

Il soffio, il respiro, la vita.

Potrebbe essere..

 

E poi ..

arrivó il fuoco.

Perennemente in movimento, che non si ferma mai.

È quella fiammella che ci accompagna nella vita di tutti i giorni, che talvolta tentenna e talvolta fa una gran luce e che si spera non si spenga mai.

E’ il fuoco che ci arde dentro, il fuoco sacro dei MEU come qualcuno un giorno l’ha definito.

 

E la terra?

La terra è sotto i nostri piedi, sulle nostre mani. A volte sporca le ferite e soffoca i pensieri.

Tutto ciò che è tangibile, concreto, le fondamenta e le radici che ci tengono saldi e ancorati a terra. E che il più delle volte diamo per scontato.

 

 

Ma forse potrebbero essere tutti insieme.

I quattro elementi. E i loro contrari.

 

Amore e odio. Unione e separazione.

Non come bene e male. Entrambi hanno un lato positivo e uno negativo.

Cercano l’equilibrio.

 

È vero che non possiamo entrare due volte nello stesso fiume?

Forse non solo le acque saranno diverse. Forse lo saremo anche noi.

 

Tutto ciò di cui abbiamo esperienza si trasforma, ci trasforma.

 

Dobbiamo separarci, trasformarci per poi unirci e ritrovarci interi.

Ma tutto questo è niente senza la conoscenza. E la condivisione.

 

Forti di tutto questo, consapevoli che a volte i quattro elementi e noi stessi saranno dalla nostra parte e talvolta no.

Ma sempre, come nei giorni di lavoro e formazione, insieme.

 

In fondo i quattro elementi siamo noi..❤️

 

NUOTARE CONTROCORRENTE

sabato, ottobre 14th, 2023

Sul recupero dell’esperienza ed il riconoscimento del lavoro.

Cosa succede in Friuli Venezia Giulia?

di Lorenzo Iogna Prat

 

Braccia e gambe si muovono ritmicamente, il respiro si sincronizza con la rotazione della testa. Uno sforzo non indifferente. Per rimanere fermi, lì dove ci si trova. Non un metro in avanti. Fermi. Si potrebbe dire lo stesso di chi pedala su una cyclette, corre su un tapis roulant o lavora in un pronto soccorso/medicina d’urgenza di un sistema fino a pochissimi anni fa eccellente, attrattivo e punto di riferimento per molte altre realtà italiane.

 

Un impegno che mette in crisi anche il più solido e motivato degli infermieri e dei medici. È umano. Tutti vorremmo che i nostri sforzi si traducessero in un miglioramento tangibile, in una qualche forma di riconoscimento. E invece dobbiamo accontentarci di non retrocedere. Ma non retrocedere – oggi – è il vero successo e il valore aggiunto sul mercato. Perché il continuo affaccendarsi nella ricerca di soluzioni innovative alla crisi dei sistemi di emergenza sarebbe molto meno gravoso se sapessimo su quale tesoro siamo seduti, su quale capitale culturale possiamo (potevamo?) contare per gli investimenti futuri.

 

Ho avuto la fortuna di crescere e formarmi come medico d’emergenza-urgenza in un contesto d’ avanguardia che dalla fine degli anni ’90 fino a poco prima della pandemia ha saputo creare e promuovere innovazioni assistenziali come le Aree di Emergenza – reparti intensivi e semintensivi a vera gestione multidisciplinare con la regia del medico d’emergenza distribuiti negli ospedali di rete e connesse all’Hub da percorsi ben definiti – accanto a professionisti che hanno acquisito e tramandato conoscenze e competenze tali da essere autonomi in un ampio spettro di scenari clinici propri dell’emergenza-urgenza, hanno avuto una propensione straordinaria al pensiero critico, all’aggiornamento e con un’etica del lavoro invidiabile.

 

Qui si lavorava da “Emergency Physicians” quando in molte altre realtà italiane non si sapeva nemmeno che cosa fosse. Quando si scoprì l’osservazione breve intensiva (OBI) qui si erano già stufati di applicarla. Una grossa spinta dal basso per migliorare i percorsi di formazione specialistica della neonata scuola di medicina d’emergenza-urgenza per renderli coerenti con le competenze richieste dalla professione. Era un sistema terribilmente efficiente e si basava su persone intraprendenti e visionarie messe in un contesto favorevole alla sperimentazione.

