IL BLOG DI SIMEU

 

SIMEU. E’ UNA SOCIETÀ SCIENTIFICA NON UN SINDACATO!

novembre 12th, 2023 | NO COMMENTS

di Fabio De Iaco

 

Ci è capitato spesso di inviare richiesta di rettifica alle redazioni media e/o ai singoli giornalisti, ma a ben vedere l’occasione, l’ennesima, recentemente capitata su un articolo dell’agenzia ANSA che poi si è diffuso su altre testate, mi permette di puntualizzare un concetto che mi sta molto a cuore.

 

Succede infatti che SIMEU la Società Scientifica che ho l’onore di presiedere venga definita “sindacato”. È un errore, nel quale si incorre, ma è chiaro da sempre che non siamo un sindacato.

 

È evidente sulla base del nostro statuto ma soprattutto della nostra attività storica, a partire dalla creazione stessa di una comunità scientifica che faccia della Medicina d’Emergenza Urgenza il proprio obiettivo, passando per la battaglia per l’istituzione della Scuola di Specializzazione in Medicina d’Emergenza Urgenza, fino alle più recenti attività di questa Società nell’ambito della stesura di linee guida, della formazione dei professionisti, della promozione di eventi culturali e formativi.

 

E tuttavia, nonostante tutto “la SIMEU” spesso viene evocata come “il SIMEU”: un sindacato!

L’equivoco è grave, ma comprensibile nella sua genesi:

negli ultimi anni la SIMEU ha acquisito, spesso suo malgrado, una rilevanza mediatica che ha portato alcuni di noi alla ribalta della comunicazione pubblica.

È ovvio che sia così.

 

Se il Pronto Soccorso è il malato eccellente di questo Servizio Sanitario Nazionale, è del tutto logico che si chiedano chiarimenti e indirizzi a coloro (i professionisti della SIMEU) che ne sono i protagonisti. E inevitabilmente io e i Colleghi esponenti della SIMEU nelle nostre uscite pubbliche affrontiamo, tra gli altri, temi quali il benessere lavorativo, il lavoro usurante, lo stress lavoro-correlato, la valorizzazione delle peculiarità del lavoro in Emergenza Urgenza.

 

È comprensibile che queste nostre affermazioni vengano interpretate come sindacali, proprio perché trattano temi che sono usualmente materia di rivendicazioni sindacali.

Il fatto è che molti degli argomenti che siamo costretti a toccare hanno una base che è per prima cosa di buon senso, in secondo luogo assolutamente scientifica (anche sulla base dello studio della situazione internazionale dell’Emergenza Urgenza) e solo in terza battuta anche rivendicativa e dunque sindacale.

 

È una constatazione pesante, perché significa che la situazione del sistema nazionale dell’Emergenza Urgenza è così oggettivamente seria da diventare argomento di riflessione e confronto scientifico prima ancora che sindacale.

E poi, nella tradizione delle grandi Società Scientifiche, per dirla in inglese anche noi rivendichiamo orgogliosamente la funzione di “patient advocacy”, che significa – ma in italiano sembra meno nobile – “difesa del paziente”: come potremmo assolvere il compito se non toccassimo temi relativi all’organizzazione e ai provvedimenti necessari per la sopravvivenza del sistema?

 

Di contratto e stipendio non ci sentirete parlare; ci penseranno i sindacati, quel che NON siamo.

Ma di tutela del malato, valorizzazione delle professionalità, difesa del benessere degli operatori continueremo a occuparci.

 

Solo, per favore, non chiamateci sindacato.

 

La perdita della misura

ottobre 24th, 2023 | NO COMMENTS

di Biagio Epifani

 

L’episodio che ha interessato il collega Vito Procacci, Direttore del Pronto Soccorso di Bari, in realtà ha colpito, in via emblematica, anche tutti gli operatori sanitari che, durante la pandemia Covid, hanno reso onore alla loro professione, rispondendo a quel richiamo, mai imposto, di essere presenti e operativi per l’aiuto a chi è in pericolo o in difficoltà.

 

Accade sempre, tutte le volte, per un terremoto, un’inondazione, un evento naturale. Una guerra.

