IL BLOG DI SIMEU

 

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Un po’ di noi Triagisti per voi

giovedì, febbraio 22nd, 2024

di Eni Bardhi

 

Mentre fuori c’era il silenzio, dentro il Pronto Soccorso di Lodi c’era invece rumore e paura. Nel 2020 il Covid ha solcato le distanze, le parole ai parenti dei nostri pazienti erano frammentate.

Dopo quella esperienza ci siamo detti che avremo reso il nostro Pronto Soccorso un luogo in cui l’accesso di una persona – specie quando le motivazioni dello stesso appaiano clinicamente rilevanti – non sarebbe mai più stato carico di preoccupazione, ansia o timori.

 

Quando non si conoscono le sorti del congiunto capita che si crei tensione nei famigliari in attesa e questo stato d’animo complica il nostro lavoro in quanto si accompagna a un livello elevato di aspettative nei nostri confronti rispetto alla possibilità di ricevere risposte rapide, puntuali, quanto più possibile esaurienti.

Oggi abbiamo disanimato le barriere e permesso ad un familiare di vivere con meno ansia e stress la lontananza dal proprio caro, tenendo conto proprio della sua sfera emozionale e sofferenza psicologica.

 

IL COMFORT DI ESSERE INFORMATI

 

L’obiettivo è rendere il nostro Pronto Soccorso un ambiente più confortevole nelle notizie, meno stressogeno per chi le attende. Con pochi passaggi, presso i PS di Lodi e Codogno, è infatti attivabile uno speciale servizio di messaggistica che, mediante sms, aggiorna i famigliari in tempo reale su tutti gli spostamenti e gli esami richiesti per il paziente.

 

Al fine di assicurare l’attivazione di tale servizio – a partire dalla fase di Triage – la nostra ASST ha reso campo obbligatorio il reperimento di un numero di cellulare del familiare a cui giungeranno tutte le informazioni grazie al nuovo sistema informatico First Aid.

Il consenso a tale servizio è espresso dal paziente stesso al quale viene garantito il diritto alla Privacy.

 

Tutti i giorni in turno si percepisce come uno dei bisogni fondamentali della persona che chiede aiuto sia quello di essere capito, non solo nel senso clinico e diagnostico, ma anche relazionale. Mediante la personalizzazione dell’assistenza al bisogno di salute, entriamo in relazione con i nostri pazienti mediante una visione globale: una relazione fondata su una comunicazione bidirezionale valida in Triage poiché svolta da professionisti della salute.

 

IL PRONTO SOCCORSO COME OSSERVATORIO

 

Come Referente Aziendale nella ASST Lodi indirizzo il Triage infermieristico orientandolo ai nuovi bisogni di salute della popolazione in linea con le evidenze scientifiche più recenti, in risposta alle attuali esigenze dei contesti operativi, nel rispetto della sicurezza delle cure, con un’attenzione particolare nei riguardi dei soggetti portatori di vulnerabilità / fragilità come ad esempio i minori, gli over 75, le  persone con patologie psichiatriche, i soggetti in situazione di emarginazione sociale, i portatori di handicap e le vittime di violenza.

 

Il Pronto Soccorso, è in qualche modo in questo senso un luogo “privilegiato”, dove purtroppo con frequenza ci si trova ad osservare episodi di violenza fisica e psicologica sulle categorie fragili, donne, bambini e anziani e disabili, manifesti oppure sommersi e casi di violenza assistita, soprattutto per quanto riguarda i minori.

 

La figura all’interno della struttura sanitaria che rappresenta il primo contatto con la persona maltrattata o abusata è proprio l’infermiere di Triage che, mediante assegnazione del codice viola, inserisce tale paziente nel percorso identificato per la specifica gestione.

A queste persone si riserva uno spazio adeguato dove si possano sentire accuditi e protetti, garantendo una presa in carico da parte di tutta l’equipè della sala visita a cui vengono assegnati.

 

Lo stesso vale per gli anziani: le condizioni di fragilità non modificano il codice di gravità ma ai soggetti più deboli viene assegnato una priorità di accesso mediante l’assegnazione del codice argento che, a parità di codice numerico, riserva precedenza in sala visita.

 

ANNULLARE LE ATTESE

 

Abbiamo inoltre compreso che il tempo di attesa dei nostri pazienti poteva trasformarsi in tempo assistito.

 

Visti l’Accordo del 1/08/2019, La DGR n. XI/2672 del 16/12/2019 e il Decreto della DG Welfare n. 785 del 28/01/2022b, che indicavano di standardizzare il processo di accettazione e presa in carico a livello regionale attraverso la diffusione e applicazione di algoritmi codificati, promuovere la presa in carico infermieristica, attraverso la condivisione di protocolli di avvio del percorso diagnostico e terapeutico nelle diverse aree del Pronto Soccorso e di riorganizzare e segmentare il flusso delle persone assistite all’interno dello stesso – con particolare attenzione alla complessità clinico-assistenziale ed al numero / tipo di prestazioni previste nei diversi motivi di accettazione a Triage – la Direzione delle Professioni Socio Sanitarie, la Direzione Generale unite all’impegno di tutto il gruppo di lavoro sul Triage, hanno inteso promuovere tali attività presso la nostra ASST per dare risposte concrete ai bisogni di salute dei nostri cittadini.

 

A tal fine, si sono implementati i percorsi di presa in carico infermieristica, proposti come percorsi assistenziali di diagnosi e cura inseriti in appositi protocolli.

 

E’ stato necessario prevedere di organizzare e diversificare la presa in carico della persona assistita, iniziando precocemente l’attività diagnostico / assistenziale che non ha motivo di essere posticipata ed abbiamo analizzato nel dettaglio, le caratteristiche dei flussi di accesso ai nostri PS, classificati per segni e sintomi, principalmente a maggior frequenza di presentazione.

 

Questo ha significato concretamente, creare nuove soluzioni organizzative per fornire la miglior risposta ai bisogni di salute che la persona presenta all’ingresso del PS, utilizzando al meglio le potenzialità delle risorse infermieristiche presenti.

Ad oggi il gruppo di lavoro degli infermieri di Lodi e Codogno può applicare 4 protocolli di presa in carico infermieristica:

  • dolore toracico,
  • dolore addominale,
  • analgesia
  • trauma minore

facilitando la gestione di particolari situazioni clinico assistenziali, riducendo sensibilmente il tempo di permanenza della persona assistita in PS.

 

ECCO ALCUNI DATI

 

Come esempio su efficacia del metodo > sono stati presi in carico nel 2023 dal 01/07 al 31/12 un totale di 2325 pz con accesso per dolore toracico, con tempi medi di presa in carico pari a 13 minuti rispetto ad un tempo medio di presa in carico nel 2022 di 3 ore e 5 minuti. 

Il fine è quello di attuare il più corretto approccio valutativo ma realizzare, già dall’ inizio del percorso di cura il Triage stesso, un’adeguata e rapida presa in carico della persona.