 

Fateci caso, molti dei grandi eventi (concerti, spettacoli…) hanno la loro prima in Friuli Venezia Giulia, luogo fuori dai canali “main stream” dove sia i successi che i fallimenti ricevono l’assoluzione riservata alla periferia dell’impero.

 

Ammetto che c’è un che di autoreferenziale e un po’ di autocompiacimento in questa narrazione perché il grande errore e il più grande rimpianto è stato di non aver saputo raccogliere e analizzare sistematicamente i dati di attività e promuoverli come la realtà dei fatti avrebbe richiesto. Tant’è.

 

Ho lavorato anche in strutture dove questo percorso culturale non era mai stato fatto e si era rimasti fermi a un buon ventennio addietro. Lì ho sperimentato sulla mia pelle quell’adagio pungente ripetuto dal mio saggio primario e più grande maestro: “se mi guardo sono un cesso, se mi confronto sono un successo”.

E oggi assisto alla resa quasi incondizionata di gran parte degli ospedali della mia regione a soluzioni di compromesso al ribasso (e che ribasso!), dove l’unico criterio rimasto è “basta un nome in una casella” e ci si è arresi alla logica del “non c’è altra scelta”. Ma sarà vero?

 

La storia ed il presente la fanno sempre le persone che in esso operano.

Oggi resiste qui un manipolo di medici e infermieri che continuano a svolgere con dedizione il proprio lavoro, con l’ago della bussola diretto alla qualità delle cure, all’appropriatezza, all’umanità e con l’entusiasmo di chi sa di stare dalla parte giusta.

Chi lo fa per vizio di forma (sei stato formato così, non puoi farci niente), chi per affinità elettiva. Li troviamo sparsi in tutti gli ospedali, cellule di resistenza civile che non si arrendono al degrado e frenano lo scivolamento lungo il piano inclinato dove il sistema sanitario ci ha lasciato.

 

Nell’ospedale in cui lavoro, ogni tanto mi guardo attorno e riconosco nelle persone che lavorano accanto a me i personaggi della saga di Asterix. Avete presente il villaggio gallico che resiste ora e sempre all’invasore romano?

Un manipolo di professionisti di ogni ordine e grado che lavora coordinato per mantenere un “vivaio” di conoscenze e competenze da applicare nell’attività di ogni turno e trasmettere ai giovani colleghi che ardiscono avventurarsi lassù. Con la differenza di non poter disporre di alcuna pozione magica cui attingere nel momento del bisogno.

 

Nessuna sindrome da accerchiamento né vittimismo: solo consapevolezza di ciò che accade nella realtà quotidiana. Confermata da tanti altri esempi di pronto soccorso/medicine d’urgenza nel nostro paese dove la qualità del lavoro, l’attenzione alla formazione e al lavoro in team crea attrazione.

 

Sempre il mio maestro di cui sopra da un po’ di tempo propone un motto tipico della finanza: “buy the dip”, compra quando il titolo è in calo.

Un invito a scegliere il nostro lavoro nel momento in cui il “mercato” non lo sta premiando. Confesso che all’inizio lo trovavo un po’ ingenuo ma masticandolo meglio è forse la chiave per interrompere quel maledetto circolo vizioso che porta la carenza di personale ad essere causa ed effetto della fuga dall’emergenza-urgenza.

 

Il rischio dell’investimento è mitigato dalla consapevolezza che un medico e un infermiere capaci, autonomi e consapevoli della propria insostituibile funzione avranno sempre un posto da protagonisti nella cura delle persone, nel mantenimento di un sistema sanitario che costi poco e renda molto e, in fin dei conti, nella difesa dei principi di democrazia.

 

È fuori dubbio che questo passi per un sostanziale miglioramento delle retribuzioni, commisurato al reale lavoro svolto. Per inciso, riporto qui una riflessione generale non scontata sul rapporto tra utilità sociale dei lavori e rispettiva retribuzione https://neweconomics.org/2009/12/a-bit-rich).

