IL BLOG DI SIMEU

 

Archive for the ‘Storie’ Category

Lazzari felici

venerdì, aprile 11th, 2025

di Mario Guarino

 

 

Anna ha gli occhi da fare invidia a Bette Davis.

Un intenso colore pervinca con sfumature verdi accentuate dalla violenza della scialitica e dalle meches bionde checontornano il viso. Ottantasei anni ben portati.

Asciutta e con poche rughe di espressione, vaga nel corridoio del pronto soccorso sotto il braccio del figlio Gennaro nella bellezza di una famiglia unita.

Da pochi giorni la diagnosi di demenza ha cambiato il modo di veder la madre, conquistando la dura consapevolezzadi un baratro incipiente e non di accentuazione degli spigoli caratteriali, come pensava. Così, prima il medico di base, poi il neurologo, il geriatra, il cardiologo… ad affollare quell’elenco di medicine da prendere. Ma stasera non regge, è agitata e confusa come non mai e alle undici di sera non c’è specialista che tenga. Quando la Punto grigia entra in camera calda, Anna scende e saluta tutti come se conoscesse. Un ragazzo risponde al saluto con l’unica mano rimasta libera dalla “Desault” che contiene la spalla appena ridotta che, solo adesso a dolore scomparso, gli parebellissima.

 

Emanuele riposa nella stanza effe. Un locale senza bagno del reparto di riabilitazione che accoglie la medicina d’urgenza e la sub-intensiva. La madre e la sorella Antonella, vegliano attente con la compagnia del televisore a volume annientato e che manda le notizie da Gaza. Spoglia come nulla, quella stanza che accoglie un giovane ragazzo accompagnato dalla sedazione palliativa, non nasconde la sua umile bellezza. Del resto così è stato condiviso dai medici, Antonella la madre e soprattutto da Emanuele. “Fiorista e non fioraio!” Solo due giorni primaappariva rizelato dal fatto che alcuni di noi confondevano i due mestieri. “Il fioraio, vende; il fiorista crea” diceva, primadel riposo indotto dai farmaci. Come non averci pensato prima che “prontosoccorsista o accettista” suonano alle nostre orecchie come “fioraio” offuscando la maestosa bellezza del nostro mondo, cadenzato dai ritmi dell’unica certezza: l’incertezza.

 

Angiolina ha voglia di parlare nel letto quattro dell’OBI che l’accoglie da qualche ora dopo che il 118 l’ha raccolta da terra per una caduta, che sarebbe stata stupida se non ci fossero i novantatre anni sulle spalle, e che ha messo arepentaglio il femore. Ha voglia di parlare anche grazie alla morfina che ha spento il dolore. Un passato da cassiera nella migliore pasticceria di Napoli, citata anche nel film “l’oro di Napoli” di Peppino Marotta.

 

Il sovraffollamento quotidiano tende a mollare la presa verso l’una di notte e si attendono gli esami. Cosimo è certo che la confusione di Anna non è dovuta alla demenza. La sonda accarezza l’addome ed una successiva manovradi disostruzione libera Anna da un intestino assopito dai numerosi farmaci degli ultimi giorni.

 

La voce di Angelo è pessima, non intonata e grave, ma le parole di “desiderio” accennata poco prima, viaggianonell’aria suggerite dal cellulare. Ne “l’oro di Napoli” fa da colonna sonora all’episodio “Teresa” nel quale una bellissima Silvana Mangano tenta di fuggire ad un destino beffardo.

 

Da sempre ho pensato che essere un medico o un infermiere d’urgenza sia un autentico privilegio e che questa vita non la puoi scegliere. Nessuno sceglierebbe un quotidiano complesso, difficile eppure estremamente affascinante. E’ lei che ti sceglie, come una Partenope incantatrice ti sussurra con voce soave nelle orecchie e, se ascolti, non hai scampo.

 

Angiolina il giorno dopo sarà dimessa con la promessa, da parte della nipote, di non lasciarla da sola.

Anna lascerà il pronto soccorso all’alba del giorno dopo, con l’intestino libero e la borsa svuotata di molti farmaci. Ilchiarore degli occhi abbaglierà Cosimo che ritornerà in shock-room tra un edema polmonare e uno shock-settico.

Emanuele farà giusto in tempo a tornare a casa in tarda mattinata del giorno successivo. La mamma non ha voluto lo spettro della morgue, ed il letto di casa raccoglie gli ultimi respiri, ma privi di angoscia, di un ragazzo falciato da un inarrestabile cancro della parotide.

 

E la bellezza? Cosa c’entra la bellezza con queste storie

 

E se non ci fossimo stati?

 

E se Anna, Emanuele, Angiolina e tutti gli altri non avessero trovati Angelo, Cosimo e questo immenso popolo di personee professionisti a farsi carico dei loro bisogni? E allora raccontiamola questa bellezza.

Inizi la necessaria contronarrazione che faccia onore alle divise sudate e sporche ai volti stanchi ed appagati….

 

Da pochi giorni abbiamo festeggiato il compleanno di un grande musicista.

Una sua bellissima canzone parla di lazzari felici e sembra perfetta per noi.

 

Simmo lazzari felici

Gente ca nun trova cchiù pace Quanno canta se dispiace

È sempe pronta a se vutta’ Pe nun perdere l’addore

Si haje asci’ po’ fatte ‘a croce Cammenanno nunpo’ fa’ pace Aiza ‘a capa e so’ tutte ‘nciuce Ca nun se ponno acchiappa’

E c’a faccia già scippata

‘A chesta musica ca è mariola Pe’ dinto ‘e carusielle S’arrobba ‘a vita e sona Sapenno ca è fernuta

E intanto passa stu Noveciento Passammo nujes’acconcia ‘o tiempo Si arape ‘o stipo saje addp’ staje

E nun te scuorda’ maje

E intanto passa stu Noveciento Cammisa ‘a fora’ncuorpo t’o ssient E riest all’erta tutt’a nuttata Pensanno addo’ si’ stato

Pensanno addo’ si’ stato

 

 

Non voglio più dare cattive notizie.

sabato, febbraio 22nd, 2025

di Alessandra Iorfida

 

Lho detto a una collega (e amica) laltro giorno, dopo aver comunicato a una paziente di avere un tumore. Era la terza volta in una settimana, e ogni volta spero sia lultima.