 

Al termine della valutazione l’infermiere, assegnato il codice di riferimento, può attivare il percorso diagnostico terapeutico assistenziale più appropriato tra quelli previsti dalla nostra organizzazione, ottimizzando i tempi di presa in carico e trattamento e contribuendo alla diminuzione dei tempi di attesa globale.

 

IL RUOLO DEL TRIAGISTA

 

Il “direttore artistico“ dei flussi e delle modalità di lavoro del PS è l’infermiere che esercita la funzione di triage perché è l’unico professionista dell’équipe che si trova ad avere tutte le informazioni e gli strumenti per governare i critici e strutturati processi di PS. L’infermiere triagista conosce più informazioni di chiunque altro e dirige l’orchestra in modo deciso ma armonico accompagnando il pz con note delicate. Siamo strateghi ed empatici nonostante leader con un ruolo complesso ed estremamente articolato. Il nostro è un ruolo difficile, un lavoro intenso che aumenta con il crescere dei nostri pazienti e con l’intensità delle cure necessarie e per questo siamo da riconoscere e sostenere”.

 

Ringraziamenti:

E’ ad oggi possibile parlare di questo grazie alla lungimiranza e fiducia affidatami dal Direttore della Direzione Aziendale delle Professioni Socio Sanitarie dott.ssa Donatella Vasaturo e dal suo staff. Ringrazio il gruppo di lavoro Triage che mi ha accompagnato e continua a farlo: Deborah Sarina e Ferruccio Marconi, l’infermiere coordinatore del PS di Lodi Lavinia Proca e l’infermiere coordinatore del PS di Codogno Giorgio Milesi.

 

 

 

 

 

 

 

RINGRAZIO QUOTIDIANAMENTE I TRIAGISTI CON CUI LAVORO PER SVOLGERE QUESTO RUOLO SEMPRE NEL MIGLIOR MODO POSSIBILE.

 

La violenza di genere oggi.

lunedì, novembre 20th, 2023

di Aurelia Masciantonio

Nei report della direzione centrale di Polizia Criminale dal primo gennaio al 20 novembre del 2022 sono stati registrati 273 omicidi di cui 104 vittime sono donne.

 

L’ accesso ai Pronto Soccorso delle vittime della violenza di genere, registra un implacabile aumento. Le motivazioni sono ovviamente legate alle cure mediche immediate e non procrastinabili,  ma anche per sintomi larvati, aspecifici e a volte fuorvianti che minano un vissuto di minacce, aggressioni, stalking, molestie.

 

In Italia i dati Istat mostrano che il 31,5% delle donne, ha subito nel corso della propria vita, una qualche forma di violenza fisica o sessuale o economica o psichica.

 

Le forme più frequenti di molestatore sono i partner, gli ex, amici con motivazioni ascrivibili a liti, spesso a futili motivi.

Gli effetti della violenza si ripercuotono sia sulla salute fisica che su quella psicologica.

Le vittime tendono all’isolamento, riducono la loro capacità lavorativa manifestando incuria di sé e dei loro familiari, spesso sviluppano disturbi comportamentali e, ben presto, si assiste al ricorso di strutture sanitarie o socioassistenziali risultando un problema di salute di proporzioni globali enormi.

 

Il 25 Novembre si celebra nel mondo la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con attività volta a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla violazione dei diritti umani. Nel 2011 la Convenzione Europea definisce il primo strumento europeo giuridicamente vincolante, più nota come Convenzione di Istanbul, un quadro normativo completo a protezione delle donne contro qualsiasi forma di violenza riconosciuta come forma di violazione dei diritti umani.

 

La Repubblica Italiana tutela la salute dell’individuo tramite il sistema sanitario nazionale (leg 23 dicembre del 1978, legge 208 del 2015) e prevede un potenziamento dei percorsi dedicati alle vittime di violenza di genere nei Pronto Soccorso.

 

Nel mese di giugno 2023 è stato approvato un disegno di legge finalizzato al contrasto della violenza di genere che contempla il rafforzamento dell’ammonimento del Questore e garanzia per le vittime di cyberbullismo e di stalking, in cui è previsto un aggravamento della pena per soggetti già ammoniti. Inoltre vengono prese misure di potenziamento preventivo e misure di velocizzazione dei processi per la violenza contro il femminile.

 

Parere unanime dei ricercatori: adottare strategie per ridurre il rischio, investendo sulla prevenzione, l’informazione e la cultura.

 

Nel 2015 è stata adottata dall’Onu, l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile: una lista di 17 obiettivi da raggiungere entro il 2030 sulla tutela dei diritti umani. Il documento è inserito all’interno del programma per lo sviluppo climatico.

Nel punto 5 è stato posto il raggiungimento dell’uguaglianza di genere, l’eliminazione di discriminazione e violenza contro donne e ragazze, ponendolo come obiettivo di strumento per il raggiungimento di parità in tutti i campi specialmente economico, politico e di leadership.

Si propone anche la garanzia per l’accesso alla salute sessuale e ai diritti riproduttivi, al riconoscimento del lavoro domestico retribuito e alla responsabilità condivisa all’interno del nucleo familiare.

 

La raccolta di dati e informazioni avviene con indagini periodiche da parte di esperti (GREVIO un comitato internazionale formato da 10/15 membri di vari stati firmatari), vengono così formulate indicazioni e direttive in ambito di prevenzione, sensibilizzazione, sia da parte di istituti pubblici che enti a convenzione ONG e Associazione.

L’ educazione alla parità di genere avviene con l’abbattimento di stereotipi che possono essere messi in atto con programmi dedicati nel nelle scuole, nelle istituzioni e con la formazione del personale preposto all’accoglienza delle vittime e degli autori della violenza.

 

Il significato di genere non si sovrappone al significato di sesso.

Per sesso si intendono caratteristiche biologiche, anatomiche, genetiche.

Per genere si fa riferimento ad una costruzione sociale di norme, comportamenti e attività che la stessa società ritiene appropriato per la donna o per l’uomo nel contesto culturale, epocale, storico, ambientale.

 

Parlando di violenza è inoltre fondamentale il concetto di “intenzionalità” dell’atto, la cui espressività fisica, psichica, sessuale, connessa ad incurie o privazione, può essere dichiarata o sospetta. La natura del reato deve essere specifica non vaga, scaturire da un sospetto fondato.

 

Dobbiamo ricordare che il medico di Pronto Soccorso è un P.U. ed esercita una pubblica funzione (amministrativa legislativa e giurisdizionale).

Vanno sempre denunciate, senza ritardo, con lo scopo di far avviare le indagini il prima possibile (art. 365 del CPP) le lesioni su minori con prognosi tra 21 o 40 giorni o che scaturiscono da lesioni che mettano in pericolo la vita, o quando vengono utilizzate delle armi, o con mezzi venefici, insidiosi o sostanze corrosive.

 

Per i minori vige l’obbligo di segnalazione di qualunque situazione anche di pregiudizio in cui il minore palesi uno stato di sofferenza, di disagio o carenza.

Situazioni sostenute da indicatori specifici: mancanza o carenza di relazioni familiari / tutoriali, assenza di ruolo genitoriale / protettivo e sicuro, inadeguatezza condotte parentelari rischiose dannose.