È la risposta ad un ethos che non si negozia, che non chiede contropartita, che esce dalla logica del redde rationem, cara ai portaborse in grisaglia, sempre pronti a misurare dopo aver perso, loro, la misura.

È quello che si chiama spirito di un popolo.

 

Per noi che lavoriamo in emergenza sanitaria è il demone che ci agita, la nostra aretè, da anni ormai compressa nella palude tecnocratica, ostacolata da un apparato ragionieristico incapace di leggere la fenomenologia dell’accadere, illuso del controllo totale.

Non c’è un tutto da controllare e non è possibile tutto.

 

Possibile che un’Istituzione, l’Ispettorato del Lavoro, non abbia avuto occasione e tempo di riflettere su una richiesta, motivata da dovere d’ufficio, ma indirizzata a quella parte istituzionale che ha determinato la svolta ed il successo del controllo della pandemia?

Possibile che nessuna voce abbia interrotto quella decisione così s-misurata per la sua stessa natura e motivazione?

Possibile che non si verifica mai una ufficiale espressione di scuse, di errore, di dichiarata accettazione del proprio scacco?

 

Il padre è perduto.

Estinto negli algoritmi che ci vorrebbero tutti funzionari diligenti, scolaretti alla ‘The Wall’, pronti a sopportare le oscenità (qui è fuori dalla scena del reale) dell’assenza di una guida.

Dov’è la basiliké téchne platonica, la politica che guida, indirizza, sceglie?

 

Mentre eravamo dentro la bufera, la strada da prendere è stata chiara per tutti, facilmente riconoscibile negli sguardi dei pazienti.

 

Oggi brucia questa offesa, sa di beffa proprio quando il prezzo pagato per quell’impegno straordinario è stato la fuoriuscita di tanti colleghi, forse delusi per la gratitudine neanche sussurrata, per l’assenza di risposte alle nostre perseveranti richieste di cambiamento, di svolta a difesa della sanità nel segno costituzionale.

 

Ancora di più brucia per aver richiesto l’intervento del Presidente Mattarella e per chi è rimasto come testimone di quella sanità, sarebbe davvero troppo rimanere in silenzio.

 

Allora siamo e saremo sempre al fianco di Vito Procacci, dei suoi infermieri e dei suoi medici perché oggi, loro, sono tutti noi.

 

 

 

NUOTARE CONTROCORRENTE

ottobre 14th, 2023 | NO COMMENTS

Sul recupero dell’esperienza ed il riconoscimento del lavoro.

Cosa succede in Friuli Venezia Giulia?

di Lorenzo Iogna Prat

 

Braccia e gambe si muovono ritmicamente, il respiro si sincronizza con la rotazione della testa. Uno sforzo non indifferente. Per rimanere fermi, lì dove ci si trova. Non un metro in avanti. Fermi. Si potrebbe dire lo stesso di chi pedala su una cyclette, corre su un tapis roulant o lavora in un pronto soccorso/medicina d’urgenza di un sistema fino a pochissimi anni fa eccellente, attrattivo e punto di riferimento per molte altre realtà italiane.

 

Un impegno che mette in crisi anche il più solido e motivato degli infermieri e dei medici. È umano. Tutti vorremmo che i nostri sforzi si traducessero in un miglioramento tangibile, in una qualche forma di riconoscimento. E invece dobbiamo accontentarci di non retrocedere. Ma non retrocedere – oggi – è il vero successo e il valore aggiunto sul mercato. Perché il continuo affaccendarsi nella ricerca di soluzioni innovative alla crisi dei sistemi di emergenza sarebbe molto meno gravoso se sapessimo su quale tesoro siamo seduti, su quale capitale culturale possiamo (potevamo?) contare per gli investimenti futuri.

 

Ho avuto la fortuna di crescere e formarmi come medico d’emergenza-urgenza in un contesto d’ avanguardia che dalla fine degli anni ’90 fino a poco prima della pandemia ha saputo creare e promuovere innovazioni assistenziali come le Aree di Emergenza – reparti intensivi e semintensivi a vera gestione multidisciplinare con la regia del medico d’emergenza distribuiti negli ospedali di rete e connesse all’Hub da percorsi ben definiti – accanto a professionisti che hanno acquisito e tramandato conoscenze e competenze tali da essere autonomi in un ampio spettro di scenari clinici propri dell’emergenza-urgenza, hanno avuto una propensione straordinaria al pensiero critico, all’aggiornamento e con un’etica del lavoro invidiabile.