 

Ormai conosco il copione, e ogni volta vorrei non doverlo recitare. Non voglio essere colei che sa, colei che deve dire che quel gonfiore non era nulla di banale, che è una massa, che forse è un tumore, che bisogna fare accertamenti. E poi il silenzio, gli sguardi, la paura, le domande. Domande a cui, a volte, ho perfino paura di rispondere.

 

Cerco di rimanere distaccata, di non pensare a come si possa sentire una persona che riceve quelle parole da un medico giovane, dopo ore di attesa. Cerco di non immaginare il vuoto che possono aprire.

Ma non ci riesco. Ogni parola ha un peso anche per me. Perché anchio, sotto il camice, sono una persona. Anchio, ogni volta, sento un piccolo pezzo del mio cuore sgretolarsi.

 

Vorrei poter dire: “Mi sono sbagliata. Non è nulla di grave. Vorrei sorridere e spiegare che era solo una colica addominale, che quel pensiero che mi tormentava era infondato, che lecografia bedside mi aveva tratto in inganno. Vorrei condividere un sollievo, non un peso.

Il nostro lavoro di giovani medici in Medicina d’Urgenza è fatto di momenti come questi. Un lavoro che molti immaginano freddo, tecnico, quasi militare: una linea del fronte senza spazio per empatia o vulnerabilità. Ma questa immagine è lontana dalla realtà.

 

Siamo medici, ma siamo anche umani. E non possiamo fare a meno di empatizzare con i nostri pazienti. Vedere una madre disperata che stringe la mano del figlio malato, un anziano solo in cerca di conforto, una giovane donna che fissa il vuoto dopo una diagnosi inaspettata… ci fa soffrire. Non siamo insensibili, non abbiamo un muro a proteggerci il cuore. A volte quel muro è più fragile di quanto si creda.

Proviamo a costruirlo, è vero. Una barriera per non pensare che quelle persone potrebbero essere i nostri genitori, unamica, nostro fratello, noi stessi. Ma quella barriera si incrina spesso. E quando si rompe, sentiamo tutto: la paura, il dolore, la speranza. Tutto ci travolge.

 

Il nostro lavoro richiede un equilibrio delicato: essere distaccati quanto basta per non crollare, ma vicini abbastanza da non sembrare freddi. Una danza costante tra professionalità ed emozione, tra tecnica ed empatia. Non è un caso se, a volte, ci fermiamo per un respiro profondo prima di entrare in una stanza o se, tornando a casa, ci sentiamo svuotati, esausti.

 

Eppure, non cambierei questo lavoro per niente al mondo. Perché, anche nei momenti più bui, so di poter fare la differenza. So che, anche solo per un istante, posso essere un punto di riferimento, una luce nella tempesta. So che, anche quando non ci sono buone notizie da dare, ciò che conta è come le diamo: con rispetto, con umanità, con la consapevolezza che dallaltra parte c’è una persona che merita di sapere, ma anche di essere accompagnata in questo viaggio difficile.

 

Essere futuri Medici dUrgenza significa vivere costantemente al limite: tra la speranza e la realtà, tra il desiderio di salvare tutti e laccettazione che non sempre è possibile. Ma è anche un percorso di crescita, che ci rende più forti e consapevoli. Non solo dei nostri pazienti, ma anche di noi stessi.

Forse il vero compito del medico durgenza, quando sarò “grande”, sarà proprio questo: essere vicino al paziente in ogni momento, soprattutto in quelli più difficili, quando il mondo sembra crollare. Perché non basta curare, bisogna anche prendersi cura. In questo prendersi cura c’è la nostra vera forza, il senso profondo del nostro lavoro, e la flebile speranza che possiamo offrire anche nelle situazioni più disperate.

 

Prendere cura significa dare al paziente non solo risposte e trattamenti, ma anche una presenza umana, un ascolto attento. Significa affrontare insieme la paura di un esito infausto, sedersi accanto a chi ha appena saputo che la sua vita cambierà per sempre e dirgli, guardandolo negli occhi: “Non sei solo. Sono qui per te.”

 

Sempre più spesso diagnostichiamo tumori in Pronto Soccorso, spesso anche in fase avanzata, quando non c’è più nulla da fare. Vediamo persone arrivare dopo mesi, talvolta anni, in cui i loro sintomi sono stati trascurati o sottovalutati. Il Pronto Soccorso diventa così, per molti, lunico punto di accesso al sistema sanitario, un luogo dove finalmente ricevono una diagnosi, delle risposte, un conforto.

 

Non vorremmo che il Pronto Soccorso diventasse il luogo deputato alla diagnosi di queste patologie, ma la realtà è che ci troviamo sempre più spesso a dover sopperire alle carenze del sistema, prendendoci carico di storie che avrebbero avuto bisogno di un altro tipo di percorso. Questa non è una peculiarità italiana, ma una tendenza globale, come testimonia uno studio di Lancet Oncology¹ che ha rilevato una percentuale di prime diagnosi oncologiche in Pronto Soccorso che varia dal 24% al 42% a seconda della tipologia tumorale.

 

Il nostro lavoro, per quanto duro, è una scelta consapevole. Una scelta che comporta sacrifici, ma che regala anche momenti di profonda connessione umana. Ci sono istanti in cui la fatica svanisce, e rimane solo la gratitudine di chi abbiamo aiutato, il sorriso di chi abbiamo confortato, o la consapevolezza di aver fatto del nostro meglio. Perché, in fondo, è questo che conta: esserci, sempre.

 

E quando penso al futuro, immagino una Medicina in cui lempatia sia centrale, in cui nessuno debba mai sentirsi un numero, un caso clinico, un problema da risolvere. Voglio credere in un sistema sanitario dove ogni paziente si senta accolto, rispettato, compreso, visto. Un sistema in cui tecnologia e scienza avanzano di pari passo con l’umanità, senza mai dimenticare che al centro di tutto c’è la persona.

 

Non voglio più dare cattive notizie.

Ma se dovrò farlo, voglio farlo nel miglior modo possibile. Con umanità, con rispetto, con la consapevolezza che anche le parole più difficili possono essere un ponte, un modo per dire:

“Non sei solo. Io sono qui, con te.”