Nel caso in cui emergono questi indicatori specifici, la segnalazione va fatta immediatamente alla Procura presso il Tribunale dei Minori o, nel caso in cui sia possibile individuare il presunto autore, anche alla Procura Presso il Tribunale Ordinario.

Indicatori aspecifici sono casi in cui non emergono soggettivi gravi indicatori.

In questo secondo caso con indicatori aspecifici o comunque meritevole di attenzione e approfondimenti, la segnalazione verrà inviata ai Servizi Sociali Territoriali, all’Ufficio della Tutela dei Minori.

 

All’arrivo in PS di una persona che abbia subito maltrattamenti o violenza – giunta autonomamente o con F.O. o 118 – viene attivata la Procedura Aziendale in primis dal Triagista, opportunamente formato, che effettua una prima valutazione tenendo conto del contesto lavorativo, ponendo attenzione alla riservatezza, alla sicurezza, alla privacy.

Vengono raccolte le prime informazioni necessarie alla registrazione dei dati e all’ attivazione di un codice colore (che non è mai inferiore al codice giallo e con priorità).

 

Vengono messe in atto da parte del medico MEU specifiche misure di accoglienza della vittima prestando particolare attenzione al racconto, al coinvolgimento delle varie figure specialistiche – sempre nel rispetto della riservatezza dovuta – e fornendo informazioni dettagliate sull’ iter diagnostico terapeutico a cui la vittima verrà sottoposta.

 

Il Pronto Soccorso fornisce le cure necessarie e affida le vittime di violenza di genere, ad un percorso (con possibilità di accoglienza in centri specifici) per trovare strategie e soluzioni che le possano allontanare dai pericoli a cui possono andare incontro.

 

Il Pronto Soccorso è una porta sempre aperta, per molti è un “rifugio”.

Nei Pronto Soccorso ci si prende cura.

I Pronto Soccorso vanno tutelati, anche in rispetto della sofferenza di queste persone.

 

 

 

SIMEU. E’ UNA SOCIETÀ SCIENTIFICA NON UN SINDACATO!

domenica, novembre 12th, 2023

di Fabio De Iaco

 

Ci è capitato spesso di inviare richiesta di rettifica alle redazioni media e/o ai singoli giornalisti, ma a ben vedere l’occasione, l’ennesima, recentemente capitata su un articolo dell’agenzia ANSA che poi si è diffuso su altre testate, mi permette di puntualizzare un concetto che mi sta molto a cuore.

 

Succede infatti che SIMEU la Società Scientifica che ho l’onore di presiedere venga definita “sindacato”. È un errore, nel quale si incorre, ma è chiaro da sempre che non siamo un sindacato.

 

È evidente sulla base del nostro statuto ma soprattutto della nostra attività storica, a partire dalla creazione stessa di una comunità scientifica che faccia della Medicina d’Emergenza Urgenza il proprio obiettivo, passando per la battaglia per l’istituzione della Scuola di Specializzazione in Medicina d’Emergenza Urgenza, fino alle più recenti attività di questa Società nell’ambito della stesura di linee guida, della formazione dei professionisti, della promozione di eventi culturali e formativi.

 

E tuttavia, nonostante tutto “la SIMEU” spesso viene evocata come “il SIMEU”: un sindacato!

L’equivoco è grave, ma comprensibile nella sua genesi:

negli ultimi anni la SIMEU ha acquisito, spesso suo malgrado, una rilevanza mediatica che ha portato alcuni di noi alla ribalta della comunicazione pubblica.

È ovvio che sia così.

 

Se il Pronto Soccorso è il malato eccellente di questo Servizio Sanitario Nazionale, è del tutto logico che si chiedano chiarimenti e indirizzi a coloro (i professionisti della SIMEU) che ne sono i protagonisti. E inevitabilmente io e i Colleghi esponenti della SIMEU nelle nostre uscite pubbliche affrontiamo, tra gli altri, temi quali il benessere lavorativo, il lavoro usurante, lo stress lavoro-correlato, la valorizzazione delle peculiarità del lavoro in Emergenza Urgenza.

 

È comprensibile che queste nostre affermazioni vengano interpretate come sindacali, proprio perché trattano temi che sono usualmente materia di rivendicazioni sindacali.

Il fatto è che molti degli argomenti che siamo costretti a toccare hanno una base che è per prima cosa di buon senso, in secondo luogo assolutamente scientifica (anche sulla base dello studio della situazione internazionale dell’Emergenza Urgenza) e solo in terza battuta anche rivendicativa e dunque sindacale.

 

È una constatazione pesante, perché significa che la situazione del sistema nazionale dell’Emergenza Urgenza è così oggettivamente seria da diventare argomento di riflessione e confronto scientifico prima ancora che sindacale.

E poi, nella tradizione delle grandi Società Scientifiche, per dirla in inglese anche noi rivendichiamo orgogliosamente la funzione di “patient advocacy”, che significa – ma in italiano sembra meno nobile – “difesa del paziente”: come potremmo assolvere il compito se non toccassimo temi relativi all’organizzazione e ai provvedimenti necessari per la sopravvivenza del sistema?

 

Di contratto e stipendio non ci sentirete parlare; ci penseranno i sindacati, quel che NON siamo.

Ma di tutela del malato, valorizzazione delle professionalità, difesa del benessere degli operatori continueremo a occuparci.

 

Solo, per favore, non chiamateci sindacato.

 

E’ arrivato il momento di cambiare!

venerdì, settembre 29th, 2023

di Stefano Paglia

 

La protesta dei medici specializzandi non è solo giusta e totalmente condividile, è anche “provvidenziale”.

Provvidenziale perché attesta che è indiscutibilmente arrivato il momento di riformare il modo in cui in Italia i medici diventano specialisti, confrontandosi in positivo con quanto, in parallelo, avviene non solo in Europa ma in gran parte del Mondo.

 

Conciliare lavoro e formazione non è impossibile, anzi!

E’ opportuno, è necessario.

 

L’obiettivo condiviso deve essere chiaro: formare giovani professionisti pronti, pienamente operativi autonomi ed esperti al pari dei loro colleghi europei.

Questa è il vero senso della specializzazione!

 

Non dobbiamo puntare a studenti al termine di un percorso didattico ma dobbiamo raggiungere l’obiettivo di avere professionisti esperti al termine di un percorso formativo con autonomia crescente, associata ovviamente a una degna retribuzione e al pieno riconoscimento di ruolo, impegno, capacità e funzione.

 

Il passaggio al lavoro non può che essere progressivo, graduale e deve completarsi proprio nel corso del percorso formativo specialistico.

In questo gli ospedali di formazione non possono che avere ruolo.

 

La protesta degli specializzandi è una grandissima occasione per tutti per riflettere sul cambiamento e voglio credere che anche il mondo dell’Università ne saprà cogliere l’importanza interpretandone la prospettiva divenuta ormai ineludibile e vitale.

 

Poco da aggiungere.

Hanno ragione loro.

È tempo di cambiare.