 

Nuotare controcorrente assume anche un altro valore.

Mantiene pronti e allenati i muscoli e la testa, ti ricorda cosa hai fatto per arrivare lì e qual è il tuo obiettivo.

E, perché no, ti permette di sognare l’oro alla prossima olimpiade.

 

firmato da un Medico d’Emergenza-Urgenza

Pronto Soccorso/Area di Emergenza Ospedale “S. Antonio Abate” – Tolmezzo (UD)

 

Sasso, carta, forbici.

venerdì, settembre 15th, 2023

di Claudia Sara Cimmino

Ricordate il gioco che si faceva da bambini?

Sasso carta forbici.

Chi perde beve!

 

Sasso carta forbici. Sasso.

Luana viene in una notte di aprile del 2021 riferendo di aver avuto un incidente stradale.

Lamenta dolore al rachide cervicale e all’ emicostato di destra. Nulla di rotto e torna a casa con una prognosi di qualche giorno.

 

Torna a distanza di un anno esatto riferendo più o meno la stessa dinamica ma questa volta all’esame obiettivo viene segnalato qualche “livido” in più.

Torna a luglio di quest’anno, sempre di notte e riferisce di essere caduta dalle scale. Ha ecchimosi su entrambe le braccia, un labbro tumefatto e una ferita al sopracciglio destro. “Come sei caduta Luana questa volta?”. Arriva il padre che mi guarda dritto negli occhi e dice in maniera perentoria: “Dottorè è caduta, chella è ‘nu poco distratta”.

 

Lei è ormai ubriaca. “Bevi ancora, hai perso bevi!”

 

Sasso carta forbici. Carta.

Paola arriva in PS riferendo un trauma al polso destro.

Sono le 10:00 del mattino di un sabato di settembre e lei ha una sottoveste e uno stivaletto ghepardato.

“Dottorè sono stata pure in un altro pronto soccorso ma la radiologia non funzionava e mi hanno detto di venire qua!”.

Non c’è solo alcool nei suoi bicchieri.

 

Sasso carta forbici. Forbici

Nadia non ha più un coltello in cucina.

Li ha tolti tutti da quando il marito ha preso l’abitudine di accarezzarla con le lame. Ha dimenticato le forbici però e una mattina arriva da noi a mostrarci le “carezze” ricevute.

 

Sasso carta forbici.

Ora ha perso i sensi, è il momento ideale!

 

Camilla ne vede e ne sente dalla mattina alla sera di tutti i colori.

Non è una sprovveduta. Una sera accetta un invito a cena da un amico conosciuto a lavoro e si ritrova costretta ad “aprire le gambe” con una pistola puntata alla tempia.

 

Basta con sasso carta forbici, cambiamo gioco!

 

Moma viene dall’Africa.

Parla poco ma i suoi occhi parlano per lei.

Trauma cranico. Le sue treccine sono intrise di sangue e ha un occhio gonfio, deformato dalle botte.

Che importa se siamo tanti contro una. È solo una ragazza!

 

Irina ha lasciato il suo Paese.

Viene con la figlia di 16 anni che in un ucraino-napoletano descrive tutta la scena dello “strascino”. Ovvero il compagno della mamma che bussa alla porta e l’afferra per i capelli buttandola giù per le scale del pianerottolo.

Così, quella sera gli andava così.

“Dottora le avevo comprato la friggitrice ad aria per il suo compleanno, ho deciso di dargliela quella sera perché non si può andare a dormire con il cuore triste.”

 

Quello che è successo recentemente a Palermo è solo una delle tante storie dell’orrore espressione di un mondo malato. E allora?

Se ne sentono e se ne vedono tutti i giorni di queste storie diventate ormai una terrificante normalità nella nostra società. È una questione di cultura. È una questione “sociale”.

 

Sasso carta forbici. Non è più un gioco da ragazzi.

Non è un gioco!