 

Qui si lavorava da “Emergency Physicians” quando in molte altre realtà italiane non si sapeva nemmeno che cosa fosse. Quando si scoprì l’osservazione breve intensiva (OBI) qui si erano già stufati di applicarla. Una grossa spinta dal basso per migliorare i percorsi di formazione specialistica della neonata scuola di medicina d’emergenza-urgenza per renderli coerenti con le competenze richieste dalla professione. Era un sistema terribilmente efficiente e si basava su persone intraprendenti e visionarie messe in un contesto favorevole alla sperimentazione.

 

Fateci caso, molti dei grandi eventi (concerti, spettacoli…) hanno la loro prima in Friuli Venezia Giulia, luogo fuori dai canali “main stream” dove sia i successi che i fallimenti ricevono l’assoluzione riservata alla periferia dell’impero.

 

Ammetto che c’è un che di autoreferenziale e un po’ di autocompiacimento in questa narrazione perché il grande errore e il più grande rimpianto è stato di non aver saputo raccogliere e analizzare sistematicamente i dati di attività e promuoverli come la realtà dei fatti avrebbe richiesto. Tant’è.

 

Ho lavorato anche in strutture dove questo percorso culturale non era mai stato fatto e si era rimasti fermi a un buon ventennio addietro. Lì ho sperimentato sulla mia pelle quell’adagio pungente ripetuto dal mio saggio primario e più grande maestro: “se mi guardo sono un cesso, se mi confronto sono un successo”.

E oggi assisto alla resa quasi incondizionata di gran parte degli ospedali della mia regione a soluzioni di compromesso al ribasso (e che ribasso!), dove l’unico criterio rimasto è “basta un nome in una casella” e ci si è arresi alla logica del “non c’è altra scelta”. Ma sarà vero?

 

La storia ed il presente la fanno sempre le persone che in esso operano.

Oggi resiste qui un manipolo di medici e infermieri che continuano a svolgere con dedizione il proprio lavoro, con l’ago della bussola diretto alla qualità delle cure, all’appropriatezza, all’umanità e con l’entusiasmo di chi sa di stare dalla parte giusta.

Chi lo fa per vizio di forma (sei stato formato così, non puoi farci niente), chi per affinità elettiva. Li troviamo sparsi in tutti gli ospedali, cellule di resistenza civile che non si arrendono al degrado e frenano lo scivolamento lungo il piano inclinato dove il sistema sanitario ci ha lasciato.

 

Nell’ospedale in cui lavoro, ogni tanto mi guardo attorno e riconosco nelle persone che lavorano accanto a me i personaggi della saga di Asterix. Avete presente il villaggio gallico che resiste ora e sempre all’invasore romano?

Un manipolo di professionisti di ogni ordine e grado che lavora coordinato per mantenere un “vivaio” di conoscenze e competenze da applicare nell’attività di ogni turno e trasmettere ai giovani colleghi che ardiscono avventurarsi lassù. Con la differenza di non poter disporre di alcuna pozione magica cui attingere nel momento del bisogno.

 

Nessuna sindrome da accerchiamento né vittimismo: solo consapevolezza di ciò che accade nella realtà quotidiana. Confermata da tanti altri esempi di pronto soccorso/medicine d’urgenza nel nostro paese dove la qualità del lavoro, l’attenzione alla formazione e al lavoro in team crea attrazione.

 

Sempre il mio maestro di cui sopra da un po’ di tempo propone un motto tipico della finanza: “buy the dip”, compra quando il titolo è in calo.

Un invito a scegliere il nostro lavoro nel momento in cui il “mercato” non lo sta premiando. Confesso che all’inizio lo trovavo un po’ ingenuo ma masticandolo meglio è forse la chiave per interrompere quel maledetto circolo vizioso che porta la carenza di personale ad essere causa ed effetto della fuga dall’emergenza-urgenza.