 

 

 

  1. Risk factors and prognostic implications of diagnosis of cancer within 30 days after an emergency hospital admission (emergency presentation): an International Cancer Benchmarking Partnership (ICBP) population-based study

    McPhail, SeanFilsinger, Brooke et al.

    The Lancet Oncology, Volume 23, Issue 5, 587 – 600

    https://doi.org/10.1016/S1470-2045(22)00127-9

Sono la figlia di una mamma tradita.

domenica, febbraio 2nd, 2025

di Barbara Campi, figlia

 

Oggi la mia mamma non c’è più e desidero scrivere qualche riga.

 

La mia mamma era una donna d’altri tempi ma al passo con gli attuali.

Come tutti con pregi e difetti ed oggi mi sento di dire che il suo più grande difetto fosse quello di mettere subito dietro agli affetti familiari un senso dello Stato e del dovere civico ammirevole.

E proprio questo è stato il maggior tradimento che potesse ricevere.

Infatti è stata proprio tradita da uno Stato a cui la sanità pubblica interessa zero.

 

A scanso di equivoci non mi riferisco ovviamente solo a questo governo ma al susseguirsi degli stessi, indipendentemente dal colore, poiché tutti padri dei finti finanziamenti (in realtà tagli) come vessillo.

 

La mia mamma ha trascorso l’ultima fase della vita su una brandina del pronto soccorso, soffrendo per giorni in un ospedale incolpevole, dove il personale medico e sanitario si spende ammirevolmente con dedizione e determinazione combattendo una sanità tanto in debito da obbligare i familiari dei degenti del PS a portare cibo e coperte per i propri cari.

Pena la fame, la sete ed il freddo.

 

Solo alla fine del suo tragitto si è trovato per mamma un letto in corsia.

La carenza di letti e di brandine è paradossale e vergognosa ed i parenti arrabbiati, ahimè, in discussione col personale. In quanto ultimi di una catena sono anch’essi vittime del degrado.

 

La mia mamma è andata in cielo tradita da ciò per cui non ha mai vacillato nel credere. Una beffa.

 

Il mio dolore è certo nella perdita ma parimenti la rabbia lo compensa perché quello che era stato il prima della Sanità è defunto negli anni. Lentamente.

Come lentamente si è spenta lei.

Lentamente e nella sofferenza.

Sua, nostra, del personale ospedaliero e di chi altri ci si trova.

E sono tanti.

Sono il popolo italiano.

Quello che negli anni vota.

E vota sempre meno perché non ci crede più.

 

Ma la mia mamma ci credeva stoicamente.

Sanità, istruzione e giustizia sono i cardini di uno Stato serio e coerente con i cittadini.

Mi sento di dire che il nostro Paese li abbia persi tutti e tre.

 

La mia mamma non c’è più ma a tutto il personale medico che ho incontrato dico solo un grande grazie per la quotidiana capacità di essere presenti, nonostante tutto.

A voi che un tempo non lontano vi hanno chiamato eroi aggiungerei un … sigh … dimenticati.

 

Concludendo, penso di meritare la possibilità di un augurio a tutti i conclamati coinvolti nella mala sanità, a chi l’ha fatta franca ed a chi semplicemente ignora lo stato delle cose, di trovarsi per una volta nei panni in cui mi ci sono, per loro colpa o indolenza, ritrovata io.

Inerme nel veder soffrire la persona che mi ha dato la vita.

Un sentito vergognatevi da parte mia che scrivo e da parte di chi sta soffrendo in silenzio.

La mia mamma non c’è più e per tutto il personale ospedaliero sarà un’altro giorno di guerra.

 

 

 

NOTA DEL PRESIDENTE SIMEU

PorgerLe le condoglianze è doveroso e sentito da parte nostra, anche se non cancella quanto avvenuto. Come Presidente SIMEU le dico che la risoluzione di questo problema rappresenta una priorità assoluta del quotidiano della nostra società scientifica a livello nazionale.

E’ importante che le voci e le storie dei cittadini entrino insieme alle nostre nelle sedi istituzionali di fronte ai decisori, con l’obiettivo di risolvere in modo coordinato e condiviso questa situazione insostenibile per tutti.

La ringrazio davvero per il tono Civile – inteso nel senso più alto del termine – del Suo scritto. 

 

 

 

 

 

 

 

Non ho fatto niente

sabato, dicembre 28th, 2024

di Maurizio De Giovanni

 

Io non ho fatto niente. Proprio niente.

Non è come voi pensate. Lo so, sembrerebbe proprio la stessa cosa, ma non è così. Io non ho fatto niente.

Niente a cui non sia stato costretto.

 

Mi ricordo quando l’ho vista, la prima volta. Eravamo ragazzi. Erano tantissimi anni, che ci conoscevamo. Eravamo diversi, allora; eravamo pieni di sogni e di speranze. Lei era la sorella di un mio compagno di scuola, e all’inizio mi era pure antipatica; poi, a forza di vederci, cominciammo a parlare e io capii che era lei che volevo vicino, era lei la persona con cui volevo stare.

Dopo la scuola cominciai da apprendista, nella grande fabbrica, e poi, quando mi passarono a tempo indeterminato, ci sposammo.

Adesso mi sembra il Paradiso, allora sembrava un purgatorio. Io lavoravo dalla mattina alla sera, lei spaccava i miei soldi in quattro per tirare avanti. Facemmo la fesseria di mettere da parte qualcosa e di comprare casa, col mutuo.

 

Il mutuo.

 

Fallo a rata variabile, mi disse il tizio in banca. Così magari i tassi scendono e tu ci guadagni. Quelli come me non guadagnano mai. Lo dovevo sapere.

Il bambino, che aveva sempre bisogno di qualcosa. Il mutuo che saliva, saliva. I lavori del palazzo, la macchina vecchia che si scassava in continuazione. Lei cominciò quasi subito a fare lavoretti, cuciva, era brava. Si andava facendo un nome, non guadagnava quanto me ma quasi.

Io mi ricordo come mi guardava. Con fiducia, amore, dolcezza. Mi guardava, e io capivo immediatamente quello che provava per me.

Mi sentivo curato. Anche se aveva tanto da fare, non mi faceva mancare mai la tuta stirata, il piatto caldo all’ora di pranzo. E la sera, quando guardavamo un po’ di televisione, stanchi morti tutti e due, si accoccolava vicino a me sul divano e si addormentava.