 

Luana, Paola, Camilla, Moma e Irina sono molto diverse tra di loro. Vengono da ambienti e culture diverse ma chissà perché hanno una cosa in comune: sono vittime di VIOLENZA.

 

Le donne di cui ho parlato hanno nomi immaginari ma le ho conosciute tutte e le loro storie sono tutte vere. Quello che è accaduto a Palermo mi ha fatto pensare a loro. E mi ha fatto riflettere su quanto sia importante ESSERCI per loro.

 

Anche qui si vede la differenza.

 

I medici e gli infermieri di urgenza sono quelli in grado di riconoscere queste donne anche quando comunicano il loro dolore solo con lo sguardo perché spesso l’orrore vissuto non riesce ad essere spiegato con le parole.

 

L’urgenza sta nel creare il percorso.

L’emergenza nel farle sentire protette.

 

Un’altra donna al triage … sasso carta o forbici?

Il pronto soccorso ed i libri. Leggere crea indipendenza.

martedì, agosto 29th, 2023

di Marina Civita

 

Il pronto soccorso è una fonte incredibile di storie.

Spesso penso che chi lavora nell’ambito della nostra disciplina potrebbe, se tempo avesse, scriverle per narrarle.

 

Le storie che viviamo quotidianamente non vengono lasciate sul posto di lavoro, diventano parte integrante delle nostre giornate, i racconti che portiamo a casa. Noi stessi siamo parte di queste storie e credo, che al di là delle innegabili difficoltà, “siamo le persone che siamo” grazie al nostro lavoro che, ogni giorno, ci insegna quanto queste storie ci possano ricordare quali sono davvero le cose importanti e quanto siamo fortunati rispetto ad altri ad avere l’occasione di ricordarlo.

 

Ci sono molti libri che si possono legare a questi concetti, ma forse uno di quelli principali, che staziona sul mio comodino e mi aiuta nei momenti di sconforto, è quello di Randy Pasch – L’ultima lezione. Me lo ha fatto leggere una persona che è stata per me e per molti di noi una guida professionale fondamentale: Gian Alfonso Cibinel.

 

Sempre sul mio comodino, da anni, non può mancare un libro che molti di noi hanno letto, che rimane in qualche modo il mantra della nostra professione: “mi chiamo Pierluigi Tunesi ma per molti semplicemente il letto 7”, un reparto di sub-intensiva visto con gli occhi del malato. Ricordarsi il punto di vista del paziente e il suo nome fa parte della nostra storia.

Cosa sognano i pesci rossi – Marco Venturino

 

La medicina d’emergenza urgenza da’ una risposta a tanti bisogni di salute e a tante persone che si recano in pronto soccorso con storie di abusi, disagi o malattie psichiatriche. Queste situazioni sono purtroppo in incremento esponenziale e potremmo narrarne tutti i giorni di diverse. Le vite difficili delle persone che incontriamo ci colpiscono nel profondo e ci capita spesso di ritrovarle raccontate da altri:

Una vita come tante – Hanya Yanagihara

Donne che amano troppo – Robin Norwood

Il ballo delle pazze – Victoria Mas

Tutto chiede salvezza – Daniele Mencarelli

 

Un altro dato interessante.

Una recente survey effettuata in Piemonte nell’ambito della medicina d’emergenza – urgenza ha messo in evidenza che il 70% dei medici è donna, per gli infermieri la quota rosa arriva fino al 90%.

 

Una riflessione, che faccio ormai ogni giorno, mi conferma la centralità di ruolo delle donne e mi porta alle tante incredibili donne che lavorano in questo ambito di fatto così faticoso. Credo sia fondamentale che possano realizzarsi come professioniste ma ritengo indispensabile che continuino a dover avere il loro giusto spazio come donne e come madri per poter essere interamente felici oltre che liberate da ogni discriminazione e senso di colpa. Mi pare che oggi, causa le carenze di organico dei pronto soccorso, si sia persa la giusta attenzione e la dovuta sensibilità nei loro confronti.

 

Eppure quante donne hanno cambiato con il loro operato la storia, quante si prendono cura delle persone sia all’interno del nostro sistema sanitario che in ambito famigliare e quanto spesso nell’ambito del team group si intrecciano le loro vite. Penso alle letture Come il vento cucito alla terra di Ilaria Tuti o a La treccia di Laetitia Colombani.

