di Paolo Balzaretti, redazione blog Simeu
@P_Balzaretti
Le linee guida rappresentano da sempre una tipologia di lavoro scientifico molto discussa. Tra i limiti che da sempre ne hanno ostacolato la diffusione ci sono le difficoltà di adottare indicazioni diagnostico-terapeutiche create in altri contesti geografici e culturali, l’eccessiva rigidità e complessità di alcuni documenti e i dubbi riguardo all’affidabilità del processo che conduce alla loro pubblicazione.
A proposito di quest’ultimo punto, il dott. Iannone, primario della Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso dell’Ospedale di Chiavari, ha recentemente pubblicato su JAMA Internal Medicine un’interessante analisi del grado di evidenze che sta alla base delle linee guida pubblicate da importanti società scientifiche internazionali. Abbiamo colto l’occasione per intervistarlo e approfondire ulteriormente questi temi.
Dott. Iannone, potrebbe sintetizzarci gli obiettivi e risultati del vostro lavoro?
L’obiettivo principale è stato – attraverso un case study – valutare i limiti degli attuali strumenti e metodi utilizzati per giudicare l’affidabilità delle raccomandazioni presentate dalle linee guida. Finora, l’aderenza a griglie valutative predefinite come l’AGREE e la concordanza delle raccomandazioni fra linee guida sullo stesso argomento emanate da fonti diverse erano ritenute sufficienti per ritenerle credibili. Noi abbiamo dimostrato il contrario, poiché ben tre linee guida nominalmente “evidence based” di rinomate società scientifiche fornivano raccomandazioni erronee sull’uso del dronedarone, se misurate col metro del sistema GRADE, il più sofisticato, rigoroso ed esplicito sistema di produzione di raccomandazioni, messo a punto, tra gli altri, dal mio grande e compianto maestro Alessandro Liberati. Ciò invita i lettori ad una maggiore cautela nell’interpretare le raccomandazioni delle linee guida soprattutto in presenza di conflitto d’interessi dichiarato o sospetto e evidenti difetti metodologici, e stimola le società scientifiche a produrre linee guida di maggiore qualità. Questo non vuol dire che le linee guida, soprattutto quelle prodotte da organismi governativi come NICE, SIGN o l’OMS, in assenza di conflitto d’interessi, con solide basi metodologiche, e con la partecipazione di tutti gli stakeholders – non solo degli specialisti, quindi- non debbano essere prese in seria considerazione. Purtroppo, invece, le linee guida delle società scientifiche erano poco affidabili vent’anni fa e lo rimangono spesso tuttora.
Parte del vostro lavoro di analisi si è concentrato sui potenziali conflitti di interesse degli estensori dei documenti, derivanti dai loro legami con le industrie farmaceutiche. Secondo Lei questi rapporti possono influenzare significativamente il processo di preparazione delle linee guida?
Il conflitto d’interessi non basta dichiararlo: bisogna gestirlo e neutralizzarlo e, come dice Lisa Bero, esiste un limite oltre il quale è inaccettabile.
Un’ampia gamma di evidenze suggerisce che il conflitto d’interessi sia in grado di influenzare significativamente l’affidabilità delle linee guida. Nel case study che abbiamo analizzato, quello del dronedarone, vi era una presenza pervasiva di esperti con forti legami con la casa produttrice del farmaco. Addirittura le Linee Guida europee, le più sbilanciate a favore del dronedarone, avevano nel panel il prinicipal investigator di uno dei maggiori trials – sponsorizzati- su quel farmaco. Si badi bene che il conflitto d’interessi non è solo di natura economica. Può essere anche di natura intellettuale, come nel caso succitato, e del tutto in buona fede. L’importante è riconoscerlo, ammetterlo e controllarlo. C’è anche chi sostiene che le linee guida debbano essere fatte da persone prive del tutto di conflitto d’interessi. Soprattutto se le evidenze sono oggettive, come quelle scaturite dai trials, non c’è alcun bisogno di esperti “conflicted” per decidere se una determinata raccomandazione possa essere sostenuta o no ma buon senso clinico, onestà scientifica e, magari, maggiore attenzione ai genuini interessi dei pazienti e della società nel suo complesso.