 

Per i pazienti il codice è sempre “rosso”

lunedì, luglio 24th, 2023

di Silvia Musci

Siamo in auto di ritorno da un corso di comunicazione aumentata, felici di condividere ed approfondire una competenza fondamentale delle richieste di salute date dalle persone assistite in Pronto Soccorso, le quali le vivono come fosse sempre un Codice 1, nuova identificazione del passato Codice Rosso.

Così siamo sempre in vista per nuovi approfondimenti della “competenza culturale” che racchiude in sé la comunicazione. “Apprendere per apprendere” o Learning to Learn, è una delle competenze chiave indicate dall’Unione Europea, la quale ci è utile per adattarci alla dinamicità del nostro tempo, sia in ambito lavorativo che personale.

 

Siamo esseri sociali e pertanto abbiamo la necessità di stare in gruppo, di creare relazioni, questo fin dalla nascita, il cucciolo dell’essere umano se abbandonato a sé stesso non sopravvive ha bisogno di essere accudito ed istruito per sopravvivere all’interno della sua comunità.

Così è anche la comunità di pratica infermieristica ma non solo, una professione meravigliosa e complessa, la quale in Emergenza Urgenza è particolarmente ricca sia di hard skills tra le quali ricordo i corsi di Rianimazione Cardio Polmonare, sul Trauma, il Triage, sia di soft skills.

Di queste ultime ne ricordiamo alcune:

la capacità di adattamento,

il problem solving,

la comunicazione,

la negoziazione,

il time management,

il pensiero laterale,

l’apertura al feed back,

il teamwork,

tutte skills che vengono applicate nel Team di cura.

 

Siamo portatori di una cultura condivisa con valori, credenze e linguaggio oltre alla formazione necessaria in questo campo.

Sono Infermiera di Emergenza Urgenza da “sempre”: è stato subito amore già dal primo incontro, impossibile da lasciare nonostante sia stata dura attraversare il periodo Sars Cov 2, per lei rimane la passione, che attualmente vivo nel Grande Ospedale Metropolitano Niguarda.

Grazie all’Antropologia, con il pensiero laterale per scelta personale ho approfondito la competenza comunicativa. E’ di fatto lei il filo rosso, la comunicazione, che collega tutti noi nel Patient Center Care, il modello di cura che pone al suo interno la persona assistita e che vede tutti noi attori coinvolti nelle varie professionalità a collaborare per il suo benessere.

La competenza culturale è fondamentale per la relazione di cura con la persona assistita ma non solo, anche tra di noi!

 

Se vogliamo utilizzare la metafora per descrivere i vari punti di vista del vissuto in Pronto Soccorso, possiamo pensare a com’è attraversare un confine verso un luogo riconosciuto socialmente ma con obbligo di frequenza solo in caso di …. necessità!

Così attraversiamo la porta del Pronto Soccorso ed entriamo nel Triage dove la struttura, i rumori, il sovrapporsi di voci e allarmi che sono disseminati nella “nostra” struttura, parte attiva e necessaria, sono negli occhi dei nostri assistiti visti attraverso lo stupore o lo smarrimento di trovarsi nel “paese delle meraviglie”!

 

Le loro richieste di salute sono tutte urgenti, uniche ed inamovibili, vorrebbero risposte immediate ed accoglienza a porte aperte …. Invece la porta si chiude … sembrando così un confine invalicabile!

Per noi invece è diverso, conosciamo il territorio e condividiamo linguaggi e modalità operative, noi ci spostiamo con fluidità dall’ area ad Alta intensità di cura come la Shock Room dove arrivano i Codici 1, a quelle a media intensità, l’OBI che non è Star War ma l’Osservazione Breve Intensiva, fino a quelle a bassa intensità quali i Codici minori i 4 e 5 ….

 

Ma per i pazienti i Codici sono tutti urgenti!!!

 

Soprattutto il tempo incide sulla loro percezione, scorre in modi diversi… per noi velocemente, per loro in attesa spesso soli per necessità, lento e inamovibile…ci raccontano che…non finirsce mai!

Noi abbiamo divise di vario colore che indicano le varie professionalità, certo il cartellino ci identifica…tra di noi ci conosciamo, loro invece si affidano ai nostri sguardi, alle nostre mani…

Stanotte lei è ancora qui? Chi viene al posto suo…?”

 

Stanze diverse, codici di priorità diversi, attrezzature diverse… respiratori, monitor multiparametrici, lettini o letti da degenza… spazi … per noi famigliari, sappiamo dove muoverci e come, cosa c’è e cosa vi troviamo, quasi una seconda casa, in definitiva ci passiamo almeno un terzo della giornata.

Abbiamo i PPCI, ovvero i Percorsi di Presa in Carico Infermieristica che conducono la persona assistita, dopo la fase di Triage nel percorso più adatto alla loro richiesta di salute proprio per evitare il “tempo non a valore” detto più semplicemente tempo perso. Alcune volte sono all’interno di un percorso tracciato dal PDTA, i Percorsi Diagnostici Terapeutici Assistenziali, altre volte sono in percorsi specifici come il pediatrico o l’ostetrico, per noi strade consolidate ma per loro un labirinto sconosciuto.

 

Abbiamo personaggi diversi a seconda se arriva un bimbo, un anziano o un clochard … quanti magnifici colori ed interpretazioni, ma soprattutto abbiamo sempre la diretta, in Pronto Soccorso non ci si annoia mai, non esiste un giorno o una notte uguale all’altra!

 

Mentre il “nostro filo rosso” dato dalla comunicazione ci porta a lavorare in Team a capirci al volo, a condividere informazioni necessarie per la continuità delle cure nel nostro territorio ospedaliero, per chi invece sta dall’altra parte è entrare in un terreno sconosciuto e quindi essere accolto ed avere informazioni adeguate sia per contenuto sia per modalità, ha la grande funzione di sostegno per chi vive l’attesa “fuori dalle mura” e quindi non solo conoscitiva dello stato di salute del proprio caro.

 

L’accompagnatore o care giver, che siano famigliari o amici, per loro la frase di rito spesso è :” Non si preoccupi, adesso lo prendiamo in carico noi, appena possiamo le diamo informazioni”, non è più sufficiente … la porta si chiude … e così comincia l’attesa … da entrambe le parti, la “corrispondenza di amorosi sensi” non si conclude ma continua nello spazio dei pensieri dove incontrano emozioni, tra cui paura, tristezza, angoscia che ben sappiamo possono influenzare in modo negativo lo stato di salute.

 

Salute, malattia e medicina divengono così dei sistemi simbolici costituiti da un insieme di significati, di valori e di norme comportamentali e di conseguenza delle reciproche interrelazioni. Abbiamo così la famosa triade della definizione di malattia, dove per Illness intendiamo il malessere percepito dalla persona che darà così un senso al proprio vissuto, Disease è la malattia definita da noi sanitari che può permettere così l’accesso alle cure ed infine Sickness è la definizione che la società attribuisce alla malattia stessa che va quindi oltre alle sue caratteristiche individuali, dandole così un ruolo sociale. In questo momento vedo tutta la triade all’opera, a seconda dell’angolazione della mia osservazione, osservazione partecipata attiva di stimoli dove si cerca di comunicare al meglio sempre nei tempi migliori per tutte le figure coinvolte.