 

Il rischio dell’investimento è mitigato dalla consapevolezza che un medico e un infermiere capaci, autonomi e consapevoli della propria insostituibile funzione avranno sempre un posto da protagonisti nella cura delle persone, nel mantenimento di un sistema sanitario che costi poco e renda molto e, in fin dei conti, nella difesa dei principi di democrazia.

 

È fuori dubbio che questo passi per un sostanziale miglioramento delle retribuzioni, commisurato al reale lavoro svolto. Per inciso, riporto qui una riflessione generale non scontata sul rapporto tra utilità sociale dei lavori e rispettiva retribuzione https://neweconomics.org/2009/12/a-bit-rich).

 

Nuotare controcorrente assume anche un altro valore.

Mantiene pronti e allenati i muscoli e la testa, ti ricorda cosa hai fatto per arrivare lì e qual è il tuo obiettivo.

E, perché no, ti permette di sognare l’oro alla prossima olimpiade.

 

firmato da un Medico d’Emergenza-Urgenza

Pronto Soccorso/Area di Emergenza Ospedale “S. Antonio Abate” – Tolmezzo (UD)

 

E’ arrivato il momento di cambiare!

settembre 29th, 2023 | NO COMMENTS

di Stefano Paglia

 

La protesta dei medici specializzandi non è solo giusta e totalmente condividile, è anche “provvidenziale”.

Provvidenziale perché attesta che è indiscutibilmente arrivato il momento di riformare il modo in cui in Italia i medici diventano specialisti, confrontandosi in positivo con quanto, in parallelo, avviene non solo in Europa ma in gran parte del Mondo.

 

Conciliare lavoro e formazione non è impossibile, anzi!

E’ opportuno, è necessario.

 

L’obiettivo condiviso deve essere chiaro: formare giovani professionisti pronti, pienamente operativi autonomi ed esperti al pari dei loro colleghi europei.

Questa è il vero senso della specializzazione!

 

Non dobbiamo puntare a studenti al termine di un percorso didattico ma dobbiamo raggiungere l’obiettivo di avere professionisti esperti al termine di un percorso formativo con autonomia crescente, associata ovviamente a una degna retribuzione e al pieno riconoscimento di ruolo, impegno, capacità e funzione.

 

Il passaggio al lavoro non può che essere progressivo, graduale e deve completarsi proprio nel corso del percorso formativo specialistico.

In questo gli ospedali di formazione non possono che avere ruolo.

 

La protesta degli specializzandi è una grandissima occasione per tutti per riflettere sul cambiamento e voglio credere che anche il mondo dell’Università ne saprà cogliere l’importanza interpretandone la prospettiva divenuta ormai ineludibile e vitale.

 

Poco da aggiungere.

Hanno ragione loro.

È tempo di cambiare.

 

Sasso, carta, forbici.

settembre 15th, 2023 | NO COMMENTS

di Claudia Sara Cimmino

Ricordate il gioco che si faceva da bambini?

Sasso carta forbici.

Chi perde beve!

 

Sasso carta forbici. Sasso.

Luana viene in una notte di aprile del 2021 riferendo di aver avuto un incidente stradale.

Lamenta dolore al rachide cervicale e all’ emicostato di destra. Nulla di rotto e torna a casa con una prognosi di qualche giorno.

 

Torna a distanza di un anno esatto riferendo più o meno la stessa dinamica ma questa volta all’esame obiettivo viene segnalato qualche “livido” in più.

Torna a luglio di quest’anno, sempre di notte e riferisce di essere caduta dalle scale. Ha ecchimosi su entrambe le braccia, un labbro tumefatto e una ferita al sopracciglio destro. “Come sei caduta Luana questa volta?”. Arriva il padre che mi guarda dritto negli occhi e dice in maniera perentoria: “Dottorè è caduta, chella è ‘nu poco distratta”.

 

Lei è ormai ubriaca. “Bevi ancora, hai perso bevi!”

 

Sasso carta forbici. Carta.

Paola arriva in PS riferendo un trauma al polso destro.

Sono le 10:00 del mattino di un sabato di settembre e lei ha una sottoveste e uno stivaletto ghepardato.

