IL BLOG DI SIMEU

 

Archive for settembre, 2018

Capitani e pionieri

giovedì, settembre 27th, 2018

Storie di viaggio dalla Summer School Simeu

di Aurora Vecchiato, veneziana e specializzanda Meu di Sassari

 

Cristina Runzo, prima classificata Photocontest Summer School Simeu 2018

“Oh, io adoro Lucio Dalla…”

“Si anch’io, poi non mi giudicare ma mi piacciono anche le sue canzoni degli inizi inizi.”

“Tipo?”

“Guarda, aveva fatto questo musical imbarazzante per bambini, a vent’anni; aspetta, te la canto, fa più o meno così…”

Quando mi hanno chiesto di scrivere qualcosa sulla Scuola Estiva Simeu, ho avuto un po’ la sindrome della pagina bianca. Sono stati cinque giorni nella stupenda rocca di Bertinoro, ma son sembrati due settimane. Troppe ore, troppe cose. Di che parlo?
Sto tornando in treno da sola. Ho appena salutato i miei colleghi specializzandi e specialisti alla stazione di Bologna, ci siamo abbracciati come se ci conoscessimo da chissà quanto, promettendoci di rivederci prestissimo. Che scrivo? Mi è venuta in mente l’immagine di me che canto con Giulia, al crepuscolo, dirette verso cena. Lei è un’apolide, figlia come me, come quasi tutti noi, del concorso nazionale, un senso dell’umorismo disarmante. 

“Ma se ti va, vieni con me, già lo sai, c’è ancora molto da fare!… Io con te, scommetterei che riuscirei… a far girare il mondo più in fretta…“. Faccio pure lo stacchetto col piede.

Giulia è quella che mi aveva appena dato una lezione sui criteri della TV, uno sguardo azzurro e serissimo mentre mi interrogava dal niente tra le sedie dell’aula. Ed eccola là, ora stava cantando con me Dalla e Mina, balletto annesso, basso tasso di dignità. Si chiama multitasking. Ho pensato alla goliardia di Stefano, neo specialista, MSF nell’animo, e al suo bambino con la bella sutura della lingua fatta serenamente in PS, sotto ketamina, da solo. Il sarcasmo di Matteo, la modestia di Alessandro, la simpatia di Valerio, l’orgoglio di Laura, la risata di Alberto, di Francesca, di Monica. Ho pensato a Maria Francesca, la stessa che insegnava taranta alla festa di chiusura, mentre mi raccontava con gli occhi luccicanti la corsa in sala di un arresto con rottura di aneurisma. IO, adrena, trasfusione massiva, massaggio fino in sala, dai, dai, aprono, clampano, è vivo, è vivo ca**o, campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo! 

Mi tremano i polsi. 

La mostruosa tenuta fisica di Idanna, la nostra pediatra d’urgenza, congresso USA, volo, trasferta, lezione. Verosimilmente sveglia da 40 ore, eppure saltava più di noi e rideva, birra in mano, tra gli infermieri MEU indiavolati. Io scherzai: “Non sono così gli eventi delle altre specialità, eh?” Lei, forse non pensandoci realmente, rispose continuando a saltellare: “No, per niente. Ma sai, è il pronto soccorso, che fa la differenza

Bam. 

Tema: “E’ il pronto soccorso che fa la differenza”. Analizza e commenta in 1500 parole questa frase.

Quando, alla prima sera, alcuni dei pionieri della medicina d’urgenza italiana ci chiesero in cerchio “chi fossimo”, l’imbarazzo era palese. Perché la verità non era la figuraccia in sé, è che è veramente difficile raccontare a degli sconosciuti non che sei innamorato, ma perché sei innamorato. Di fatto condividemmo le nostre storie d’amore, come a un improvvisato corso prematrimoniale. 

L’ordine dell’uomo sul caos, la mano con la fiaccola nel buio. Aveva lo sguardo cristallino, determinato, Anna Maria Ferrari, mentre lo esprimeva. Una volontà pura come una retta, nell’entropia del mondo circostante. Si commosse appena, mentre ricordava il bel sorriso di Vito Giustolisi, cui la nostra scuola è dedicata. Manifestava la sua pacata fierezza anche Gian Alfonso Cibinel, mentre ricordava il passato; quello che ci viene sempre ricordato da chi ci vorrebbe, dopotutto, ancora così: gli uscieri dell’ospedale, quelli che “vabbè, ma non è il tuo ambito”. L’emotività disarmante di Patrizia Vitolo, l’unione delle forze in un perenne lavoro di squadra, o, come direbbe lei, di orchestra.