Era dura. Lo è sempre stata, durissima e in salita. Alla gente come noi nessuno regala niente. Ma ce la facevamo.

 

Finché.

 

Finché è venuta la crisi. Come una tempesta. Ma dico io, tutti questi professoroni che quando parlano alla tele o sui giornali sembrano sapere tutto, non potevano capire quello che stava succedendo? Come andava a finire?

E lo sapete, com’è andata. Prima la fabbrica ha bloccato le assunzioni, poi ha cominciato con la cassa integrazione.

Io me la sono cavata, per un paio d’anni. Lei per fortuna incrementava la clientela, adesso le persone venivano anche a casa a farsi prendere le misure; qualche volta me la dovevo preparare io, la cena, ma i soldi facevano comodo. I colleghi, specialmente quelli che facevano mezza giornata a casa, mi invidiavano perfino.

E poi a casa ci sono rimasto io. E un po’ alla volta non mi hanno pagato più.

 

All’inizio mi guardava ancora come prima. No, non proprio come prima; certo la faccia era la stessa, e anche gli occhi. Ma io, io lo sapevo che era preoccupata. Lo sapevo che pensava al fatto che, senza guadagnare un tubo, senza avere quel po’ di prestigio che ti dà il lavoro, un uomo non serve a niente. Ora lei era pure autosufficiente, magari io ero diventato un peso.

E giorno dopo giorno io l’ho vista, la vera espressione. Dietro le solite parole, dietro la fatica terribile, dietro i gesti normali, io sentivo la sua pietà.

Non che dimostrasse niente, sia chiaro; aveva pure ripreso a stirarmi tutto, a preparare pranzo e cena, forse proprio per dimostrarmi che aveva pietà di me. E anche se io me ne stavo al biliardo per tutto il giorno, e anche se avevo cominciato a bere un po’ troppo, non ha mai detto una parola. I soldi erano i suoi, ormai, ma si comportava come se ancora fossi io quello che manteneva la famiglia.

Però io lo sapevo, quello che aveva dentro. Aveva pietà di me.

Si vedeva da come si muoveva, da come parlava. Mi sentivo i suoi occhi dietro la nuca, sulle spalle, e se quando mi giravo all’improvviso era rivolta altrove, io lo capivo lo stesso.

 

Avevo cercato un altro lavoro, naturalmente. Ma ho cinquant’anni e la schiena spaccata, nessuno mi prende. Al biliardo siamo in tanti, nelle stesse condizioni. E lei, lei che quando alzavo la voce, perché uno ha pure diritto di stare un po’ incazzato, nelle mie condizioni, lei guardava a terra.

La sentivo, la pietà, ruotare nelle sue meningi, allargarsi con le dita nere ad agguantarle l’anima. Pietà. Pietà di me, del suo uomo. Di quello che l’aveva mantenuta per tutta la vita ammazzandosi di lavoro, e che ora non andava più bene perché di soldi a casa non ne portava più.

La prima volta ho creduto che avesse sbuffato. L’avevo sentita chiaramente, giuro; non avevo pensato che potesse essere un sospiro. Mi lamentavo perché il piatto era freddo, io mangiare cose fredde non lo sopporto, e lei ha fatto quel suono, un sospiro o altro, non so. La mano è andata per conto suo, io non ci ho nemmeno pensato.

Ha detto in giro che aveva sbattuto contro una porta; l’ho sentita parlarne alla vicina, chissà dove ho la testa, ha detto, e rideva. Meglio.

Poi è successo un altro paio di volte. Forse tre, al massimo. Non di più. Non so, mi faceva stare meglio. Ristabiliva i ruoli, mi faceva sentire di nuovo al mio posto, padrone in casa mia. I soldi erano suoi, il lavoro era il suo, la gente si scappellava davanti a lei, ma lei era quella che in casa doveva fare la moglie, cazzo. La moglie. Non il marito: il marito ero io.

L’unica cosa che non riuscivo a risolvere era quell’espressione. La pietà che teneva sotto la superficie.

Avesse avuto paura, o anche odio, sarei stato bene; lo avrei potuto sopportare. La paura è stare sotto, è essere inferiore. Andava bene, se aveva paura. Ma lei no, la paura non ce l’aveva, e nemmeno l’amore, quello era morto da tempo. Aveva pietà. Lo sapevo io, e lo sapeva lei.

 

Non ho fatto niente. Proprio niente, vi dico.

 

Ho fatto solo quello che avrebbe fatto chiunque, al posto mio. Quello che andava fatto.

Perché, vedete, una donna non può avere pietà del proprio uomo. Uno che ha tirato la carretta per tutta la vita e ancora l’avrebbe fatto, se non l’avessero buttato in mezzo alla strada come un vestito vecchio, come un rottame che non serve più a niente. Uno che ha cresciuto un figlio che lavora all’estero. Uno che una volta gli davano del lei, per strada, e non lo guardavano con disgusto, come fanno adesso.

Uno così non merita pietà. Merita rispetto.

E allora stamattina gliel’ho cancellata dalla faccia, la pietà. Gliel’ho cancellata a coltellate, una volta per tutte.

 

Io non ho fatto niente. Proprio niente.

 

E’ stata lei, che se l’è voluta. Adesso finalmente non ha più nessuna espressione. Nemmeno la faccia, ha più.

Però me lo ricordo ancora, quello sguardo. L’ha avuto fino all’ultimo.

 

Pietà. Pietà.

 

Io non ho fatto niente, sapete. Proprio niente.

 

 

 

VIOLENZA OFF-LABEL

mercoledì, settembre 25th, 2024

di Gruppo Acqua _ SumSchool 2023

 

Venerdì sera, ore 22:15.

Suona il telefono della C.O. per un codice verde.

Partiamo e arriviamo al target.

Suono il campanello, ci apre un uomo, che scoprirò essere il cognato della persona A.

Trovo A su una sedia, con le braccia conserte, viso contratto. A sinistra invece la persona B, appoggiata alla porta della cucina, scuote la testa. A e B sono coniugi.

 

 

Chiedo cosa sia successo.

A racconta che B ha chiamato l’ambulanza senza motivo e che vorrebbe semplicemente che il coniuge si togliesse le ciabatte e si mettesse le scarpe così da poter andare a casa propria, in quanto la casa era quella del genitore di A.