“Dottorè sono stata pure in un altro pronto soccorso ma la radiologia non funzionava e mi hanno detto di venire qua!”.

Non c’è solo alcool nei suoi bicchieri.

 

Sasso carta forbici. Forbici

Nadia non ha più un coltello in cucina.

Li ha tolti tutti da quando il marito ha preso l’abitudine di accarezzarla con le lame. Ha dimenticato le forbici però e una mattina arriva da noi a mostrarci le “carezze” ricevute.

 

Sasso carta forbici.

Ora ha perso i sensi, è il momento ideale!

 

Camilla ne vede e ne sente dalla mattina alla sera di tutti i colori.

Non è una sprovveduta. Una sera accetta un invito a cena da un amico conosciuto a lavoro e si ritrova costretta ad “aprire le gambe” con una pistola puntata alla tempia.

 

Basta con sasso carta forbici, cambiamo gioco!

 

Moma viene dall’Africa.

Parla poco ma i suoi occhi parlano per lei.

Trauma cranico. Le sue treccine sono intrise di sangue e ha un occhio gonfio, deformato dalle botte.

Che importa se siamo tanti contro una. È solo una ragazza!

 

Irina ha lasciato il suo Paese.

Viene con la figlia di 16 anni che in un ucraino-napoletano descrive tutta la scena dello “strascino”. Ovvero il compagno della mamma che bussa alla porta e l’afferra per i capelli buttandola giù per le scale del pianerottolo.

Così, quella sera gli andava così.

“Dottora le avevo comprato la friggitrice ad aria per il suo compleanno, ho deciso di dargliela quella sera perché non si può andare a dormire con il cuore triste.”

 

Quello che è successo recentemente a Palermo è solo una delle tante storie dell’orrore espressione di un mondo malato. E allora?

Se ne sentono e se ne vedono tutti i giorni di queste storie diventate ormai una terrificante normalità nella nostra società. È una questione di cultura. È una questione “sociale”.

 

Sasso carta forbici. Non è più un gioco da ragazzi.

Non è un gioco!

 

Luana, Paola, Camilla, Moma e Irina sono molto diverse tra di loro. Vengono da ambienti e culture diverse ma chissà perché hanno una cosa in comune: sono vittime di VIOLENZA.

 

Le donne di cui ho parlato hanno nomi immaginari ma le ho conosciute tutte e le loro storie sono tutte vere. Quello che è accaduto a Palermo mi ha fatto pensare a loro. E mi ha fatto riflettere su quanto sia importante ESSERCI per loro.

 

Anche qui si vede la differenza.

 

I medici e gli infermieri di urgenza sono quelli in grado di riconoscere queste donne anche quando comunicano il loro dolore solo con lo sguardo perché spesso l’orrore vissuto non riesce ad essere spiegato con le parole.

 

L’urgenza sta nel creare il percorso.

L’emergenza nel farle sentire protette.

 

Un’altra donna al triage … sasso carta o forbici?

Il pronto soccorso ed i libri. Leggere crea indipendenza.

agosto 29th, 2023 | NO COMMENTS

di Marina Civita

 

Il pronto soccorso è una fonte incredibile di storie.

Spesso penso che chi lavora nell’ambito della nostra disciplina potrebbe, se tempo avesse, scriverle per narrarle.

 

Le storie che viviamo quotidianamente non vengono lasciate sul posto di lavoro, diventano parte integrante delle nostre giornate, i racconti che portiamo a casa. Noi stessi siamo parte di queste storie e credo, che al di là delle innegabili difficoltà, “siamo le persone che siamo” grazie al nostro lavoro che, ogni giorno, ci insegna quanto queste storie ci possano ricordare quali sono davvero le cose importanti e quanto siamo fortunati rispetto ad altri ad avere l’occasione di ricordarlo.

 

Ci sono molti libri che si possono legare a questi concetti, ma forse uno di quelli principali, che staziona sul mio comodino e mi aiuta nei momenti di sconforto, è quello di Randy Pasch – L’ultima lezione. Me lo ha fatto leggere una persona che è stata per me e per molti di noi una guida professionale fondamentale: Gian Alfonso Cibinel.