 

In Pronto Soccorso le persone assistite hanno l’impressione che il tempo sia estraniante: se ne ha così tanto, di tempo, che ci si sente strani, fuori luogo, rispetto alla vita ordinaria in cui esso ha un suo nesso costante. Niguarda a sostegno di questo specifico ambito da qualche mese ha istituito il Caring Nurse, uno di noi che si prende cura proprio dell’attesa, della comunicazione e del sostegno funzionale per ambo le parti!

 

Per noi colleghi infatti è di grande aiuto sapere che situazioni stressongene sono contenute attraverso la relazione, la letteratura insegna che l’aderence si attiva attraverso la comunicazione.

Seppur attivo da poco tempo si vedono già dei risultati incoraggianti, così Codici 1 visti dal “nostro” o “vostro” punto di vista, per tutto questo, noi in prima linea ci siamo!

 

Infermiera MS HRD MS PhDs DACS
EAS DEA ASST “Grande Ospedale Metropolitano Niguarda

Specialisti in pionierismo

lunedì, maggio 15th, 2023

di Alessandro Salzmann

La nascita della Specializzazione in Medicina d’Emergenza-Urgenza ha rappresentato un evento storico per la medicina italiana.
Al di là di un folkloristico interesse che l’emergenza suscita tanto nello studente quanto nel medico pensionato (che spesso si esprime con una concezione trasfigurata dello specialista MEU, del tipo: “Anche io sono un medico d’emergenza-urgenza, perché ho trasportato due volte un paziente in ambulanza”), la MEU è una disciplina di cui avevamo bisogno e che ha segnato senza dubbio un progresso per l’organizzazione delle cure in Italia.
 Chi ha scelto di percorrere questa strada, tuttavia, lo ha fatto più o meno consapevolmente per una fascinazione verso un progetto più ambizioso rispetto ad un tradizionale percorso che avrebbe perseguito all’interno di una qualsiasi altra specializzazione (anche se lo scontro tra vecchio e nuovo rappresenta una sfida in qualsiasi ambito).
Ho iniziato la scuola di specializzazione nel 2017 e insieme alla mia collega Silvia siamo stati i primi specializzandi MEU dell’Università di Chieti-Pescara.
Essere pionieri è una bella sensazione, soprattutto all’inizio. Nessuno capisce esattamente cosa sei e nei casi fortunati capita che ti accarezzino i capelli, sorridendoti compiaciuto per aver scoperto che esisti, oppure che pensino “quanto sono carini questi MEU appena arrivati”, quasi fossi un bassotto trotterellante per i corridoi ospedalieri.
Tuttavia questa tenerezza viene rapidamente sostituita da altre sensazioni non altrettanto piacevoli, questo perché essere pionieri comporta molte responsabilità e grande sacrificio, a maggior ragione per coloro che si ritrovano ad operare in zone d’Italia dove la specializzazione MEU si può trovare scritta solo nei quotidiani nazionali.
Se durante gli anni di specializzazione ci si ritrova in gruppi di specializzandi che divergono prevalentemente su grossolani obiettivi professionali e di vita, una volta terminati i cinque anni ognuno prende la sua direzione e va a collocarsi in aree geografiche diverse.
E’ da quel momento che iniziano le prime vere soddisfazioni tanto quanto i veri dolori, che spesso nascono proprio dalla condivisione del lavoro con le più disparate tipologie di colleghi, con cui la convivenza professionale può risultare davvero complicata.
D’altronde però anche questo è processo fisiologico ed è uno dei prezzi da pagare allo scopo di raggiungere l’obiettivo della diffusione del verbo della MEU anche negli angoli più remoti del Paese.
Eppure al di là di questa retorica è necessario scontrarsi con una realtà indiscutibile.
Padroneggiare determinate conoscenze e abilità rappresenta per lo specialista MEU una prerogativa fondamentale affinché la nostra disciplina si distingua dalle altre e allo scopo di raggiungere l’autonomia necessaria a distinguerci rispetto al passato, ma accade spesso che noi giovani specialisti MEU arriviamo al titolo di specializzazione con un bagaglio teorico e ancor più spesso pratico non adeguato, perlomeno rispetto a quello che avremmo voluto e dovuto raggiungere.
Ciò accade non necessariamente e solamente a causa nostra, ma perché i percorsi formativi ideali si scontrano con sistemi e protocolli che mal combaciano con le nostre necessità formative. Quel che non ci era stato detto all’inizio (o meglio, che non avevamo pensato prima di iniziare i cinque anni) è che essere pionieri della MEU sarebbe potuto significare anche lasciarsi indietro qualcosa in termini di formazione.
E’ probabile che alcuni di noi si siano immaginati parte di una rivoluzione già scritta e apparecchiata, scoprendo poi che le cose non vanno esattamente in questo modo; tuttavia è altrettanto vero che i sistemi in cui ci troviamo a lavorare spesso necessitano di una ristrutturazione quasi completa, processo che necessita di tempo e abnegazione.
Esempi banali:
> a cosa serve conoscere a memoria l’ATLS se nell’ospedale in cui lavoriamo il paziente traumatizzato è destinato per protocollo, scritto o meno, ad essere sottoposto ad una TC total body e io il drenaggio toracico comunque non mi sento in grado di posizionarlo?
> Che senso ha conoscere a memoria le linee guida sulla sepsi se dal laboratorio scendono a linciarti ogni volta che richiedi le emocolture in PS?
Questi e innumerevoli altri cortocircuiti possono rappresentare una delle molteplici cause alla base degli abbandoni della MEU, in entrata (vedi la voce “borse non assegnate”) o ancor più in uscita. 
La realtà è che il nostro ruolo, specialmente in quelle zone d’Italia dove la MEU è ancora soltanto una sigla, non si esplica soltanto nella rappresentazione di uno specialista con competenze nuove, ma anche soprattutto attraverso un lavoro più complicato di mediazione con la dirigenza, i colleghi e con tutti i membri del team.
Alle necessarie competenze di base, che durante gli anni professionali devono essere rinnovate da un costante aggiornamento e dalla volontà di riempire i vuoti di una preparazione non sempre adeguata, si affianca un’attitudine e una capacità a guidare il cambiamento verso un modello di gestione nuovo, in cui la figura dello specialista MEU abbia il ruolo che gli spetta.
Non c’è dubbio sul fatto che il nostro sia un compito ancor più difficile di quel che immaginavamo prima di iniziare i cinque anni di specializzazione, soprattutto in un sistema compromesso come quello in cui ci troviamo ad operare nel SSN.
Tuttavia può essere utile avere una visione di speranza così come la intende Václav Havel:  “La speranza non è ottimismo/La speranza non è la convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo/La speranza è la certezza che ciò che stiamo facendo ha un significato/Che abbia successo o meno…”, perché nel grande marasma che viviamo possiamo trovare la base per un vero e sostanziale cambiamento.