 

Detto ciò, mi ritengo fortunata.

Ho l’onore di guidare un gruppo di cui sono molto orgogliosa. Da parte mia provo ogni giorno a migliorare il benessere organizzativo di tutti loro che ritengo anime speciali.

Ho anche un’altra fortuna particolare, quella di trarre insegnamento dalle donne del mio passato, in particolare da Giulia Civita Franceschi, la mia bis-nonna, che ha fondato a Napoli la Nave Caracciolo, salvando dalla strada oltre 700 “scugnizzi”. Un esperimento educativo raccontato da Antonella Ossorio ne I bambini del maestrale. Mio papà mi dice che le somiglio tanto, questa cosa mi riempie il cuore di orgoglio.

 

Penso che la vita di chi fa il nostro lavoro sia piena e arricchente, quasi da letteratura, anche se troppo spesso è molto faticosa e penso che ciascuno di noi, proprio per questa ragione, meriti un tempo di qualità da dedicare a se stesso. Il tempo è molto più importante di tante altre cose che abbiamo.

 

Il nostro lavoro è delicato e coinvolgente – siamo formati per salvare vite – ma a volte, almeno per 10 minuti, dobbiamo ricordarci di pensare solo a noi stessi.

Per dieci minuti – Chiara Gambarale.

 

Lo avete capito!

Leggere: i miei preziosi dieci minuti.

 

 

Nota: Dedico questo scritto a tutti i miei colleghi MEU, in particolare al mio gruppo che è famiglia.

 

 

 

Consiglio la visione del video > Randy Pasch, L’ultima lezione.

https://www.youtube.com/watch?v=hgk9ksoyjWw > speech originale con sottotitoli in italiano

Vivere la tua vita attraverso la vita degli altri

lunedì, agosto 21st, 2023

di Alessia Lipardi

 

Chiunque decida di fare l’infermiere, o lo sia già diventato, dovrebbe essere stato paziente prima di ogni altra cosa.

 

Se sei “dall’altra parte” pesi bene la gravità del bisogno dell’altro ed il valore di quel qualcuno che si prenda cura di te, dall’inizio al termine del tuo percorso di cure.

 

Come paziente sei dipendente, non puoi muoverti … hai bisogno di essere spronato a mettere i piedi sul pavimento, a provare a sollevarti nonostante tu sia sfinito dal dolore.

Aspetti che qualcuno ad ogni cambio turno venga a chiederti come stai, se hai bisogno di antidolorifici, che controlli se la tua sacca di drenaggio debba essere svuotata.

 

Aspetti di suonare il campanello dietro la tua testa pensi … “potrò disturbare!?“

Stringi i denti, speri tanto che quel forte dolore possa passare, tossisci in silenzio e con paura, la paura che i punti – che tirano – possano saltar via!

 

Ed ecco quando arriva il tuo turno, quello delle medicazioni, della visita giornaliera, vorresti che quel momento durasse per tutta la degenza; ti senti coccolato, preso in considerazione, sei tu il protagonista del momento, tutti hanno occhi solo per te.

Ti dicono che tutto va bene anche se sai bene che in quel momento tutto va male ma sei determinato e sai che prima o poi ne uscirai.

 

Tutti gli infermieri dovrebbero essere prima di tutto pazienti.

 

Capisci cosa significa aspettare il tuo turno, l’attesa della colazione, del pranzo e della cena che scandiscono il ritmo delle giornate.

La tv è sincronizzata sullo stesso canale, ma non chiedi di cambiare o fare zapping perché ti conservi quella “chiamata” per un motivo davvero valido!

 

Sopraggiunge la notte, quando speri di poter chiudere gli occhi e riposare anche solo per qualche ora … ma ti accorgi che quelle sono le ore più lunghe della giornata e attendi che qualcuno pronunci il tuo nome perché una punturina o i prelievi di controllo sono finalmente lì ad attenderti alle prime luci dell’alba. Saluti gli addetti alle pulizie e il nuovo turno del giorno che è appena iniziato.