 

 

Prendo da parte B che racconta di uno scontro acceso in casa con aggressione dal coniuge, non il primo episodio. A nega e accusa B di malattia mentale.

 

Chiedo come mai B non volesse andare a casa con il coniuge. B riferisce di non voler affrontare un viaggio in macchina di 50 km a quell’ora e di non volerlo fare con il coniuge.

 

 

La situazione è molto tesa, esco dalla casa e chiamo la Centrale Operativa per attivare i Carabinieri. Prendo da parte il cognato e gli chiedo di spiegarmi la situazione.

 

Mi riferisce che la situazione è diventata insostenibile, A vuole portare B via in una casa a 50 km di distanza per non lasciarlo nella stessa casa del genitore, in quanto sospetta una relazione extraconiugale tra i due.

 

Mi riferisce che i litigi sono costanti, che A e B sono sposati da molto. Mi racconta che ieri sua figlia ha assistito ad un litigio tra i due, nel quale A ha cercato di strangolare B con la cintura di sicurezza. Che per la rabbia ha sfondato il cancello di casa per portare via B da li.

Sta suggerendo a B di divorziare da tempo, ma B non lo fa perché ha paura della reazione del coniuge.

 

Rientro in casa, la situazione è invariata. A seduta che urla e B che non si sposta, ancora con le ciabatte.

 

Arrivano i Carabinieri, esco per spiegargli la situazione e chiarire i ruoli e riferire ciò che mi aveva raccontato il cognato.

 

I Carabinieri parlano con B e poi prendono A per raccogliere la sua versione dei fatti. Riesco finalmente a parlare con B senza che il coniuge ci interrompa.

 

Chiedo cosa vorrebbe fare e mi dice che vorrebbe semplicemente andare a dormire, chiudere questa giornata. Mi mostra il graffio sul braccio, dovuto all’aggressione di stasera.

 

Mi viene in mente che possiamo inventarci una scusa per giustificare un trasporto in ospedale. Diremo che c’è la necessità di ripetere la vaccinazione antitetanica vista la mancata copertura e la ferita sul braccio.

B mi guarda finalmente con uno sguardo leggermente più sereno e alleggerito.

 

Faccio salire B in ambulanza e nonostante l’opposizione di A partiamo per il Pronto Soccorso. Prendiamo un ingresso secondario, ma A ci ha seguito in macchina e ci trova ugualmente. Impediamo l’entrata e indirizziamo A verso l’ingresso principale, da cui comunque non potrà entrare.

 

Entro in Pronto Soccorso, faccio accomodare B su un letto, dico che potrà rimanere con noi per la notte e per tutto il tempo necessario a garantirgli un rientro protetto a casa.

 

A sta già ripetutamente suonando al triage, chiedendo di entrare.

Mi metto al computer per inserire il paziente, trovo l’anagrafica.

Scelgo il codice 2 di triage per violenza altrui.

 

A si chiama Francesca, donna di 50 anni. B invece si chiama Roberto, uomo di 55 anni.

 

Francesca sta mostrando un atteggiamento violento, perpetrato da molto tempo e l’escalation della violenza è evidente. La causa degli scontri è la gelosia. Una situazione in cui solitamente i ruoli sono invertiti. Il protocollo della gestione delle vittime di violenza di genere parla di donne, bambini o anziani fragili.

 

Mi sono sentita in una situazione di violenza off-label.

 

Come sanitari siamo abituati a non applicare discriminazioni di genere, età, provenienza.

Dobbiamo fornire l’assistenza e le cure in modo indiscriminato.

 

I dati statistici sono chiari, la violenza sulle donne in quanto tali è frequente, pericolosa per le vittime, spesso sottovalutata e dobbiamo aumentare la nostra sensibilità al problema per migliorare la nostra capacità di riconoscimento delle situazioni suggestive.

 

Ma la violenza non conosce limiti e può avvenire in coppie omosessuali o eterosessuali, indifferentemente verso uomini o donne.

 

 

 

GRUPPO ACQUA SUMMER SCHOOL SIMEU 2023

Giusy Falsetti, Nicole Fari, Federica Ferla, Brenda Gagliardi, Marta Manuali, Valentina Marega, Valeria Carrieri, Giulia Cester, Valentina Ciarrocchi, Mario Corciulo, Guendalina De Nadai, Luca Di Franco, Roberto Facchino, Ilaria Florica, Valentina Gaifas, Laura Giordano, Daria Giudici, Maria Vittoria Govetosa.

 

L’ottimismo della volontà, il pessimismo della ragione.

venerdì, agosto 30th, 2024

di Antonella Cocorocchio

 

Essere un infermiere di emergenza urgenza: non ho ricordo del momento in cui ho deciso di intraprendere questa strada.

 

Ho scelto questa professione oppure sono stata scelta?

 

Dopo tanti anni, circa 27, credo di aver deciso di fare l’infermiere di emergenza “passivamente”: mi sono lasciata affascinare da una realtà, quella del Pronto Soccorso, che non conoscevo affatto.

 

Di fatto, sono sempre stata una persona curiosa, un’entusiasta.

Ricordo che avevo tanta paura, l’ansia da prestazione di non essere in grado, di non essere all’altezza di quel ruolo. Ogni giorno imparavo e acquisivo una nuova skills.

 

Qualcuno mi ha insegnato che il Pronto Soccorso rappresenta un osservatorio privilegiato sull’umanità. Non c’è cosa più vera di questa affermazione: i nostri occhi vedono, le nostre orecchie sentono, il nostro naso percepisce, le nostre mani toccano, il nostro senso del gusto assapora storie di vita di qualsiasi spaccato sociale.

 

Noi, quelli della Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso, abbiamo la fortuna (o la sfortuna?) di avvicinarci a qualsiasi stato di malattia.

 

C’è stato un momento in cui ho pensato di non pronunciare più la parola “io”.

In Pronto Soccorso non si è mai da soli, sia nei momenti di gioia, sia nei momenti di sconfitta.

 

La condivisione del lavoro, dello stato d’animo, dei progetti è fondamentale nel nostro lavoro. Noi del Pronto Soccorso siamo una vera squadra. Arriva la persona in arresto cardiocircolatorio che riprende coscienza, la persona con l’ictus che riarticola la parola, il politraumatizzato che si risveglia, la persona vittima di violenza che si lascia accompagnare in un percorso di cambiamento:

quanti esempi si potrebbero fare per descrivere l’emozione e la soddisfazione che si prova alcuni momenti!

