IL BLOG DI SIMEU

 

Archive for aprile, 2023

“L’UNICO MODO PER FARE UN OTTIMO LAVORO È AMARE QUELLO CHE FAI” – Steve Jobs

venerdì, aprile 28th, 2023

di Jessica Giancristofaro

 

Ho trentadue anni, lavoro in Emergenza – Urgenza da cinque anni e posso sicuramente dire di amare il mio lavoro.

Essere infermiera di Pronto Soccorso e 118 significa tenere sempre attive una serie di skills specifiche che ci permettono di trattare il paziente critico, ripristinare le funzioni vitali oppure supportarle quando necessario.

È un lavoro che amo, ma che richiede un impegno costante e una crescita continua.

La componente tecnica dell’assistenza infermieristica è molto forte in Area Critica, ma quello che rende affascinante questo mondo è senz’altro l’emozione che si prova quando riusciamo a salvare una vita.

La corsa contro il tempo che, come sappiamo è “muscolo”, ci spinge a fare del nostro meglio in ogni situazione.

Stare su un mezzo di soccorso del territorio, lavorando in collaborazione con i colleghi della Centrale Operativa che sono i primi a ricevere la richiesta di aiuto da parte dell’utenza, significa arrivare per primi su una scena che coinvolge una o più persone con stato di salute compromesso.

Possiamo trovarci davanti a un paziente traumatizzato in strada, a una persona con infarto del miocardio oppure a una persona con ictus in atto e spesso davanti abbiamo anche i familiari o altre persone che richiedono la nostra attenzione e che rendono ancora più complesso il nostro lavoro.

L’autocontrollo, il sangue freddo, l’intesa tra i componenti del team, sono fondamentali per svolgere un soccorso ottimale che mira a minimizzare il danno subito dalla persona.

 

Le competenze acquisite durante il percorso formativo che ogni infermiere svolge durante i primi mesi di lavoro ci permettono di affrontare qualsiasi situazione con attenzione e professionalità.

 

Inoltre, l’adesione a protocolli e algoritmi predefiniti e standardizzati permette di ridurre al minimo la percentuale di errore, che in emergenza è sempre dietro l’angolo, vista la rapidità e la tempestività con cui bisogna agire.

Rimanere sempre aggiornati sulle modifiche apportate grazie alle nuove evidenze scientifiche significa tenere sempre viva la voglia di migliorarsi, di crescere e di diventare professionisti esperti di una disciplina nobile che ci coinvolge a pieno e che allo stesso tempo ci dà la possibilità di incrociare la nostra strada con quella delle persone che incontriamo.

Inevitabilmente, inconsciamente, ogni paziente entrerà a far parte di noi e chissà se anche i nostri occhi, incorniciati dalla mascherina – che fa parte del nostro viso ormai da tempo – e il giallo fosforescente della nostra divisa, entreranno nei loro ricordi, di coloro che abbiamo toccato, soccorso e consolato durante gli interventi che ci hanno coinvolto … chissà?!?

 

dall’ Ospedale di Bazzano – AUSL Bologna

 

di G.C.

Lavoro in emergenza urgenza da circa 15 anni, prima in pronto soccorso e poi negli ultimi 10 anni in emergenza territoriale.

La mia passione è nata ai tempi dell’università e da quel momento ho concentrato tutte le mie energie per raggiungere il mio obiettivo professionale.

 

Intraprenderei di nuovo questo percorso perché nonostante i turni massacranti, i rientri comunicati all’ultimo minuto, i pazienti difficili, l’emergenza urgenza è stata una scelta fatta con dedizione.

 

Sono grato per aver avuto questa possibilità, prima appannaggio di pochi, sin da neolaureato, perché oggi molti colleghi si allontanano da questa realtà a causa delle difficoltà che il sistema sta riscontrando.

In questi anni ho avuto la possibilità e la volontà di crescere professionalmente e personalmente grazie al costante impegno e al quotidiano confronto con le diverse figure professionali che gravitano attorno al nostro strano, ma fantastico mondo. Guardando al passato non cambierei nulla del mio percorso, mentre guardando al futuro mi pongo un obiettivo di crescita costante personale e della professione.