 

ERAVAMO 4 AMICI

venerdì, aprile 14th, 2023

di Francesco Rocco Pugliese

 

Italia, anni Ottanta.

 

Alla fine del percorso di studi universitari il grande dilemma attanagliava tutti: università o ospedale?

 

L’Università seguiva il criterio meritocratico scandito dal metronomo dei baroni, l’ospedale era una realtà organizzativa in costruzione.

 

Nel mezzo un mare magnum di guardie in clinica, sostituzioni di colleghi, visite fiscali, tentativi di attività privata e quant’altro nell’attesa di decidere o subire la decisione.

 

Per tutti comunque la possibilità di un “corridoio umanitario”: il pronto soccorso, un non luogo in cui storicamente sostavano i medici di qualsiasi specialità in attesa della strutturazione nel reparto specialistico ambito oppure con percorso inverso i medici reietti dell’ospedale.

 

Questa varietà di intenti e di aspettative rendeva il dialogo eterogeneo, senza obiettivi condivisi, basato prevalentemente sulle criticità quotidiane vissute e senza una vision (termine programmatico allora ben al di là dell’essere non sono utilizzato, ma anche solo pensato).

 

Qualsiasi specialità poteva trovare lavoro in pronto soccorso (medicina interna, chirurgia generale, medicina di laboratorio, dermatologia, ematologia, ….), qualsiasi linguaggio poteva essere utilizzato, qualsiasi escatomage poteva essere ideato per collocare il proprio paziente.

 

Le apparecchiature elettromedicali erano praticamente assenti; gli spazi generalmente ridotti, scelti fra quelli meno ambiti della struttura senza alcun razionale di collegamento con i servizi essenziali; la funzione di triage svolta di fatto dall’ausiliario che aiutava i pazienti ad entrare.

 

Negli anni Novanta gli accessi al pronto soccorso divennero sempre più numerosi, l’influenza della comunità scientifica internazionale sempre maggiore con la comparsa di percorsi e protocolli da seguire e di conseguenza le risorse divennero progressivamente più carenti.

 

Quattro amici decisero che volevano cambiare il mondo e si sedettero per rendere possibile un reale confronto fra tutti gli operatori di pronto soccorso e cercare di adeguare quest’ultimo allo sviluppo della medicina e della società.

 

Colloqui vasti, ripetuti, in più lingue professionali, a volte infruttuosi a volte faziosi, ma nel complesso di notevole crescita interna e dentro le istituzioni.

Si riuscì a far comprendere la necessità di definire gli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera e di questo ne beneficiò anche il pronto soccorso in termini di un’implementazione di risorse umane e tecnologiche.

 

Negli anni Duemila i quattro amici, che erano riusciti a codificare una lingua comune dell’urgenza e quindi a diffondere il loro messaggio, ormai diventati centinaia, fondarono una casa comune, la Società Italiana di Medicina di Emergenza Urgenza SIMEU.

 

Per poter insegnare e parlare però ufficialmente questa lingua comune, capirono che era necessaria una scuola apposita: tavoli tecnici, colloqui istituzionali, ferme prese di posizione portarono alla istituzione della medicina d’urgenza quale disciplina a sé stante con relativa scuola di specializzazione.

 

Negli ultimi decenni i quattro amici hanno potuto godere del notevole approvvigionamento di attrezzature, ampliamento degli spazi e costruzione di reti scientifiche ed assistenziali, ma hanno potuto constatare anche il progressivo diventare del pronto soccorso una cattedrale nel deserto:

un microcosmo, altamente tecnologico e specializzato, sempre più isolato dal resto dell’ospedale; una riduzione degli accessi assoluti direttamente proporzionale all’aumento del sovraffollamento ed alla riduzione delle risorse umane.

 

I quattro amici sono ancora là, memoria ed anima di questo percorso: è tempo di bilanci.

 

La loro velocità di cambiamento organizzativo ha superato di gran lunga quella del sistema ospedale, fermo da un secolo; eppure la società, le istituzioni, i giovani neolaureati non dialogano con loro.

 

Quale errore è stato commesso?

Il medico di Emergenza Urgenza tra informazione, formazione e narrazione.

venerdì, gennaio 13th, 2023

di Geminiano Bandiera

 

In questo tremendo momento storico per tutta la sanità italiana la società civile sembra essersi finalmente accorta che esiste un manipolo di professionisti che garantiscono un servizio essenziale con difficoltà rapidamente crescenti, dal peso ormai insostenibile.

 

Siamo indubbiamente sempre meno scontati.

Si chiama informazione.

 

Era ed è giusto che tutti ne siano informati, dai colleghi di altri reparti ospedalieri piuttosto che di altre discipline di impegno “territoriale”, ai vertici organizzativi, alla popolazione civile per finire alla politica.

 

E’ ormai chiaro a tutti che noi medici di emergenza urgenza siamo una “specie in via di estinzione”, ma credo peraltro che sia molto più evidente anche l’essenzialità e l’insostituibilità dei servizi che eroghiamo.

 

Ben vengano quindi le campagne di informazione alla popolazione e soprattutto i tentativi di individuazione di validi percorsi per la cronicità e la patologia non urgente o comunque differibile, che troppo spesso finisce per essere vissuta come urgente solo per mancanza appunto di percorsi alternativi.

 

Inoltre, in una società sempre più destrutturata in cui una scienza medica specialistica d’organo tende costantemente a frammentare l’approccio al paziente rappresentiamo, insieme a pochi altri, gli ultimi tutori dell’approccio all’essere umano malato nella sua interezza e complessità.

 

Anche su questo aspetto, per nulla banale nelle sue quotidiane conseguenze pratiche, ritengo sia doveroso fare informazione.

Fino ad oggi, pur avendo mille interfaccia sociali e sanitarie, sembravamo invisibili e di sicuro eravamo quantomeno scontati.

Oggi probabilmente molto meno. Grazie anche all’informazione appunto.

 

Attenzione però ad una narrazione eccessivamente drammatizzata e catastrofistica, soprattutto nei confronti dei colleghi più giovani ed in particolare di quelli che dimostrino interesse verso la nostra meravigliosa disciplina.

 

Non siamo scontati, siamo ottimi professionisti, rivestiamo un ruolo strategico ed insostituibile per la risposta ai bisogni di salute emergenti (vitali ma fortunatamente di numero contenuto) ma anche di quelli urgenti (nelle varie sfumature dell’accezione, con un impatto molto maggiore in termini di volumi).

 

I primi si prestano benissimo ad una narrazione “eroica” che certamente dà fulgore alla disciplina, i secondi devono invece essere oggetto di una più corretta informazione sia ai colleghi specialisti di altre discipline che ai pazienti.

 

Non intendo aprire una discussione, peraltro molto interessante, sul significato della parola urgenza ma ritengo fondamentale riflettere, tutti, sulla necessità di non incorrere in un ennesimo errore di frammentazione, ricordando quanto sia spesso labile il confine tra emergenza ed urgenza e sdrucciolevole il terreno sul quale spesso ci troviamo in questo ambito, insieme ai nostri malati.

 

Narrazione dicevamo.

