IL BLOG DI SIMEU

 

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Federico, infermiere MEU di radicata passione

martedì, maggio 24th, 2022

Ciao a tutti,

sono Federico, ho 33 anni e da quasi 11 anni lavoro come infermiere. Ho scelto questa professione per passione.

Fin da piccolo sono stato sempre affascinato dal mondo ospedaliero e chiedevo a mia madre, anche lei infermiera, di portarmi a vedere il pronto soccorso e le ambulanze. Ancora non esisteva il 118 nella nostra regione, mamma mi portava in croce rossa insieme a lei per farmi vedere le ambulanze. Quando sentivo una sirena ero sempre curioso di sapere cosa fosse accaduto e curiosare su cosa stessero facendo.

Sin dalle elementari alla domanda cosa vuoi fare da grande, la mia risposta era l’infermiere.

Poi sono cresciuto e per avvicinarmi a questo mondo a soli 14 anni mi iscrissi al corso da Pioniere in Croce Rossa Italiana, passavo interi pomeriggi in sede a sistemare le ambulanze ed a fare attività di centralino visto che essendo minorenne non potevo salire in ambulanza… Poi finalmente arrivarono i 18 anni e dopo alcuni mesi in cui facevo i trasporti secondari, riusci’ ad effettuare i turni nell’ambulanza del 118 della Croce Rossa.

Da questo momento capisco ancora di più che non potevo scegliere un altro lavoro, appena finito il liceo mi iscrissi al test di ammissione per infermieristica ed al primo tentativo riuscii ad entrare. Ho passato 3 anni universitari stupendi, quando facevo l’università il tirocinio era a scelta e dopo i reparti di medicina e le varie specialistiche di chirurgia arrivai al terzo anno. Da qui nessuno poteva togliermi dal fantastico mondo dell’emergenza, feci il tirocinio in rianimazione, in terapia intensiva post operatoria ed in pronto soccorso.  Ovviamente scelsi la tesi con infermieristica di area critica su un tema che nella mia regione ancora non era in uso e non era nemmeno presente in ospedale, mi misi in contatto con colleghi di altre realtà e con dei paramedici del 911 di New York per avere informazioni sull’accesso intraosseo è così scrissi questa tesi.

Il giorno della discussione fu’ una novità per i docenti ascoltare un tema che non conoscevano.

Appena laureato riesco subito ad entrare a lavorare in una cooperativa convenzionata come infermiere di 118. Iniziai a frequentare corsi riguardanti l’ambito dell’emergenza-urgenza. Poi partecipai ad un avviso pubblico ed a Dicembre 2013 fortunatamente mi chiamarono in ospedale e mi assegnarono al reparto di terapia intensiva post operatoria cardiochirurgica. Preso dall’entusiasmo iniziai a studiare i libri che trattavano questo argomento ed in particolare la gestione dei pazienti in ecmo, la posizione organizzativa del dipartimento di emergenza-urgenza sapendo che mi piaceva tanto lavorare in questo ambito spesso mi mandava a coprire dei turni in rianimazione.

Ma non riuscivo ad abbandonare il mio pensiero costante di lavorare in pronto soccorso, però, pensavo anche che l’esperienza che stavo facendo era davvero stimolante e professionalmente valida. Dopo 2 anni feci di tutto per essere spostato in pronto soccorso e da lì fu’ solo un divenire continuo. Iniziai ad imparare tante cose e di nuovo mi ritrovavo a voler conoscere e formarmi su cose che fisicamente già facevo in terapia intensiva ma che non avevo mai approfondito. Con questa esperienza arrivò la SIMEU, già ero iscritto ad ANIARTI ma lavorando in pronto soccorso iniziai a seguire la SIMEU che mi permise di fare dei bellissimi corsi e l’esperienza più bella fu’ la Summer School nel 2019.

Nel 2021 sono diventato coordinatore regionale dell’Umbria e ci fu’ un altro importante passo dal pronto soccorso sono finito a lavorare nel 118. Fino ad arrivare ad oggi, nel 2022, lavoro ancora in 118.

 

Se qualcuno mi chiedesse se sono felice del mio lavoro la mia risposta è un super Siiiii.