 

dall’ Emergenza Territoriale Toscana Centro

ERAVAMO 4 AMICI

venerdì, aprile 14th, 2023

di Francesco Rocco Pugliese

 

Italia, anni Ottanta.

 

Alla fine del percorso di studi universitari il grande dilemma attanagliava tutti: università o ospedale?

 

L’Università seguiva il criterio meritocratico scandito dal metronomo dei baroni, l’ospedale era una realtà organizzativa in costruzione.

 

Nel mezzo un mare magnum di guardie in clinica, sostituzioni di colleghi, visite fiscali, tentativi di attività privata e quant’altro nell’attesa di decidere o subire la decisione.

 

Per tutti comunque la possibilità di un “corridoio umanitario”: il pronto soccorso, un non luogo in cui storicamente sostavano i medici di qualsiasi specialità in attesa della strutturazione nel reparto specialistico ambito oppure con percorso inverso i medici reietti dell’ospedale.

 

Questa varietà di intenti e di aspettative rendeva il dialogo eterogeneo, senza obiettivi condivisi, basato prevalentemente sulle criticità quotidiane vissute e senza una vision (termine programmatico allora ben al di là dell’essere non sono utilizzato, ma anche solo pensato).

 

Qualsiasi specialità poteva trovare lavoro in pronto soccorso (medicina interna, chirurgia generale, medicina di laboratorio, dermatologia, ematologia, ….), qualsiasi linguaggio poteva essere utilizzato, qualsiasi escatomage poteva essere ideato per collocare il proprio paziente.

 

Le apparecchiature elettromedicali erano praticamente assenti; gli spazi generalmente ridotti, scelti fra quelli meno ambiti della struttura senza alcun razionale di collegamento con i servizi essenziali; la funzione di triage svolta di fatto dall’ausiliario che aiutava i pazienti ad entrare.

 

Negli anni Novanta gli accessi al pronto soccorso divennero sempre più numerosi, l’influenza della comunità scientifica internazionale sempre maggiore con la comparsa di percorsi e protocolli da seguire e di conseguenza le risorse divennero progressivamente più carenti.

 

Quattro amici decisero che volevano cambiare il mondo e si sedettero per rendere possibile un reale confronto fra tutti gli operatori di pronto soccorso e cercare di adeguare quest’ultimo allo sviluppo della medicina e della società.

 

Colloqui vasti, ripetuti, in più lingue professionali, a volte infruttuosi a volte faziosi, ma nel complesso di notevole crescita interna e dentro le istituzioni.

Si riuscì a far comprendere la necessità di definire gli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera e di questo ne beneficiò anche il pronto soccorso in termini di un’implementazione di risorse umane e tecnologiche.

 

Negli anni Duemila i quattro amici, che erano riusciti a codificare una lingua comune dell’urgenza e quindi a diffondere il loro messaggio, ormai diventati centinaia, fondarono una casa comune, la Società Italiana di Medicina di Emergenza Urgenza SIMEU.

 

Per poter insegnare e parlare però ufficialmente questa lingua comune, capirono che era necessaria una scuola apposita: tavoli tecnici, colloqui istituzionali, ferme prese di posizione portarono alla istituzione della medicina d’urgenza quale disciplina a sé stante con relativa scuola di specializzazione.

 

Negli ultimi decenni i quattro amici hanno potuto godere del notevole approvvigionamento di attrezzature, ampliamento degli spazi e costruzione di reti scientifiche ed assistenziali, ma hanno potuto constatare anche il progressivo diventare del pronto soccorso una cattedrale nel deserto:

un microcosmo, altamente tecnologico e specializzato, sempre più isolato dal resto dell’ospedale; una riduzione degli accessi assoluti direttamente proporzionale all’aumento del sovraffollamento ed alla riduzione delle risorse umane.

 

I quattro amici sono ancora là, memoria ed anima di questo percorso: è tempo di bilanci.

 

La loro velocità di cambiamento organizzativo ha superato di gran lunga quella del sistema ospedale, fermo da un secolo; eppure la società, le istituzioni, i giovani neolaureati non dialogano con loro.

 

Quale errore è stato commesso?





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