Non siamo eroi, tantopiù che aneliamo ad una vita fuori dal lavoro il più possibile “normale”, secondo i bisogni di un qualunque altro essere umano.

Abbiamo del resto dalla nostra la possibilità di praticare una professione molto gratificante per i suoi contenuti tecnici ed umani.

E’ l’organizzazione che spesso tende a renderla inaccettabile, la cronica carenza di risorse.

 

Informiamo ancora ed ancora, qualora ce ne fosse bisogno, ma non dimentichiamo una narrazione positiva di quanto riceviamo tutti i giorni e certamente diamo ai nostri pazienti ed alla società.

 

Sono convinto che occorra, da parte nostra, una presa di coscienza forte del fatto che, al di là della aspetti comunicativi, sia utile una riflessione importante anche da parte nostra sulla determinante relazione che intercorre appunto tra l’informazione al resto della società, la narrazione circa la nostra attività professionale e la formazione degli specialisti nella disciplina di emergenza urgenza, universitaria (anche su questa ci sarebbe molto da discutere e porterebbe via certamente troppo tempo e spazio) e postuniversitaria.

 

Ora ci conoscono tutti, sanno che siamo sempre più rari e che probabilmente svolgiamo una professione durissima ma è chiaro a tutti quel tantissimo che di buono facciamo?

 

Siamo riusciti a far capire al resto della società che tipo di competenze possediamo, che percorso formativo, anche e soprattutto postuniversitario, seguiamo?

E’ chiaro a tutti che siamo tra coloro che dopo la fine del percorso universitario specialistico seguiamo un ulteriore percorso formativo molto composito e continuamente in evoluzione, sul campo?

Ne siamo consapevoli noi stessi per primi e sappiamo valorizzare la nostra formazione?

 

Tutto ciò proprio mentre ci stiamo estinguendo e nonostante questo.

Perché uno non vale uno, almeno non sempre e di certo non in emergenza urgenza.

 

Non nutro sentimenti polemici né verso le nostre organizzazioni sanitarie né, tantomeno, verso quelle sindacali ma sento la orgogliosa necessità di informarne il resto della società civile e narrarlo ai colleghi che continuano a credere nel sogno MEU.

 

Siamo professionisti di qualità, informiamo e narriamo questa nostra caratteristica irrinunciabile, mentre continuiamo a formarci.

 

Descriviamo minuziosamente tutte le difficoltà che ci impediscono spesso di essere formati come o quanto rapidamente vorremmo ma non accontentiamoci di fare il possibile con gli scarsi mezzi che abbiamo a disposizione. Continuiamo a pretendere il meglio, da noi stessi e dalle organizzazioni sanitarie, per il bene dei pazienti anch’esso non sempre, purtroppo, scontato.

 

Uno non può e non deve valere uno in emergenza urgenza, anche perchè così si finisce inevitabilmente a tendere alla zero, sia quantitativamente che qualitativamente.

 

Mi sento di chiudere con un augurio sincero a tutti noi medici di emergenza urgenza: che il 2023 possa portare a tutti un po’ di sana normalità in modo che possiamo continuare a fare cose straordinarie per il bene dei nostri pazienti.

 

 

PUNTI DI VISTA

lunedì, novembre 28th, 2022

di Paolo Pinna Parpaglia

 

“Ti giuro che ha rifiutato il ricovero! La moglie ed almeno altri 3-4 operatori presenti lo possono testimoniare”. Esordisce così l’incredula invocazione-sfogo del collega dopo che gli viene notificato dal GUP il rinvio a giudizio per omicidio colposo. La motivazione: non avrebbe adeguatamente informato il paziente, poi deceduto, dei gravi rischi cui sarebbe potuto andare incontro rifiutando, appunto, il ricovero.

 

Il nostro lavoro ci presenta quotidianamente occasioni nelle quali ci troviamo a dover persuadere, o quantomeno incoraggiare, i pazienti ad accettare le cure che noi stessi proponiamo; forse, però, non sempre lo facciamo nei modi corretti. E poi, siamo veramente sicuri che la nostra proposta sia anche la scelta migliore per quel paziente, dal suo punto di vista?

Ecco, probabilmente siamo lacunosi proprio nel dare il giusto valore al “punto di vista” dei nostri pazienti!

 

La legge 219 del 2017 (GU n.12 del 16-1-2018) ha stabilito in maniera chiara che è il paziente a decidere sulle cure a cui sottoporsi, mentre il medico (e l’operatore sanitario in generale, con livelli di responsabilità differenti) deve stabilire una “relazione di cura” con il paziente e metterlo nelle condizioni di operare una scelta consapevole.

 

Va da sé che il medico possa e debba mettere in campo tutta la competenza e l’autorevolezza di cui dispone, per ricercare il giusto equilibrio fra l’evidenza scientifica e la valorizzazione dell’autonomia decisionale del paziente; ma nulla di più!

>>> Per i dettagli in tema di consenso informato in emergenza-urgenza, si rimanda al documento di consenso intersocietario (SIMEU, SIMLA, GIBCE), pubblicato sul sito SIMEU (www.simeu.it) alla pagina del centro studi.

Non essendo un esperto di bioetica clinica né tantomeno di giurisprudenza sanitaria, mi guardo bene dall’approfondire la questione sotto questi profili, ma da medico urgentista mi limito ad alcune considerazioni di ordinaria quotidianità.

 

Sappiamo, da un’indagine condotta da SIMEU nel 2019, che l’89% dei medici d’urgenza Italiani (in maggioranza di PS) è convinto che la volontà del paziente debba essere valorizzata; dato sicuramente pregevole, se non fosse che quasi la metà di essi la colloca comunque in secondo piano rispetto all’obiettivo terapeutico stabilito dal medico stesso.

 

Vittime di un retaggio culturale duro a morire, noi medici siamo tendenzialmente inclini verso un atteggiamento paternalistico e fortemente asimmetrico nei confronti dei pazienti, spesso, va detto, sollecitato dal paziente stesso, che in talune circostanze – quantunque rare – rischia di degenerare in vera e propria “arroganza epistemica”, in virtù della quale pretendiamo di conoscere con assoluta certezza cosa è meglio per il paziente.

 

Quando poi il tempo da dedicare al paziente – quindi anche il tempo per riflettere – viene pericolosamente compresso dalle circostanze, da un legittimo rifiuto della scelta (unilaterale) che dovesse stuzzicare la personalità narcisistica del medico (quale medico non lo è almeno un po’?), potrebbe scaturire la preclusione per eventuali ipotesi alternative di cura.

In contesti operativi in affanno, qual è il PS, come è possibile riuscire a conciliare il pieno diritto all’autodeterminazione del paziente (da valorizzare, a rigore, per ogni singolo esame o trattamento) con la vitale necessità di semplificare e velocizzare i percorsi clinici?

 

Tralasciando le situazioni di reale emergenza per le quali può essere invocato lo stato di necessità (art. 54 CP ed art. 35 codice deontologia medica) e le situazioni in cui il paziente non può per varie ragioni esprimere un consenso, ovvero esista una disposizione anticipata di trattamento (a proposito, siamo sicuri di considerare sempre questa eventualità?) su ogni singolo paziente siamo chiamati ad effettuare due prestazioni combinate e distinte: garantire il diritto alla salute e garantire il diritto all’autodeterminazione.