Lavorare in emergenza è la cosa più bella che ci possa essere, ci sono tante soddisfazioni, tante arrabbiature, si fanno tante “risate” ma anche tanti pianti, bisogna dare anima e corpo per affrontare situazioni difficili, rassicurare i pazienti ma soprattutto sostenere i famigliari, avere conoscenze teoriche e pratiche e non avere paura nell’affrontare i soccorsi. Per non avere paura bisogna formarsi continuamente ed avere il coraggio di provare a fare cosa nuove per cercare di risolvere le emergenze.

 

Ogni soccorso è diverso. Spesso mi sono trovato davanti alla morte di persone giovane ed aime’ anche di bambini, questi eventi ci segnano la vita e ci aiutano a crescere ma resteranno sempre impresse nella nostra mente. Comunque l’episodio più emozionante di cui sono stato partecipe in prima persona fu’ effettuare un RCP mentre mi trovavo all’interno di un bar insieme a mio nipote di 2 anni.

 

Questa è la storia che più mi ha fatto piangere per l’emozione. 

Stavamo facendo merenda con il mio nipotino quando un signore inizio’ a chiedere se ci fosse un medico, prontamente lascio le cose sul bancone e mi paleso come infermiere del pronto soccorso, questo uomo mi dice “allora venga! abbiamo bisogno di lei”, esco dal bar e c’era una persona a terra incosciente, subito chiamai la centrale del 118 e comunicai che mi trovavo io sul posto e che c’era un uomo incosciente. Poi mi avvicinai ed iniziai la rianimazione affidando mio nipote ad un poliziotto che si trovava lì. Dopo poco passo’ un mio amico, anche lui con sua figlia – poco più grande di mio nipote – lui e’ un soccorritore di un’associazione di volontariato. A questo punto iniziammo la RCP alternandoci fino all’arrivo dell’ambulanza infermieristica, la collega giunta sul posto mi chiese di continuare ad aiutarli.

Mio nipote piangeva disperato perchè lo avevo lasciato con uno “sconosciuto” ma non potevo fare diversamente. Appena applicammo il defibrillatore questo ci permise di scaricarlo. Nel frattempo arrivo’ il medico, iniziammo la terapia farmacologica e poi nuovamente ritmo defibrillabile … Dopo circa 25 minuti dal mio inizio della RCP il paziente riprese il respiro spontaneo e i colleghi del 118 lo caricarono e trasportarono in ospedale.

Quella volta è stata una delle poche in cui non riuscivo a smettere di piangere dalla felicità e della tensione.

Finalmente ripresi il mio nipotino. Mi informai di tutto il decorso e dopo una settimana il paziente era già a reparto e non aveva riportato nessun danno neurologico.

 

Questa storia la porterò sempre nel mio cuore insieme a tante altre che mi hanno lasciato un segno. Spero di continuare sempre a formarmi, a crescere e di non perdere mai l’entusiasmo nel lavorare in emergenza.

 

C’è un tempo per ogni cosa.

giovedì, maggio 5th, 2022

di Stefano Paglia

 


Lo sappiamo da sempre.

 

C’è stato un tempo in cui credere e scommettere che questo lavoro fosse possibile, perché di questo si tratta, lavoro.

 

C’è stato un tempo in cui fare questo lavoro che in teoria non esisteva e farlo bene, strappando letteralmente a morsi margini di autonomia crescente e credibilità nonostante il medico di Pronto Soccorso fosse, a tutti gli effetti, qualcosa di poco definibile e la medicina d’emergenza urgenza una utopia in cui molti si rifiutavano di credere.

 

C’è stato un tempo in cui supportare in tutti i modi le nascenti specialità e mettere a disposizione dei nuovi Direttori, troppo spesso al loro primo contatto con il PS, tutto quello che sapevamo speravamo e credevamo dovesse essere fatto in e per il PS e per la nostra nuova disciplina.

 

C’è stato un tempo in cui gioire per i primi frutti di tanto impegno e per la consapevolezza che le giovani generazioni c’erano ed erano preparate, spesso più di noi, motivate e pronte.

 

C’è stato un tempo per sperare in un futuro migliore e per l’ottimismo.

Poi c’è stato il tempo del dolore della sofferenza e della morte e, ammettiamolo, della paura.

 

E dopo tutto questo, quando se esistesse giustizia al mondo o anche solo il tanto invocato karma, ci sarebbe stato il tempo di raccogliere i frutti della nostra resilienza e godere finalmente di un momento di serenità.

