Non voglio più dare cattive notizie.
sabato, febbraio 22nd, 2025
L’ho detto a una collega (e amica) l’altro giorno, dopo aver comunicato a una paziente di avere un tumore. Era la terza volta in una settimana, e ogni volta spero sia l’ultima.
Ormai conosco il copione, e ogni volta vorrei non doverlo recitare. Non voglio essere colei che sa, colei che deve dire che quel gonfiore non era nulla di banale, che è una massa, che forse è un tumore, che bisogna fare accertamenti. E poi il silenzio, gli sguardi, la paura, le domande. Domande a cui, a volte, ho perfino paura di rispondere.
Cerco di rimanere distaccata, di non pensare a come si possa sentire una persona che riceve quelle parole da un medico giovane, dopo ore di attesa. Cerco di non immaginare il vuoto che possono aprire.
Ma non ci riesco. Ogni parola ha un peso anche per me. Perché anch’io, sotto il camice, sono una persona. Anch’io, ogni volta, sento un piccolo pezzo del mio cuore sgretolarsi.
Vorrei poter dire: “Mi sono sbagliata. Non è nulla di grave.“ Vorrei sorridere e spiegare che era solo una colica addominale, che quel pensiero che mi tormentava era infondato, che l’ecografia bedside mi aveva tratto in inganno. Vorrei condividere un sollievo, non un peso.
Il nostro lavoro di giovani medici in Medicina d’Urgenza è fatto di momenti come questi. Un lavoro che molti immaginano freddo, tecnico, quasi militare: una linea del fronte senza spazio per empatia o vulnerabilità. Ma questa immagine è lontana dalla realtà.
Siamo medici, ma siamo anche umani. E non possiamo fare a meno di empatizzare con i nostri pazienti. Vedere una madre disperata che stringe la mano del figlio malato, un anziano solo in cerca di conforto, una giovane donna che fissa il vuoto dopo una diagnosi inaspettata… ci fa soffrire. Non siamo insensibili, non abbiamo un muro a proteggerci il cuore. A volte quel muro è più fragile di quanto si creda.
Proviamo a costruirlo, è vero. Una barriera per non pensare che quelle persone potrebbero essere i nostri genitori, un’amica, nostro fratello, noi stessi. Ma quella barriera si incrina spesso. E quando si rompe, sentiamo tutto: la paura, il dolore, la speranza. Tutto ci travolge.
Il nostro lavoro richiede un equilibrio delicato: essere distaccati quanto basta per non crollare, ma vicini abbastanza da non sembrare freddi. Una danza costante tra professionalità ed emozione, tra tecnica ed empatia. Non è un caso se, a volte, ci fermiamo per un respiro profondo prima di entrare in una stanza o se, tornando a casa, ci sentiamo svuotati, esausti.
Eppure, non cambierei questo lavoro per niente al mondo. Perché, anche nei momenti più bui, so di poter fare la differenza. So che, anche solo per un istante, posso essere un punto di riferimento, una luce nella tempesta. So che, anche quando non ci sono buone notizie da dare, ciò che conta è come le diamo: con rispetto, con umanità, con la consapevolezza che dall’altra parte c’è una persona che merita di sapere, ma anche di essere accompagnata in questo viaggio difficile.
Essere futuri Medici d’Urgenza significa vivere costantemente al limite: tra la speranza e la realtà, tra il desiderio di salvare tutti e l’accettazione che non sempre è possibile. Ma è anche un percorso di crescita, che ci rende più forti e consapevoli. Non solo dei nostri pazienti, ma anche di noi stessi.
Forse il vero compito del medico d’urgenza, quando sarò “grande”, sarà proprio questo: essere vicino al paziente in ogni momento, soprattutto in quelli più difficili, quando il mondo sembra crollare. Perché non basta curare, bisogna anche prendersi cura. In questo prendersi cura c’è la nostra vera forza, il senso profondo del nostro lavoro, e la flebile speranza che possiamo offrire anche nelle situazioni più disperate.
Prendere cura significa dare al paziente non solo risposte e trattamenti, ma anche una presenza umana, un ascolto attento. Significa affrontare insieme la paura di un esito infausto, sedersi accanto a chi ha appena saputo che la sua vita cambierà per sempre e dirgli, guardandolo negli occhi: “Non sei solo. Sono qui per te.”
Sempre più spesso diagnostichiamo tumori in Pronto Soccorso, spesso anche in fase avanzata, quando non c’è più nulla da fare. Vediamo persone arrivare dopo mesi, talvolta anni, in cui i loro sintomi sono stati trascurati o sottovalutati. Il Pronto Soccorso diventa così, per molti, l’unico punto di accesso al sistema sanitario, un luogo dove finalmente ricevono una diagnosi, delle risposte, un conforto.
Non vorremmo che il Pronto Soccorso diventasse il luogo deputato alla diagnosi di queste patologie, ma la realtà è che ci troviamo sempre più spesso a dover sopperire alle carenze del sistema, prendendoci carico di storie che avrebbero avuto bisogno di un altro tipo di percorso. Questa non è una peculiarità italiana, ma una tendenza globale, come testimonia uno studio di Lancet Oncology¹ che ha rilevato una percentuale di prime diagnosi oncologiche in Pronto Soccorso che varia dal 24% al 42% a seconda della tipologia tumorale.
Il nostro lavoro, per quanto duro, è una scelta consapevole. Una scelta che comporta sacrifici, ma che regala anche momenti di profonda connessione umana. Ci sono istanti in cui la fatica svanisce, e rimane solo la gratitudine di chi abbiamo aiutato, il sorriso di chi abbiamo confortato, o la consapevolezza di aver fatto del nostro meglio. Perché, in fondo, è questo che conta: esserci, sempre.
E quando penso al futuro, immagino una Medicina in cui l’empatia sia centrale, in cui nessuno debba mai sentirsi un numero, un caso clinico, un problema da risolvere. Voglio credere in un sistema sanitario dove ogni paziente si senta accolto, rispettato, compreso, visto. Un sistema in cui tecnologia e scienza avanzano di pari passo con l’umanità, senza mai dimenticare che al centro di tutto c’è la persona.
Non voglio più dare cattive notizie.
Ma se dovrò farlo, voglio farlo nel miglior modo possibile. Con umanità, con rispetto, con la consapevolezza che anche le parole più difficili possono essere un ponte, un modo per dire:
“Non sei solo. Io sono qui, con te.”
- Risk factors and prognostic implications of diagnosis of cancer within 30 days after an emergency hospital admission (emergency presentation): an International Cancer Benchmarking Partnership (ICBP) population-based study
McPhail, SeanFilsinger, Brooke et al.
The Lancet Oncology, Volume 23, Issue 5, 587 – 600