 

Su questo aspetto il punto di vista del giudice è piuttosto chiaro, l’omissione informativa si deve considerare come “astratta capacità plurioffensiva” (Corte di Cassazione, sezione III civile. N. 28985/2019), laddove da una non corretta informazione (lesione del diritto di autodeterminazione) ne derivasse anche un danno alla salute (lesione del diritto alla salute).

 

Se dunque il consenso ad una proposta di cure presuppone un’informazione puntuale ed esaustiva su vantaggi e rischi potenziali, il suo rifiuto, data la più alta probabilità di un conseguente danno alla salute (d’altronde, se il medico l’ha proposta …) richiede ancora maggiore chiarezza ed impegno, in altri termini: più tempo da dedicarvi.

 

Tanto ciò è vero che il legislatore ha previsto che la comunicazione fra medico e paziente sia da considerarsi tempo di cura a tutti gli effetti e non fa niente se, dal nostro punto di vista, il tempo per le cure oramai manca proprio … trovarlo sarà, come sempre, un nostro problema.

 

Lo sconforto della Medicina d’Urgenza

mercoledì, agosto 10th, 2022

di Federico Marini

 

Caro Sistema Sanitario Nazionale,

 

mi presento:  mi chiamo “Medicina d’Urgenza”.

 

Non mi sto presentando per caso, lo sto facendo ora perché, nonostante siano passati oltre 13 anni dalla mia prima apparizione, non abbiamo ancora avuto modo di conoscerci veramente. Quantomeno sembra che la mia presenza sia ancora in penombra rispetto alla restante parte delle colleghe “Medicine” a tuo carico e sento il bisogno di chiarire alcune questioni che, ad oggi, non sono state ben definite.

 

Il mio ruolo è quello di gestire le condizioni acute, riuscire a stabilizzare il paziente riconoscendo la causa che lo ha portato alla mia attenzione ed affidarlo alla collega che ha più esperienza nella gestione terapeutica della malattia. In poche parole gestisco l’emergenza o l’urgenza clinica.

 

Prima di essere “d’Urgenza” però, io sono “Medicina” e come tale mi occupo della persona che ho davanti. Se mi si chiede un bicchiere d’acqua per la sete, offro l’acqua. Se mi si chiede un lenzuolo lo porgo. Se il paziente deve essere spostato in un’altra zona dell’ospedale per ricevere altro tipo di assistenza lo sposto. Nonostante non sia strettamente pertinente alla mia specializzazione, lo è sicuramente per la mia scelta di vita.

 

Ognuna di noi prima di specializzarsi ha scelto di essere “Medicina”, ognuna di noi in un momento della vita ha avuto quell’idea di poter far del bene, perché è da questa idea che nasciamo; dal tentativo di evitare la sofferenza altrui, che è probabilmente il desiderio più puro dell’essere umano.

Anche io come le altre nasco così, pura e sognatrice, combattente ma caritatevole.

 

Probabilmente essendo giovane ricordo ancora molto bene il giuramento di Ippocrate o forse l’appellativo “d’Urgenza” mi porta a correre in aiuto anche quando non sarebbe proprio di mia competenza, fatto sta che l’emergenza pandemica l’ho praticamente gestita tutta io, con l’aiuto di alcune colleghe che, attraverso i media, davano le loro indicazioni…a distanza.

 

Lo so che noi giovani dobbiamo fare la gavetta e che se c’è un problema rognoso, scomodo o semplicemente pesante è l’ultimo arrivato che deve farsene carico; il perché non mi è stato mai completamente chiaro ma “si è sempre fatto così” e lo accetto.

 

Ciò che però digerisco con fatica è la totale assenza di aiuto da parte di chi, come me, ha scelto di aiutare il prossimo, di essere dalla parte del bisognoso, dalla parte dell’essere umano.

 

Le condizioni morbose che portano il malato da noi non sono mai sempre le stesse, lo sappiamo; la collega Igea si occupa proprio della variabilità epidemiologica delle malattie, studiando come l’interazione genotipo-ambiente condizioni quello che poi io ritrovo al triage.

 

Quindi io mi organizzo e segnalo, con il ruolo secondario di sentinella, la variabilità e l’eventuale cambio di incidenza delle malattie di fronte la mia porta.

 

Chi mi conosce sa che sono molto umile, vedo la morte ogni giorno, non riuscirei mai a vantarmi di aver salvato qualcuno quando accanto ne ho persi altri cinque, al tempo stesso riconosco però la mia capacità di adattamento alle condizioni di emergenza, credo di essere nata proprio per questo!

 

Ad oggi però sembra che questa situazione io la stia gestendo completamente da sola. Nella mia unità ho pazienti della collega “Cardiologia” in attesa di coronarografia, instabili, a rischio di vita, buttati in una barella. Ho pazienti della collega “Neurologia” con meningiti batteriche accanto a pazienti immunodepressi. Gestisco pazienti della collega “Ematologia” destinati ad isolamento nel percorso dedicato alle malattie infettive. Osservo occlusioni intestinali che durano settimane senza indicazione da parte della collega “Chirurgia” né ad intervento né ad andare a casa. Curo polmoniti della collega “Pneumologia” mandandoli a casa prima del ricovero. Così come i pazienti con sincope, quelli con scompenso cardiaco con indicazione ad “ottimizzazione terapeutica prima del ricovero”, come se la specialista fossi io. Senza parlare delle polmoniti Covid della collega “Infettivologia”, ma lei lo sappiamo, questo periodo è stata impegnata in diverse trasmissioni televisive, forse sarebbe meglio lasciarla riposare; e così li ricovero da me, con tutte le indicazioni stringenti e soffocanti per evitare la diffusione del virus…che valgono solo in Ospedale.

 

Tutto questo mentre una paziente viene ricoverata in stanza singola, privata per rifarsi il seno.

 

Ciò significa che io, oltre a gestire la fase acuta, sto prendendo il ruolo delle mie colleghe, pur non avendone competenza. Nonostante la megalomania che contraddistingue chi decide di seguirmi, l’assenza di un percorso dedicato e di una valutazione da parte delle colleghe più esperte, non fa altro che danneggiare il paziente, il malato che si presenta in pronto soccorso, ovvero, potenzialmente, ognuno di noi.

 

Il tutto viene gestito mentre sento il terreno tremare sotto le gambe, perché non ho più le forze: chi mi ha scelto è stanco e molte persone mi hanno abbandonato, con le poche unità rimaste faccio fatica persino ad essere “Medicina” … e me ne vergogno.

 

Caro SSN, potrei non riuscire più a gestire tutto questo, se da parte delle “colleghe” e da parte tua non ci sarà una decisa presa in carico delle condizioni a loro destinate.

 

Chiedo una responsabilizzazione da parte di tutta la politica, perché ad oggi, la mia sensazione è che sto gestendo da sola la mutevolezza patologica alle nostre porte.

 





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