 

Essere stato paziente da infermiere è capire meglio il saper fare e il saper essere nel proprio quotidiano; esci dallo spogliatoio con la tua divisa e hai la grinta, la forza e la dedizione di correre dai tuoi pazienti, dal neonato all’anziano, con consapevolezza.

 

Essere infermiere dopo essere stato paziente ti cambia.

E come se ricominciassi una nuova vita.

 

Nel bene e nel male hai compreso e conosciuto un nuovo mondo nel tuo stesso mondo, quello in cui sei tu che scegli a chi “affidare le tue cure.”

 

Sei felice perché sai che al tuo pronti, partenza e via … salirai sul trampolino di lancio con una voglia pazzesca di amare, aiutare l’altro e continuare il cammino della tua straordinaria missione.

La missione che non hai scelto tu, ma che ti ha scelto.

 

È vivere la vita attraverso la vita degli altri!

 

Siamo a cavallo!

domenica, luglio 9th, 2023

di Angelo Farese

 

Quando il sipario del teatro si apre, viene quasi sempre preceduto da un applauso del pubblico; funge da incoraggiamento agli attori e fa salire l’adrenalina in circolo.

 

Un vecchio infermiere così soprannominava il triage, “‘o teatro”, per via di alcune sceneggiate da parte dell’utenza, per le famose “tarantelle” che succedono quotidianamente… Bruno diceva così: “ma che ne sanno ‘sti piscitielli ‘e cannuccia!

Per il Pronto Soccorso è diverso perchè quando si apre il tendone della camera calda non c’è un applauso, ma un clacson o una sirena del centodiciotto  che prima di giungere si annuncia con due colpi secchi. Spesso è una cosa seria, “’nu guaio” oppure altro, fatto sta che l’adrenalina fa effetto come vodka e red bull “ammiscate”.

 

È il 22 Giugno, turno di mattina… da poco sono passate le otto.

Vado al triage per salutare Roberto e Giovanni che già da un’ora e mezza sono in postazione ad accettare i primi zombi dell’alba ancora assonnati e doloranti.

Qualcuno stanco e deluso dice di essere stato già in fila il pomeriggio e parte della notte precedente ma che poi, stanco di aspettare, è andato a casa a riposare “vabbè torno domattina presto”, un trauma del dito.

 

Un clacson raggiunge le nostre sinapsi che ci mettono in allerta, lasciamo qualsiasi cosa, qualunque paziente in attesa al triage, tutte le attività si paralizzano come alla vista di uno tsunami in arrivo.

Il clacson suona ripetutamente, e più il suono è vicino più aumenta la tensione, la concentrazione, l’adrenalina in circolo.

Siamo pronti, aspettiamo.

Giunge un’auto sparata e le guardie, anche loro attente e sempre al nostro fianco, aprono immediatamente il tendone della camera calda per facilitarne l’accesso.

 

Che lo spettacolo abbia inizio!

 

Il motore dell’auto resta acceso, mentre il conducente ed il passeggero posteriore escono dal veicolo spalancando la porta anteriore destra: “aiutatelo, aiutatelo… poi vi spieghiamo…”. Ha il colorito violaceo  della morte, in particolare il collo e le orecchie.

 

E’ freddo, Dio quanto è freddo, ed è incosciente… uagliù ma è muort’!” Le urla e i cazzotti sull’auto come i Bottari in un concerto di Avitabile. Prendete la barella è in arrestoooo! Nel mentre inizio a massaggiare il torace, e poco dopo si precipitano Roberto e Giovanni con la barella del triage.

 

Per fortuna Giovanni è messo bene fisicamente, sembra Hulk vicino a me anche se è non verde, è  “’nu sarracino”. Lascio prendere a lui la parte superiore del paziente che è più pesante, io con tutto il mal di schiena, lo supporto prendendo le gambe e lo mettiamo in barella come un sacco di cemento da novanta chili.

 

Giuvà votta ‘a barella!” In un tutt’uno salto a cavallo sul paziente inanime manco fossi John Waine, un flashback vissuto con Marianna tempo fa.

