IL BLOG DI SIMEU

 

Archive for settembre, 2025

Eppure, a pensarci bene, non è così male.

lunedì, settembre 29th, 2025

di Giuseppe Trainito

 

Inizia una giornata, una di quelle normali nella monotona e scontata routine:

caffè del mattino, doccia calda e si corre in ospedale tra codici maggiori, codici minori e fatica.

 

Ogni scalata, non importa quanto sia alta e ripida la salita, è un atto di fede e fatica. Si parte con entusiasmo eppure, dopo i primi passi, la strada si fa ripida, il respiro si accorcia e il peso dello zaino sembra raddoppiare. Ogni passo diventa una battaglia, una sfida. Il sudore bagna la fronte, le gambe tremano e il desiderio di arrendersi diventa una voce insistente nella mente. Ma poi, alle prime luci dell’alba, il sole caldo dona speranza a chi è abbastanza coraggioso da guardare l’orizzonte e quella paura, quella fatica, quei pensieri svaniscono come la schiuma di mare quando si infrange sugli scogli.

 

In fondo, la Malaysia è così:

parti carico, pieno di entusiasmo, felice e poi ti trovi davanti a una società profondamente diversa rispetto a quella in cui sei abituato a vivere e lavorare. 

 

Il sistema sanitario malesiano, in fondo – almeno strutturalmente – non è così profondamente diverso da quello italiano: ci sono ospedali pubblici con lunghi tempi di attesa ma gratuiti, ospedali universitari con tempi di attesa intermedi ma con delle tariffe da pagare e ospedali privati a elevato costo con tempi di attesa inesistenti.

 

Ed è quando vedi qualcuno pagare per una trombolisi sistemica che dai valore a tutte quelle lamentele del tipo “qui non funziona niente!”

 

È profondamente diversa altresì l’organizzazione professionale intra ed extraospedaliera: non esistono solo medici neolaureati, medici specialisti e infermieri.

Esistono anche delle figure intermedie assai interessanti e profondamente rispettate che sono i medical officer ovvero medici neolaureati che devono dedicare 2 anni post laurea nei reparti più importanti come chirurgia, ortopedia, dipartimento d’emergenza; al termine di questi 2 anni, viene intrapreso un periodo di almeno 18 mesi nel reparto dove si ambisce di lavorare.

E durante questi 3 anni e mezzo si viene pagati per acquisire conoscenze e sostenendo un sistema ospedaliero delicato dall’equilibrio estremamente fragile.

Dopo questo periodo, per titoli, si può partecipare al concorso di selezione della specializzazione ma fino ai 40 anni: dopo, non si può partecipare e si rimane medical officer a vita!

Nonostante tutto, i medical officer hanno piena autonomia: possono eseguire procedure invasive e non, richiedere diagnostica e somministrare terapia. Ma per i casi particolari, si contatta lo specialista.

 

Quando sono arrivato, pensavo “che pacchia!” e invece no: nonostante abbiano più risorse quantitativamente e qualitativamente parlando rispetto a un dipartimento d’emergenza italiano delle stesse dimensioni, in Malaysia, ci sono malattie cardiovascolari a elevata prevalenza, malattie metaboliche a più alta incidenza rispetto che in Europa e il triplo dei codici maggiori.

 

E quei codici maggiori, sono codici maggiori di entità nosologiche che conosciamo, almeno in Italia, solo grazie alla letteratura e in cui ci imbattiamo raramente nella vita.

Chi aveva mai visto una stenosi sottovalvolare aortica?

Chi aveva mai visto una cardiopatia cianogena misconosciuta in un paziente di 18 anni?

 

3 mesi passano ma ti lasciano qualcosa dentro; 3 mesi in Malaysia passano ma piantano un seme che lentamente, crescendo, ti fa apprezzare le cose che prima davi per scontate.

 

 

Eppure, a pensarci bene, non è così male.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salute e Delitto

martedì, settembre 16th, 2025

di Gianluigi Zolo.

 

Sono medico in servizio al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Livorno.