Io stavo cercando un modo elegante per esprimermi. Faccio una battuta? No, con le battute faccio pena. Vabbé, ma non fare figuracce, Aurora. “Ciao a tutti, mi chiamo Aurora, e l’unica cosa che mi giurai da piccola è che mai, mai avrei fatto il medico”. Ecco, ora sotterrati o almeno spiega perché sei a rubare ossigeno in quell’aula. Mi trema la voce, mi dispiace che mi tremi la voce.

Quell’unica, singola frase di mia madre, mentre ero per la prima volta di notte in un ospedale, mano nella mano della mia ammalata. Una strada già segnata verso il giornalismo, il colloquio già passato nella scuola d’eccellenza dove “tutti vogliono andare”, e io che mi sentivo piccola e stupìta. Come i personaggi dei quadri romantici, in riva ad oceani rabbiosi, o su montagne disabitate. Piccola come una bambina in un’enorme cattedrale gotica, dove echeggia tutto. Piccola, piccola, infinitamente piccola.

Ti piacciono tanto le storie. Ma allora perché invece di andare in giro a raccontare quelle degli altri, perché non provi a farle tu? Perché cercarle, quando verranno da te?

E per anni infiniti mangiare amarissimo sui libri di medicina, pensando sempre di abbandonare, delusa come poche cose al mondo dal tipo di medicina che mi veniva ogni giorno proposto. Poi, il primo tirocinio in PS, la prima notte. 

Sei del mattino. Caffè in mano. Alle volte, l’ingresso dell’ospedale di Padova mi ricordava un’enorme nave. Specie quando mi giravo, e lo vedevo così, come un semicerchio luminoso, perso nel buio della città che sembra sparita. Non so se andate per mare. C’è sempre quel momento, quando si naviga di notte, che a trecentosessanta gradi non vedi altro che nero sopra, nero sotto. Alle volte immaginavo che il rumore delle ambulanze di notte fosse un lungo fischio, un richiamo per sottomarini, per altre navi, perse in quella oscurità come noi. E dentro chi poteva, dormiva, chi non poteva parlava col vicino, sacramentava, chiamava la mamma o Dio.

Mi sporsi dalla ringhiera, guardai giù come se fossi sopra il ponte della nave. E là, il Pronto Soccorso, che gran valzer!
Gente che veniva a morire, gente che stava per nascere, gente che stava per morire che avrebbe salvato qualcun altro, gente che semplicemente lavorava e beveva il caffè abituata a tutto questo.

Chissà cosa penseranno i nostri nipoti o anche solo i nostri allievi di questi modi preistorici di mantenere in vita la gente, di lenire il suo dolore, di cercarvi rimedio. Chissà se sembreremo insolitamente avanzati, o quasi barbari, cannibali, che con cuori ancora battenti ci alziamo in volo alle prime luci dell’alba perché in un’altra nave qualcuno ha iniziato ad operare.

Io ero lì, per la prima volta spettatrice. La potenza di qualcosa che tutt’ora non comprendo del tutto si stava esprimendo, continua ad esprimersi, indifferente di me e dei miei studi, sgorga il sangue come i torrenti, battono i cuori come i terremoti, precipitano i parametri come le valanghe. 

E mi chiesi sul bordo di questa nave se non avessi paura.

Certo che avevo paura. Certo che ho paura, certo che avrò paura. Questa è peggio di una guerra, almeno in guerra c’è una strategia umana, una logica comprensibile. Qui si sfida l’ignoto ogni istante, e bisogna renderlo a misura d’uomo, calpestabile, respirabile, abitabile. Qui dentro alla nave ci mettiamo le tendine e le lenzuola all’ignoto, i fiori, i cioccolatini, le calzette per i nati prima del tempo. Sfidiamo le onde e i maremoti, sguardo fisso avanti, in mano siringhe e saturimetri, il pranzo smezzato con l’infermiera preferita, la bottiglietta d’acqua accanto al computer, dottò lo vuoi un altro caffé?. Forse nel futuro davvero, grazie ai telomeri ci diranno quando saremmo destinati a morire, come lessi in un racconto da ragazzina; avremo cuori in titanio e nervi di sottili fibre ottiche, e a noi ci penseranno gli ingegneri, non i medici e gli infermieri.