La vidi saltare sul paziente senza esitazione come un’amazzone ma viene da Ariano Irpino, e a lei ho pensato come un prezioso suggerimento.

 

Mi rendo conto che il paziente ha avuto il rilascio degli sfinteri e di essere seduto sul suo piscio, ma sono dettagli, non badi a queste cose in certi casi, sembriamo animali in guerra. Riprendo a massaggiare quel cuore fermo attraversando il pronto soccorso come un cowboy del Far West ma senza sella e senza briglie.

Guardo negli occhi Giovanni che spinge la barella correndo verso il codice rosso quasi senza toccare con i piedi a terra e schivando gli ostacoli, erano le gambe del mio cavallo vincente. L’adrenalina in noi è alle stelle e siamo come in  trans, pensi solo all’ABC in emergenza, le priorità, salvare una vita.

Giuvà nun me fa carè”.

Non so se avete mai massaggiato un torace, ma è come se diventassi un tutt’uno anima e corpo con il paziente morto. Dai energia e pensiero, vuoi che quel cuore torni a battere, spingi perpendicolare con le braccia che si incrociano solo sul petto, e pensi contando “dai cazzo riprenditi!” Ernesto ha cinquantatrè anni, cinquantaquattro li compirà il venticinque  giugno, fra due giorni.

 

E’ vestito da lavoro, con le scarpe antinfortunistiche che rendono ancora più pesante il tutto. Gli accompagnatori mi dicono in un secondo momento che era lì in piedi, e all’improvviso e crollato a terra, soffre solo un po’ di ipertensione, dicono.

Come se qualcuno avesse spento l’interruttore.

 

E come lo diciamo alla moglie? Mi chiedono in lacrime i compagni.

 

Arriviamo in rosso come la Ferrari che in gara fa il pitstop. Chi svita il bullone chi smonta la ruota chi ha già quella di ricambio e chi già sta mettendo benzina.

Ernesto è sotto monitor ma sempre inanime, si continua con il massaggio toracico e adrenalina anche a lui. Alterniamo il massaggio continuo con Claudia, Giovanni e Michela, mentre Mariantonietta e Francesca sono ai farmaci.

Paola fa un emogas nella femorale, Cosimo da dietro dirige l’orchestra escludendo clinicamente le cause del decesso e facendo il punto della situazione ripetutamente come sa fare un bravo leader dell’emergenza urgenza. Alessandra (detta la cinese) libra nell’aria la sonda, tra petto ed ultrasuoni “è ‘nu chiuovo” dice, è fermo come un chiodo impiantato, insonando il cuore.

 

Continuiamo senza fermarci. Ernesto ha una ferita lacero contusa alla tempia.

Sarà caduto? L’hanno menato? Non possiamo saperlo, si decide per esclusione di effettuare la trombolisi. Il paziente ora è in fibrillazione ventricolare. Passano i minuti, otto fiale di adrenalina sparate nei tempi giusti, e cinque scariche di defibrillatore.

 

Il sudore gronda in codice rosso manco fossimo muratori con la “cardarella” e la cazzuola in mano in cantiere, a impastare il cemento sotto al sole.

Il pronto soccorso si ferma, Roberto fronteggia il triage da solo che continua a registrare nuovi utenti. Qualcuno dice basta ormai è andato, interrompiamo. I rianimatori lo intubano, continuiamo. La cinese allucca “e muovete che siamo uccisi dalla stanchezza, muovete”. E’ un attimo,  Ernesto ha un ritmo cardiaco spontaneo, che è di merda ma è pur sempre un ritmo, pensiamo.

 

Quel cuore ha ripreso a battere.

 

Fate del magnesio! Fatto!!

Ernesto pian piano sembra schiarire il colorito della pelle, non è più viola come prima. Stabile nei parametri viene trasferito con urgenza al Monaldi per effettuare una coronarografia, dal tracciato emerso dopo la fibrillazione ventricolare, esce fuori un cazzo d’infarto.

La vita riprende, in Ernesto e nel pronto soccorso.