Da gennaio 2012, mese del disastro della Costa Concordia, ho ricevuto, pur essendomi io sempre e solo “inchinato” al mio giuramento e ai miei doveri, sei avvisi di garanzia, almeno fino ad ora, tutti con l’accusa di omicidio colposo.

 

E’ un’accusa che mi ferisce profondamente.

Innanzitutto ferisce la mia onestà individuale e professionale, poiché la mia esperienza con la Giustizia Italiana mi ha portato a constatare che tentare in tutte la maniere di essere un bravo cittadino e un bravo medico non è sufficiente a garantirmi il posto tra i probi.

In secondo luogo mina l’alleanza terapeutica tra il me medico e il paziente che può apparire, quest’ultimo, non solo un soggetto bisognevole di cure ma, spesso, come un possibile “avversario”.

In terzo luogo mina la mia serenità, che dovrebbe invece essere una prerogativa costante del medico a beneficio dei suoi pazienti, poiché viene alimentato il timore che ogni scelta clinica, per quanto ponderata il cui esito non può mai essere certo a priori, potrebbe essere motivo di una disavventura giudiziaria.

 

Mi capita ormai abitualmente che, quando leggo i quotidiani locali, alla notizia di una morte inaspettata il mio primo pensiero corra alla speranza che quella persona non sia stata di recente un malato da me visitato e dimesso.

 

Dei sei avvisi di garanzia, in quattro casi il procedimento è stato archiviato su richiesta del PM, in uno sono giunto al cospetto del GUP che ha decretato il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste, anche qui dopo richiesta di archiviazione del PM, per il sesto sono ancora in attesa della decisione del GIP.

In totale sono ad ora 13 anni e mezzo nei quali, a parte pochissime settimane, sono costantemente sotto indagine, quasi io fossi un serial killer, con le ripercussioni che, pur in presenza di uno spirito forte e determinato, si possono facilmente immaginare.

 

Sono perfettamente consapevole dell’obbligatorietà dell’azione penale e non posso non riconoscere, con sentimento di gratitudine che, fino ad ora, pur dovendo io essere fatto oggetto di indagine, i Magistrati con cui sono venuto a contatto hanno mostrato ogni benevolenza nei miei confronti, non per un indebito favoritismo, ma sicuramente perseguendo i canoni giuridici da cui devono essere ispirati.

 

Invece non ho potuto non constatare un accanimento, forse strategico, dei legali di controparte nei miei

confronti, anche a dispetto di risultanze tecniche e di richieste di archiviazione o non luogo a procedere del Pubblico Ministero. Accanimento nel presentare opposizione su opposizione nella tendenza a continuare a prediligere il rito penale rispetto al civile, stante la diversa rapidità procedurale, ma, così,ulteriormente prolungando l’ambascia del medico che, invece, dovrebbe essere messo rapidamente nelle condizioni psicologiche di meglio provvedere alla salute di tutti.

 

Il riconoscimento della mia innocenza non mi ha mai dato diritto ad una qualche forma di ristoro per tutto l’ingiusto disagio che mi è stato provocato, disagio che, comunque, non mi ha fatto mancare dal mio posto di lavoro neppure per un giorno in questi anni.

 

L’idea che mi sono fatto dopo tanto tempo è che vi sia un eccessivo potere del singolo nel denunciare come reato un esito indesiderato in Medicina, pur non avendo le competenze necessarie a comprendere l’accaduto e in questo senso a me pare, dal mio personale e forse fallibile punto di osservazione, che l’azione penale, per quanto obbligatoria, è però avviata in risposta ad una percezione soggettiva del denunciante, tanto è vero che non si indaga su tutti gli eventi indesiderati – per esempio su alcuni casi di morte senza una ragione evidente – ma lo si fa quando e perché un comune cittadino, addolorato e arrabbiato per la perdita o la malattia inguaribile di una persona cara, può sospettare e far sospettare come criminale un atto di cura.

 

La morte o l’evento indesiderato nel mio mestiere non sono sempre inattesi, nessun medico potrà mai vantare il 100% di successi e in Medicina evento indesiderato non può essere inteso come sinonimo di reato.