Forse.

Per ora il dolore, la paura e la morte ci investiranno di colpo, e ci sarà sempre qualcuno di noi che dovrà anche imparare a dirlo ai pazienti o ai parenti, col sudore sulla fronte e sotto le braccia, e poi, chissà, sentirsi poco professionalmente fragili se viene voglia di abbracciarli e di piangere insieme.

È l’ultima sera, siamo sempre nella rocca di Bertinoro. La terrazza rinascimentale sta diventando rosa col tramonto. Sono passati cinque giorni di ecografia, trauma, pediatria, ventilazione, emogas, cardiologia, radiologia, chirurgia, medicina legale… Guardo fisso Alessandro, che, seppur estremamente bravo, stordito dalle infinite cose che sono richieste d’avere nello spazio di una sola scatola cranica, si siede sul muretto e chiede: “Ma voi pensate che alla fine faremo davvero i medici d’urgenza? Alle volte…”. 

Tace, guarda lontano. Capisco, è la mia stessa atroce sensazione, ad ogni fallimento. La stessa sensazione che Alessandra con candore ha comunicato al suo turno di parlare. Alle volte sembra impossibile, oltre ogni capacità umana. Alle volte pare di affogare.

Ripenso alle mie primissime notti di PS, a quell’ospedale-nave, a quei sottomarini persi nel nulla con a bordo gli splendidi sguardi di Federica, di Maria Teresa, di Mario Rugna, di infermieri incredibili. Me li immagino scrutare il radar, caricare l’attrezzatura, il cuore caldissimo e la mente fredda, lanciare i loro fischi nel buio, chiamare col morse, persi in una casa in campagna a centomila anni luce dalla base. Mi immagino pirati come De Iaco, come Guarino, Schiraldi, Cianci, Barozzi, Ferrari, urlare di tenersi pronti all’onda anomala. Issate le vele, allerta la sala, prepara i tubi, caricate i farmaci. Mi immagino un singolo sguardo di tutti i miei maestri, un cenno di intesa con gli infermieri. Lo sguardo di “Sai cosa devi fare e sì, so che lo farai”. Ecco, arriva. 

Tenetevi forte.

Guardo Alessandro, entrambi con gli occhi lucidi, poi senza volerlo parliamo all’unisono: “Non credo che vorremmo mai essere da un’altra parte”.

Accademia dei Direttori “Mancano più di mille medici nei pronto soccorso italiani”

giovedì, settembre 20th, 2018

 

Ogni anno i medici di pronto soccorso degli ospedali pubblici nazionali effettuano 4 milioni e mezzo di visite in più rispetto agli standard nazionali, definiti dalle società scientifiche. Il 29% del totale delle visite mediche di pronto soccorso supera quindi il normale carico di lavoro dei professionisti dell’emergenza, secondo uno standard di prestazione, calcolato tenendo conto di quanto tempo in media è necessario dedicare a una visita completa: ogni medico dovrebbe eseguire ogni anno al massimo 3.000 visite mediche, che invece sfiorano i 4.000 per ciascun professionista. Un fenomeno preoccupante, che è la prima conseguenza della carenza di personale: i medici a tempo indeterminato nei pronto soccorso italiani sono 5.800 mentre, in base alle piante organiche delle aziende sanitarie, ne servirebbero oltre 8.300; i precari sono circa 1.500, mancano del tutto all’appello più di mille medici di pronto soccorso.

È quanto emerge da una raccolta dati promossa da Simeu, Società italiana della Medicina di emergenza-urgenza, su un campione di circa 110 strutture di emergenza che rappresentano 6 milioni di accessi, circa un terzo del totale nazionale. I dati raccolti e l’analisi del fenomeno sono stati presentati durante l’Accademia dei Direttori 2018, giunta alla seconda edizione, nel corso della giornata di giovedì 20 settembre.