E invece…

 

Sono ancora tempi cupi, tempi difficili e grigi in cui tutto sembra volgere al peggio e in questo desolante panorama generale non fa nemmeno più notizia la lenta agonia a cui la nostra professione sembra essere condannata.

Quindi che fare?

 

Rassegnarsi e prendere atto del fatto che la precarizzazione dei PS, l’esternalizzazione dei nostri reparti  come per le lavanderie, le mense e i servizi di molti dei nostri ospedali è un fatto storico e inesorabile? Accettare l’idea che non è colpa di nessuno, che è un problema strutturale, che è colpa dei governi precedenti, delle università, dei sindacati, della magistratura, delle cavallette?

E diciamolo una volta per tutte non è forse ora di ammettere che è anche un po’ colpa nostra?

 

Colpa nostra perché se oggi come nelle vecchie barzellette prendessimo 10 medici d’urgenza, di PS e di 118 vecchi e giovani e li chiudessimo in una stanza in conclave senza cibo o acqua dicendogli di uscire solo con un progetto condiviso per rendere credibile il nostro futuro forse non uscirebbero proprio.

 

Perché ammettiamolo, come si fa a credere in una professione quando noi per primi ancora oggi dopo più di 10 anni dalla nascita della nostra specialità facciamo ancora fatica a avere una visione comune sul nostro ruolo e sul nostro futuro. Il presente è complesso ed è impossibile pensare di uniformarlo in tempi brevi ma come potremo renderci credibili se non siamo tutti concordi sul futuro. Su cosa dobbiamo ambire ad essere?

 

Siamo divisi ammettiamolo, medici di PS, medici d’urgenza, medici delle Medicine d’Urgenza, medici del territorio, del 112, del 118,  medici delle subintensive, medici precari, medici strutturati, medici di cooperativa, medici privati e medici del servizio pubblico e poi gli infermieri e il loro ancor più variegato modo.

 

Ognuno con i suoi problemi, le sue priorità le sue visioni e i suoi progetti. Nulla di sbagliato in tutto questo ma non possiamo non ammettere che forse anche questo è un problema.

Se non riusciremo a convergere su una progettualità unitaria non avremo la forza di fare richieste unitarie

Se non sappiamo cosa chiedere come possiamo pretendere di essere ascoltati?

Da queste riflessioni nasce una domanda, che tempo è questo?

Che dobbiamo fare?

 

Io credo serva una costituente dell’emergenza urgenza in Italia qualcosa che si muova in linea con quanto avvenuto a Riva del Garda e con quello che sta avvenendo in parlamento con la proposta di legge Mugnai attualmente in discussione. Serve aver e un progetto che renda il nostro lavoro finalmente fattibile fino alla pensione senza doverci smenare la salute fisica o mentale, avviene già in buona parte del resto del mondo, non raccontiamoci che non è possibile.

 

Serve anche però alzare la testa e pretendere subito, oggi non domani, il mantenimento di promesse fatte, basta parlare di riconoscimenti economici, basta parlare di riduzione dell’orario di lavoro e di lavoro usurante, basta parlare di depenalizzazione della colpa medica. Ora dobbiamo OTTENERE riconoscimenti economici, riconoscimento del lavoro usurante e depenalizzazione della colpa medica.

 

Qualcuno potrebbe obiettare che queste sono tematiche sindacali e noi non siamo e non abbiamo un sindacato unico che ci rappresenti (altro grave errore).

E’vero non siamo un sindacato ma siamo tanti, siamo stanchi e soprattutto abbiamo ragione. Lo sappiamo noi, lo sanno i cittadini, lo sanno i sindacati e i politici di tutti i livelli dai Comuni alle Regioni e anche al Governo.

 

Allora a sei mesi da quel 17 novembre, dopo fiumi di parole e ben pochi fatti concreti tiriamo su la testa perché nessuno di noi vuole portare l’onta di aver assistito inerme allo scempio del sistema d’emergenza urgenza senza fare nulla.

 

Sapete che tempo penso sia questo?

Penso sia il tempo di continuare a lottare per rivendicare ciò che è giusto e ciò che ci spetta perché noi non difendiamo solo i nostri diritti ma anche i diritti di tutti coloro che senza di noi di diritti sanitari non ne hanno.

 





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