 

Che un malato possa peggiorare e morire non può non essere messo in conto e questo non può essere considerato equivalente a morire per il crollo di un ponte o il precipitare con una funivia o da un ponteggio non manutenuti o per carenza di sistemi di sicurezza.

 

Se ci si riflette con ponderatezza ci si potrà rendere conto che noi medici possiamo essere accusati quando ci imbattiamo in un’eventualità che la statistica aveva già anticipato come possibile, e talora addirittura probabile.

Esiste un’altra categoria professionale, così capace di fornire costantemente lavoro alle Procure, pur già caricate di altre mille necessarie incombenze, quando, dopo il tempo e le risorse spese nei nostri confronti, veniamo giudicati esclusi da ogni responsabilità fino al 97% delle volte?

 

In definitiva credo fortissimamente, e spero di averne mostrato le ragioni e ottenuto la comprensione del mio eventuale pubblico, che la depenalizzazione dell’atto medico debba essere ormai e finalmente riconosciuta come operazione di Legge irrinunciabile anche in Italia, per riguardo nei confronti nostri e degli stessi Tribunali.

 

Depenalizzazione dell’atto medico che non deve essere vista come aprioristico motivo di rigetto del riconoscimento di giustizia verso chi ha subito davvero un torto dal Sistema Sanitario, torto che può essere portato in giudizio in sede civile, tranne, è ovvio, nei casi di dolo o quelli che attraverso il rito civile siano dimostrati essere gravati da evidente colpa personale inescusabile.

Per via civile l’accusatore si deve caricare almeno dell’onere della prova.

 

Dovrebbe essere ormai acquisito che le condizioni di lavoro dei professionisti in Pronto Soccorso sono al limite della sopportazione umana, che, pur essendo un servizio essenziale, non si riesce ad ottenere l’arruolamento del personale necessario, non ultimo dei motivi proprio la frequenza e la pervicacia con cui veniamo condotti di fronte al Giudice.

 

Dovrebbe essere evidente che se il cittadino non riceve sempre un buon servizio il più delle volte la responsabilità risiede nel contesto generale e locale e non per colpa del singolo medico, eppure adoperando la via penale è il singolo medico ad essere perseguito e logorato.

 

Non sto qui a ribadire concetti ormai triti e ritriti sulle condizioni della Sanità, sul trattamento lavorativo ed economico del personale o sulla spesa riducibile se non fossimo costretti alla medicina difensiva, quella per cui si richiedono esami spesso inutili e costosi ma che servono alla costruzione di alibi preformati (non si sa mai), o quella che ci induce a trascorrere più tempo a compilare diari clinici invece che curare fattivamente i pazienti, al fine di precostituire memorie difensive che potrebbero rivelarsi opportune al momento giusto poiché “quello che non è stato scritto vuol dire che non è stato fatto”.

 

Nel frattempo, però, in attesa della vera depenalizzazione, mi piacerebbe fosse resa oggettiva la definizione di reato perseguibile d’ufficio in campo sanitario, che si richiedesse che l’esposto di un familiare sia suffragato da qualche elemento misurabile, che si esaminassero quo ante, di fronte ad esperti, il comportamento clinico e le decisioni del medico e, se ritenuti plausibili nel contesto, si evitasse la sua

Incriminazione.

Che si evitasse, in definitiva, l’automatismo che conduce, ora inevitabilmente, dall’esposto all’accusa e da questa, ancora in mancanza di un reato certo, alla ricerca di prove, tra cui quelle tanatologiche, per esprimere un giudizio che non potrà che essere più facile a posteriori.

 

Ho scritto tre volte negli ultimi anni, su questo argomento, al Sig. Presidente della Repubblica e ai Sigg. Ministri della Salute e della Giustizia, non ho mai ricevuto risposta diretta, ma vedo che il problema è discusso in questi alti livelli istituzionali ed è spesso citato sulla Stampa.

 

Mi sia consentito di chiedere che venga fatto l’ulteriore, definitivo e concreto passo avanti.

Ogni piccolo contributo, forse anche questo mio, spero possa portare finalmente a far depennare dal Codice Penale ogni accostamento tra i concetti di Salute e Delitto.





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