 

In altre occasioni è lo sconforto a prendere il sopravvento: le aggressioni verbali e fisiche, gli insulti gratuiti, la carenza di risorse professionali, la mancanza di fiducia da parte del cittadino!

 

Di fatto, il vero valore aggiunto del Servizio Sanitario Nazionale è il Pronto Soccorso: noi ci siamo sempre, siamo davvero il servizio pubblico. Ci siamo per scelta, per senso di dovere e di responsabilità.

 

Oggi ho capito di aver acquisito un’altra consapevolezza:

possedere la volontà che, pur davanti alle difficoltà che si presentano, quando si tratta di analizzare i problemi e trovare una soluzione razionale, non dobbiamo mai cedere il passo alla rassegnazione o smettere di lottare condannandoci al pessimismo.

 

*STORIA GRUPPO ARIA*

martedì, luglio 30th, 2024

Qualcuno dal suo PS vede il mare, il sole che colpisce gli occhi e che scalda il cuore; qualcuno una grande città, tante persone, la nebbia. Qualcuno le montagne, e sogna la pace.

 

Un pronto soccorso qualunque.

Un giorno di pioggia.

Il pensiero che va alla fine del turno.

Un codice rosa.

 

 

R.

Fammi scrivere bene, non devo dimenticarmi nemmeno un dettaglio. C’è voluto un po’ per tirarle fuori dai denti quella violenza. “avevo paura che avrebbe continuato ad ammazzarmi di botte se non ci fossi stata, quindi in realtà ero consenziente”. Ho accompagnato la paziente in tutto il suo percorso, in ginecologia, le ho scattato 40 foto mentre era nuda, inerme, davanti ai sanitari. Non volevo essere lì, era una violenza nella violenza.

 

F.

La tentazione di ignorare, di non scrivere, far finta di niente e minimizzare è tanta. Ma poi ti rendi conto che ti ha reso custode della sua sofferenza. È cosa da MEU anche questa purtroppo, e aggiungerei anche … per fortuna.

 

A.

Quella sera ho dovuto mettere insieme tutti i pezzi di quel triage, la ricorderò per tutta la vita. Era una turista accompagnata dalla polizia. La mattina successiva ho letto che il suo demone era stato fermato. Ricordo di aver pianto.

 

R.

Speriamo che non ci sia un trauma così la posso subito mandare al pronto soccorso ginecologico. In fondo dove posso metterla qui? In mezzo agli altri codici rossi? Tra il vecchietto con la niv che suona e il tossico che urla?

 

C.

Di fronte a quella donna provai un senso di tristezza profonda, di impotenza. Mi sentivo così piccola di fronte a tutto quello. Avevo nel cuore la consapevolezza che nonostante l’ascolto, non sarei mai stata in grado di lenire la sua sofferenza.

 

M.

Minchia che palle, ma questa perché ha continuato a stare con questo tipo nonostante tutto? Io non sono maschilista però…

 

F.

Alcune strutture ospedaliere potrebbero non avere risorse o personale adeguatamente addestrato per affrontare un caso di violenza di genere, come la mia.

Non la potevano portare da un’altra parte?

 

S.

Ok, adesso devo dimenticare il caos che ho intorno, del paziente che urla perché in attesa da 4h, della paziente sulla spinale che si lamenta per il dolore, del codice bianco che ripete che siamo incompetenti e non funziona la sanità.

Ora devo pensare a lei.

 

M.

Meno male che non è capitato a me…poraccia

 

A.

Pensava di essere al sicuro e invece è stata tradita proprio da chi le sembrava essere più vicino.

 

L.

Decide di affidarsi a noi per aprire gli occhi. Lei è stata fortunata. Non si sa come, dove e perché ma l’ha fatto. Da sola, voleva la libertà e noi abbiamo esaudito il suo desiderio. Almeno ci abbiamo provato.

 

Smettiamo di pensare, smettiamo di parlare, ora tocca a LEI…in fondo l’unico punto di vista che conta è il suo.

 

 

*STORIA GRUPPO ARIA* >>> definita di “coralità unica”

di Debora Martinelli, Roberta Molle, Daniela Mutti, Rossella Nocerino, Angelo Picciano, Serena Rispoli, Chiara Maffei, Arianna Magistro, Andrei Magri Piccinini, Francesco Notari, Francesca Ortu, Lucrezia Pagliuca, Roberto Palmisano, Francesca Palumbo, Matteo Pani, Stefano Pasqualin, Alessandra Pastorelli, Martina Polimeno

 

Specialisti e specialità: gli infermieri della MEU

lunedì, luglio 15th, 2024

di Alessio Luzi

Ci richiedono sempre più competenze per poter fare ciò che sappiamo fare meglio: il nostro lavoro.

 

Ci ritroviamo oggi, tra obblighi di legge o direttive aziendali, a dover formare il nostro profilo e ampliare i nostri curricula in modo impeccabile, quasi avessimo una data di scadenza sulle divise.

A volte è cosi, tante altre non lo è.

 

Fare l’infermiere della MEU sembra essere davvero divertente:

quando racconti agli altri che lavori al DEA, che provieni da oltre 15 anni di emergenza territoriale, che sei stato in terapia intensiva, ti vedono quasi come un super eroe. Ti chiedono: “Oh ma chissà quante ne hai viste! Raccontaci qualcosa, dai!”.

 

Nessuno, però, ti chiede mai: “Come ci si arriva? Come si diventa infermiere di Area critica?”  

E di conseguenza nessuno sa quanto si sacrifica e quanto si studia per arrivare fin dove sei ora.

Che poi magari per molti non è nemmeno il luogo ideale il pronto soccorso, magari per altri è la storia della propria vita.

Ci sono colleghi che al di fuori della sala rossa non respirano, si spengono,“muoiono”.

 

Ma per stare li come avrà fatto? Partiamo dal presupposto che oggi c’è la malsana abitudine, da parte di tutte le aziende, di prendere personale con zero esperienza (e non parlo solo di esperienza in Area critica ma proprio di neo laureati) e muoverli come pedine all’interno delle sale dei PS, dei DEA, sulle ambulanze.