C’è una crescente consapevolezza del fatto che in letteratura c’è una maggiore disponibilità di informazioni riguardanti l’efficacia dei nuovi farmaci piuttosto che la loro sicurezza: è d’accordo? Ciò può influire sulle raccomandazioni pubblicate?
Certamente. Si è spesso propensi a dimenticare che i trials possono – se ben condotti – dare informazioni affidabili sulla efficacia dei trattamenti. Gli effetti collaterali, invece, soprattutto se rari e inattesi, sono molto meno rilevabili con questo strumento di indagine, ed è per questo che occorre moltissima cautela prima di raccomandare nuovi trattamenti che magari conferiscono vantaggi clinici marginali – quando ci sono – e poi si scopre che sono dannosi. Le raccomandazioni cliniche dovrebbero incorporare questo principio di cautela, ma spesso non lo fanno.
Quali sono i passi più importanti che possono essere intrapresi per aumentare l’affidabilità delle linee guida?
Innanzitutto, sarebbe bene che le società scientifiche specialistiche che sono le maggiori indiziate di produrre raccomandazioni fallaci si aprissero di più all’apporto di metodologi privi di conflitti di interesse, richiedendo il supporto e il know – how di organizzazioni governative (NICE, OMS, SIGN) con esperienze solide in questo ambito, per convertirsi a un maggiore rigore. Di fatto ancora oggi molte Linee Guida che si dichiarano evidence based in realtà sono basate sul consenso di esperti (spesso in conflitto d’interessi). Il metodo GRADE è lo strumento più idoneo per produrre raccomandazioni evidence based, ma anche qui non basta dichiararlo nei metodi della linea guida (come nel nostro case study hanno fatto i canadesi): bisogna dimostrare di aver seguito passo passo gli step previsti dal GRADE. Attenzione: il GRADE non elimina la soggettività insita in qualunque raccomandazione clinica, ma rende esplicite e chiare le dimensioni valutative che inducono il panel a decidere sulla forza (forte o debole) della raccomandazione e sulla sua direzione: rilevanza degli outcomes, precisione delle stime, congruenza dei risultati fra studi diversi, difetti metodologici degli studi primari, bilancio complessivo fra vantaggi e svantaggi, preferenze dei pazienti, costi e risorse. Solo e soltanto le raccomandazioni che tengono conto di tutti questi fattori si possono realmente considerare credibili.
In secondo luogo, non si vede proprio il bisogno che ogni società scientifica produca la sua linea guida su un argomento trito e ritrito. Nel caso della fibrillazione atriale, ne abbiamo analizzate ben tre, tutte rilasciate in un breve lasso di tempo e praticamente sulle stesse evidenze. Erano proprio necessarie o ne bastava una? Una maggiore coordinazione fra le medical specialty societies sarebbe quindi auspicabile.
Del conflitto d’interessi si è già detto, ma certamente le relazioni fra case farmaceutiche e società scientifiche specialistiche vanno riviste, per evitare che le loro linee guida non finiscano per diventare (sempre più) strumento di marketing surrettizio, invece che di orientamento clinico.
Vi è inoltre l’importante aspetto legato alla composizione del panel degli esperti ed estensori delle linee guida: medici generalisti, metodologi, pazienti dovrebbero affiancare in proporzione adeguata gli “esperti” per evitare il cosiddetto “good intention bias”. E’ noto che gli specialisti sovrastimano i benefici e sottostimano i rischi dei trattamenti e forniscono raccomandazioni tendenzialmente sbilanciate, pur se animati dalle migliori buone intenzioni.
Ma soprattutto, tenuto conto che gli strumenti di valutazione formale della qualità delle linee guida (come l’AGREE) non catturano adeguatamente la questione essenziale – cioè se le loro singole raccomandazioni sono affidabili o no e i nuovi criteri IOM sono forse troppo restrittivi per un loro utilizzo routinario, lo spirito critico degli utilizzatori rimane la migliore misura per favorire il miglioramento di questi strumenti decisionali. Un cosiddetto “public marketplace” delle Linee Guida, con “quotazioni” stabilite da un dibattito sul web, moderato, ospitato da una organizzazione autorevole, spassionato e pubblico del loro valore, come è stato suggerito, potrebbe essere un grande strumento a favore dei medici, pazienti e decisori. Oltre che degli estensori delle linee guida stesse, ovviamente.