Si tratta di una situazione di grave sofferenza del servizio pubblico che mette in serio pericolo la qualità delle cure ai cittadini e a cui è necessario trovare rapidamente una soluzione: quest’anno le borse di specializzazione a disposizione per la medicina di emergenza-urgenza sono aumentate di circa il 40% rispetto lo scorso anno – spiega Francesco Rocco Pugliese, presidente nazionale Simeuma parallelamente è aumentato anche il fabbisogno di medici indicato dalla Conferenza Stato Regioni, che passa da circa 300 a 400 medici su tutto il territorio nazionale. L’aumento dei posti in specialità quindi, pur restando un buon segnale di attenzione da parte del governo e delle regioni, non è ancora una risposta sufficiente al bisogno di salute dei cittadini. La grave carenza dei medici nei pronto soccorso italiani è un’emergenza già oggi, mentre i nuovi posti in specialità offerti ora ricadranno sull’attività degli ospedali soltanto fra cinque anni. Sono necessari invece interventi rapidi per salvare l’emergenza del servizio sanitario nazionale.

L’Accademia dei Direttori, organizzata annualmente da Simeu e giunta alla sue seconda edizione, riunisce circa 150 responsabili delle strutture di medicina e chirurgia di emergenza e accettazione d’Italia, indipendentemente dall’appartenenza alla società scientifica. La due giorni promuove il confronto fra i professionisti sui principali temi della disciplina, visti in un’ottica prevalentemente organizzativa. Scopo dell’iniziativa è di contribuire a rendere uniforme l’offerta del servizio sanitario nazionale in materia d’emergenza e a trovare una soluzione ai principali problemi che affliggono il settore.

L’Accademia è dedicata a Francesco Stea, direttore del pronto soccorso di Bari, tra i principali fautori della Medicina di emergenza in Italia, scomparso nel 2016.

A Bertinoro la Summer School Simeu 2018

lunedì, settembre 17th, 2018

È partita nel fine settimana la Summer School Simeu 2018: A Bertinoro, in provincia di Forlì, sede della Scuola estiva della società scientifica, sono arrivati prima i 48 giovani medici e a seguire i 24 infermieri di tutta Italia che quest’anno fino al 19 settembre parteciperanno alla full immersion, teorica e pratica che è ormai stabilmente entrata nella tradizione formativa Simeu. I temi trattati sono relativi ai principali problemi metodologici di approccio e gestione della specialità, affrontati sotto la guida dei migliori formatori delle faculty Simeu. Il programma didattico affronta i temi fondamentali della disciplina, cominciando dall’ecografia in urgenza, passando per la Niv, fino alla rianimazione cardio-polmonare nell’adulto e nel bambino. “Quest’anno abbiamo rinforzato l’offerta della parte pratica, con esercitazioni e simulazioni anche nella chiave più ludica della competizione formativa, formula che già lo scorso anno aveva raccolto la soddisfazione dei partecipanti” commenta Gian Alfonso Cibinel, direttore della scuola estiva Simeu, che aggiunge ancora l’attenzione al tema della carenza dei medici di pronto soccorso negli ospedali italiani nei momenti di discussione e approfondimento della scuola di Bertinoro. “Quest’anno è aumentato il numero delle borse totali messe a disposizione dal ministero e dalle regioni –  afferma Cibinel – ma parallelamente è aumentato il fabbisogno dichiarato dalla Conferenza Stato regioni, che passa da più di 300 a 400 professionisti sul territorio nazionale”.

Fra le attività di gruppo torna anche il Contest fotografico dello scorso anno. Ai partecipanti che lo desiderano si propone di scattare foto durante le giornate di lavoro. Le foto saranno poi valutate dal Collettivo Hospital Inside, costituito da soci Simeu con provata capacità tecnica nel campo della fotografia più la responsabile dell’Ufficio Stampa della Società scientifica. Come lo scorso anno le categorie della competizione saranno: Esercitazioni, Lezioni, Riflettiamo insieme, Tempo libero, Ritratti.

La Summer School Simeu è intitolata a Vito Giustolisi, medico e socio Simeu, uno dei padri della Medicina di emergenza italiana, attivo propugnatore della nascita della Scuola di Specializzazione e in generale della formazione dei giovani professionisti, venuto a mancare nel 2008.

Il programma della Summer per medici e di quella per infermieri è disponibile sul sito Simeu, nella sezione dedicata ai Corsi.

Conclusione ideale della Summer School di Bertinoro sarà l’Accademia dei Direttori a Bologna, il 19 e 20 settembre, quest’anno alla sua seconda edizione.





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