 

Nel lontano 2017 è stata fatta una proposta di legge che mai è stata varata che prevedeva l’obbligo di avere quantomeno la specializzazione in area critica post formazione di base per poter lavorare nella MEU.

 

Ad oggi, difatti, non è cosi.

 

Parliamo poi degli obblighi (personali) di formarsi per essere sempre pronti a qualsiasi emergenza: BLSD, ALS, PBLSD, PALS, ATLS, PATLS, ECG, PICC, eFast … A questi aggiungiamo le letture, continue, sulla farmacologia, le nuove linee guida, i protocolli interni, gli aggiornamenti su presidi e procedure.

 

E ancora: gli ECM, obbligatori.

E poi i farmaci generici, i LASA, che ci portano sempre in confusione e dobbiamo rimanere lucidi, perché in urgenza quel farmaco può fare la differenza e non puoi permetterti di sbagliare.

Quindi leggi i bugiardini, installi applicazioni per conoscere l’emivita, la farmacodinamica, le interazioni. Compri manuali sulla ventilazione non invasiva e i nuovi ventilatori. Imposti la PEEP, i flussi, il tipo di ventilazione.

Nel mentre è arrivato un altro codice rosso e tu, che hai due mani, ti sdoppi e improvvisamente ti ritrovi con 4 braccia, due cervelli, 4 gambe. Ma un unico cuore.

 

A questo aggiungiamo il fatto che, oggi, non si è più solo esecutori ma veri e propri professionisti autonomi. Ne consegue che la regola: “ma a me l’ha detto il medico!” non va più bene.

Quindi se somministro un farmaco lesivo per il paziente (sbagliando diluizione, tempo, modo) ne pago le conseguenze in modo diretto. Ed ecco che qui subentra, per obblighi di legge, l’assicurazione professionale da stipulare di anno in anno.

 

“Bello fare lo specialista.”

 

E fin qui tutto bene, direte voi. Ma quando dici agli amici che lavori in pronto soccorso e loro si immaginano che la laurea dia diritto a tale posto non credono minimamente che  quel posto te lo sia sudato e guadagnato e che ogni giorno combatti contro il mondo intero per fare la differenza.

E già, il mondo intero.

 

Lo stesso mondo che ci gridava “eroi” ora ci urla “bestie!” quando vogliono essere gentili.

Siamo continuamente sotto attacco, sotto scacco, sotto pressione.

E nonostante questo non smettiamo mai di mostrare un sorriso e professionalità.

 

Siamo specializzati in questo. Siamo specializzati in Sanità pubblica, in pediatria, in geriatria, in psichiatria e in area critica.

Siamo liberi professionisti, stipendiati a contratto o lavoriamo in cooperative.

 

Ma queste cose non le raccontiamo in giro. Nemmeno quando stiamo massaggiando un paziente. Non diciamo ai parenti: “Ho due lauree, due master, una magistrale.” Tanto, per loro, saremo sempre e solo “giovanotto o signorina”, quelli a cui dare del “TU”.

 

E nonostante le parolacce che ci tirate dietro, le aggressioni che continuamente subiamo, rimaniamo nel nostro e mostriamo con orgoglio la divisa (a volte lacerata, consumata, sgualcita, scolorita) e ciò che sappiamo fare meglio: il nostro lavoro.

 

Quindi, cari amici, quello che sapete di noi, quello che decidiamo di raccontarvi, è solo una parte di quello che realmente succede.

 

Non soffermatevi solo sul “ wow, chissà quanta adrenalina in pronto soccorso!” ma anche sulla quantità di sacrifici che facciamo ogni giorno per poter stare dove stiamo: al nostro posto sudato e guadagnato.

MEDICINA E MEDICINA D’URGENZA PER GIUNTA!

lunedì, aprile 15th, 2024

di Giacomo e Vincenzo (papi) Menditto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Motteggi tra padre e figlio

 

“Un’idea di strada quindi, per quanto appena abbozzata e già piena di buche e ostacoli, io la ho già: voglio iscrivermi a Medicina per fare l’Urgentista!

 

Un vero e proprio attentato alle mie povere coronarie di padre quasi cinquantenne – io che ho provato a controllare fino ad ora tutti i fattori di rischio cardiovascolari non genetici – arriva da chi meno te lo aspetti:

mio figlio Giacomo, ultimo anno del Liceo.

 

E, aggiungo, tirato su fin da tenera età con l’unico intento di evitargli di diventare un medico (sob).

 

“Ok” dico, “allora cominciamo proprio dalle buche:

lo sai che ti aspettano anni di notti da passare in Pronto Soccorso e Medicina d’Urgenza?

Starai quasi sempre in piedi e alla fine del turno sarai stanco ed annientato.

Poi ti aspettano così tanti weekend con turni mattutini o pomeridiani che ‘spezzano’ le giornate alla grande che alla fine non saprai neppure più cosa significa la parola ‘finesettimana’: venerdì pomeriggio-sabato-domenica, sabato-domenica, domenica?

E non potrai nemmeno protestare più di tanto perché lavorerai a stretto contatto con i tuoi amici di sventura Infermieri che fanno orari tipo 6-14, 14-22 o 22-6 o, se proprio va bene, 7-14 e 14-21 ed una notte ogni 4 giorni …”

 

“Vogliamo passare agli ostacoli?

Troverai figli di papà, raccomandati, baroni a bizzeffe, donne e uomini spietati, arroganti, presuntuosi come in tutte le professioni, ma i veri ostacoli saranno in te, nelle tue preoccupazioni e nella tua coscienza …

Ti troverai, come me a suo tempo, a vedere i cartelli necrologici per strada insieme ai vecchietti già a 26 anni con il timore di riconoscere un nome in un tuo paziente (che speri di non avere dimesso).”

 

“Gli scrupoli per non avere fatto abbastanza saranno le tue Erinni perenni e, come i migliori investigatori, come Poirot, Scherlock o Montalbano, non ti ricorderai dei casi (clinici) brillantemente risolti, no!

Avrai davanti agli occhi quelli delle persone che non sei riuscito a salvare, anche se magari era impossibile farlo.”

 

Mi dici: “io voglio e diventerò un medico perché so essere la mia passione ed è quello che mi immagino di voler fare per i prossimi cinquant’anni.”