 

Giungono notizie dall’altro presidio che aveva tre coronarie “appilate”. L’adrenalina in corpo come l’acqua santa fa il suo decorso fino a sciamare come un profumo giovane, un profumo fresco che ti dona la carica che annienta tutti i dolori, anche il mal di schiena.

 

La vita continua e fuori al triage la gente che prima era silenziosa, comincia di nuovo a lamentarsi per l’attesa, ma come diciamo noi riportando un pensiero di Seneca: lieve è il dolore che parla. Il grande dolore è muto”.

 

È il ventiquattro giugno e veniamo a sapere che Ernesto per ora respira spontaneamente. Ancora incosciente e sotto sedazione, ma vivo, e pare anche in finestra neurologica.

È il venticinque giugno, è il tuo compleanno Ernesto, l’Emergency Team del CTO ti fa gli auguri per una veloce e completa guarigione, ci vediamo poi al bar per un caffè.

 

Per ora stappiamo una bottiglia per festeggiare una vita salvata nella stanza del primario. Il tappo vola in alto accompagnato dal botto e dalla schiuma, in alto insieme ai nostri cuori, ma la bevuta è rimandata … codice rossooooooooooooooooooooo!!!

 

nella prima foto Giovanni Rosiello, emergency nurse e nella seconda Angelo Farese emergency nurse con un paziente

“Infermiere! Infermiere!”

lunedì, maggio 29th, 2023

di Anna Arnone

 

È questa la parola più pronunciata, urlata, sussurrata e ascoltata durante il giorno in quel tumulto di voci, allarmi, campanelli, rumori di passi, grida, silenzi.

 

Nella Medicina d’Urgenza dell’ospedale più grande del Mezzogiorno il tempo non ha misura e il giorno si confonde con la notte. In un continuo susseguirsi di incessanti turni dal momento in cui il paziente viene preso in carico nell’unità operativa fino alla sua dimissione.

 

Quando il paziente accede in questo nuovo confine si sente smarrito, disorientato, spesso non ha con sé un cellulare per parlare con i suoi cari, sta terribilmente scomodo su una barella che l’ha trasportato dal pronto soccorso, si sente solo, un peso.

 

Ed è qui che l’infermiere entra in scena, gli spiega dove si trova e quale trattamento dovrà fare, gli chiede di cos’ha bisogno; il care e il core diventano indissolubili, con un meccanismo innato e autentico. In altre circostanze non c’è tempo di parlare, bisogna fare presto, è necessario correre e tirare fuori il paziente dal vortice dell’emergenza: un arresto cardiaco improvviso allertato dai monitor appena posizionati, un’insufficienza respiratoria contenuta con la ventilazione non invasiva prontamente collocata attraverso una maschera facciale che non lascia spazi sul volto.

 

C’è fame d’aria e c’è fame di salvezza.

 

In questi ultimi tempi anche l’infermiere ha fame d’aria: deve proteggersi e deve proteggere, deve coprirsi e deve coprire naso e bocca.

Ma non basta.

Bisogna vestirsi interamente, lasciando scoperti gli occhi visibili solo attraverso una visiera. “C’è il Covid qui? Io voglio andare a casa! Ho paura!”

Lo smarrimento cresce e lascia posto all’angoscia.

“No signora, stia tranquilla, stiamo proteggendo noi e soprattutto voi!” è questa la frase più detta durante la giornata.

A volte non basta, bisogna ripeterlo più e più volte.

 

La Medicina d’Urgenza non è solo una Medicina d’Urgenza, ma è una porta di accesso dal mondo esterno, quasi diretta sul pronto soccorso, un tempo un lazzaretto sovraffollato di folle di parenti accanto ai propri cari, barelle vicinissime senza alcun distanziamento e ora solo un triste ricordo.

 

Quella porta accoglie da sempre come oggi tipologie diverse di pazienti verso i quali è richiesta una forte competenza infermieristica, eterogenea, complessa, efficace al fine di saper rispondere agli specifici bisogni dell’individuo.

 

Non si tratta solo di un ruolo ma una sfida continua con sé stessi e un lavoro di team numeroso, compatto e per questo vincente.

 





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