 

“Ecco” ti rispondo subito “lo Stato ti prenderà in parola e non ti permetterà di andare in pensione senza 50anni di lavoro!!! Questo almeno se rimani in Italia e non te lo consiglio! Abbiamo gli stipendi più bassi d’Europa o quasi, e se fai l’Urgentista non potrai nemmeno fare la Libera Professione.

In pratica, tu salverai vite umane a tonnellate ed i tuoi colleghi cureranno persone e avranno stipendi da intra-moenia molto più alti dei tuoi.

Non so chi te lo fa fare!”

 

“Ecco” replica lui, “le parole ‘non so’ dovrebbero essere alla base di qualsiasi lavoro, specialmente quello del medico …”.

 

Provo a controllarmi, ma non ci riesco.

“Non so dici: non saprai mai tante cose perché rischi di essere condannato civilmente e penalmente ogni giorno, perché rischi di prenderti le mazzate mentre fai il tuo lavoro, perché un giorno ti chiamano eroe e l’altro farabutto …”

 

“Dai papi, ne riparliamo…adesso vediamo insieme la TV, danno Doc o forse ER, due patatine e ci rilassiamo, ba bene (come diceva quando era piccolo)?”

 

“Ok” mi ha già convinto con il suo sguardo bello e speranzoso…

 

Penso che le serie TV mediche sono quasi tutte ambientate in una Emergency Room, che in fondo in Italia abbiamo solo sbagliato il nome, ma fare l’Urgentista è bellissimo!

 

 

 

Gli affetti altrui.

domenica, marzo 31st, 2024

di C.B. DEA Santa Maria Annunziata

 

Fin dai primi tirocini, la maggior parte degli studenti di infermieristica è bramosa di svolgere parte della propria formazione in un particolare Setting: il DEA.

L’idea di affinare tecniche e conoscenze in situazioni in cui il tempo è davvero prezioso, è estremamente eccitante.

 

In questo Setting vengono messi a dura prova i nervi e le capacità di ogni professionista che, sotto la pressione dei codici incalzanti, è tenuto non solo ad agire tempestivamente, ma anche a saper rispondere in maniera coerente, efficace ed efficiente alle improvvise e diverse esigenze che gli si presentano.

La frenesia che si continua a percepire anche dopo la Laurea è questa: ci aspetta una sfida ogni giorno!

Affiancamento dopo affiancamento, tra un corso di formazione e l’altro, l’Infermiere acquisisce sempre maggiori competenze che  vanno a costituire un bagaglio personale che si potrà poi utilizzare in ogni altro Setting lavorativo successivo.

 

Dal punto del coinvolgimento è un ruolo tanto provante quanto gratificante, anche se a volte ci capita di trascurare il lato emotivo di noi stessi e delle situazioni, delle persone, in cui ci imbattiamo durante il turno lavorativo.

Ad esempio la signora con frattura di femore è molto di più di un caso clinico! E’ una settantanovenne che vive sola, lontana dalla famiglia, amante dei reality show che la sera, per tenersi compagnia, passa le ore al telefono con la nipote.

Oppure, il ventenne che si è lacerato una falange, ha appena iniziato il suo primo impiego ed è preoccupato per il posto di lavoro.

 

Il nostro ruolo è denso di relazioni umane, cosi come lo è anche di coinvolgimento personale anche se, in prima battuta, la natura del Setting ci spinge ad essere estremamente competenti nella parte tecnica. Dopo una più attenta riflessione ci possiamo però  rendere conto che esige anche un grande coinvolgimento dal punto di vista relazionale.

 

Negli ultimi due-tre anni, come mai prima l’Infermiere è stato chiamato a rispondere a situazioni nuove e mutevoli, a partire dall’esperienza della pandemia iniziata nel 2020.

L’infermiere di Pronto Soccorso non è solo colui, che insieme al resto dei professionisti sanitari, è tenuto a rispondere alle esigenze della popolazione in modo rapido e efficace, ma è colui che ha dovuto imparare a gestire il problema delle distanze, delle solitudini, delle emozioni profonde e purtroppo spesso anche del lutto attraverso un filtro.

Ovattato nella sua bolla, separato da strati di guanti e materiale isolante, si è improvvisamente dovuto far carico di tante cose di grande impatto umano.

 

Il gap non è stato solo di tipo fisico, ma anche e soprattutto emozionale: la situazione creata dalla pandemia covid ci ha portato a dover imparare a salutare i cari morenti di fatto soli, ove possibile, attraverso non solo tute impermeabili, ma a volte attraverso uno schermo.

Negato il calore di una carezza, di una mano amica: abbiamo assistito a situazioni pesanti come amici che non si sono più visti, mogli e mariti che non si sono più baciati, figli e figlie, madri e padri che non si sono più abbracciati per un ultimo saluto.

 

Per noi infermieri è stata un esperienza disarmante: non aver avuto più tempo in una condizione in cui il tempo era già di per se sfuggente.

È come se una situazione già gravosa di per sé a causa della natura della morte stessa e della fatalità della vita, dove vige un senso incolmabile di dolore, a volte rancore e amarezza si fosse ulteriormente appesantita.

 

In quel momento la figura onnipresente con i pazienti dell’infermiere ha svolto un ruolo fondamentale. Gestire i processi della malattia non è mai semplice, ancora meno lo è stato ostacolati da una pandemia mondiale dove tutti erano a rischio e nessuno poteva assistere direttamente il proprio caro. L’Infermiere  a questo punto si è fatto carico anche degli affetti altrui.

 

L’idea di conforto sia per chi esalava gli ultimi respiri, sia per i familiari lontani, passava proprio attraverso la figura che in quel momento assisteva h24, minuto dopo minuto le persone, le uniche figure a poter essere in qualche modo vicine a chi soffriva in quel momento delicato.

Se prima questo ruolo era affidato alla famiglia, in quel momento era diventato del tutto nostro.

 

Forse questa esperienza ci è servita a sviluppare in questi anni successivi una diversa consapevolezza ed un’ attenzione maggiore all’importanza delle relazioni umane, anche nella quotidianità attuale al di fuori dalla bolla covid.

 

Anche dove e quando i minuti sono davvero contati, la qualità della relazione umana può fare la differenza.

 





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