 

Sempre sul mio comodino, da anni, non può mancare un libro che molti di noi hanno letto, che rimane in qualche modo il mantra della nostra professione: “mi chiamo Pierluigi Tunesi ma per molti semplicemente il letto 7”, un reparto di sub-intensiva visto con gli occhi del malato. Ricordarsi il punto di vista del paziente e il suo nome fa parte della nostra storia.

Cosa sognano i pesci rossi – Marco Venturino

 

La medicina d’emergenza urgenza da’ una risposta a tanti bisogni di salute e a tante persone che si recano in pronto soccorso con storie di abusi, disagi o malattie psichiatriche. Queste situazioni sono purtroppo in incremento esponenziale e potremmo narrarne tutti i giorni di diverse. Le vite difficili delle persone che incontriamo ci colpiscono nel profondo e ci capita spesso di ritrovarle raccontate da altri:

Una vita come tante – Hanya Yanagihara

Donne che amano troppo – Robin Norwood

Il ballo delle pazze – Victoria Mas

Tutto chiede salvezza – Daniele Mencarelli

 

Un altro dato interessante.

Una recente survey effettuata in Piemonte nell’ambito della medicina d’emergenza – urgenza ha messo in evidenza che il 70% dei medici è donna, per gli infermieri la quota rosa arriva fino al 90%.

 

Una riflessione, che faccio ormai ogni giorno, mi conferma la centralità di ruolo delle donne e mi porta alle tante incredibili donne che lavorano in questo ambito di fatto così faticoso. Credo sia fondamentale che possano realizzarsi come professioniste ma ritengo indispensabile che continuino a dover avere il loro giusto spazio come donne e come madri per poter essere interamente felici oltre che liberate da ogni discriminazione e senso di colpa. Mi pare che oggi, causa le carenze di organico dei pronto soccorso, si sia persa la giusta attenzione e la dovuta sensibilità nei loro confronti.

 

Eppure quante donne hanno cambiato con il loro operato la storia, quante si prendono cura delle persone sia all’interno del nostro sistema sanitario che in ambito famigliare e quanto spesso nell’ambito del team group si intrecciano le loro vite. Penso alle letture Come il vento cucito alla terra di Ilaria Tuti o a La treccia di Laetitia Colombani.

 

Detto ciò, mi ritengo fortunata.

Ho l’onore di guidare un gruppo di cui sono molto orgogliosa. Da parte mia provo ogni giorno a migliorare il benessere organizzativo di tutti loro che ritengo anime speciali.

Ho anche un’altra fortuna particolare, quella di trarre insegnamento dalle donne del mio passato, in particolare da Giulia Civita Franceschi, la mia bis-nonna, che ha fondato a Napoli la Nave Caracciolo, salvando dalla strada oltre 700 “scugnizzi”. Un esperimento educativo raccontato da Antonella Ossorio ne I bambini del maestrale. Mio papà mi dice che le somiglio tanto, questa cosa mi riempie il cuore di orgoglio.

 

Penso che la vita di chi fa il nostro lavoro sia piena e arricchente, quasi da letteratura, anche se troppo spesso è molto faticosa e penso che ciascuno di noi, proprio per questa ragione, meriti un tempo di qualità da dedicare a se stesso. Il tempo è molto più importante di tante altre cose che abbiamo.

 

Il nostro lavoro è delicato e coinvolgente – siamo formati per salvare vite – ma a volte, almeno per 10 minuti, dobbiamo ricordarci di pensare solo a noi stessi.

Per dieci minuti – Chiara Gambarale.

 

Lo avete capito!

Leggere: i miei preziosi dieci minuti.

 

 

Nota: Dedico questo scritto a tutti i miei colleghi MEU, in particolare al mio gruppo che è famiglia.

 

 

 

Consiglio la visione del video > Randy Pasch, L’ultima lezione.

https://www.youtube.com/watch?v=hgk9ksoyjWw > speech originale con sottotitoli in italiano

Vivere la tua vita attraverso la vita degli altri

agosto 21st, 2023 | NO COMMENTS

di Alessia Lipardi

 

Chiunque decida di fare l’infermiere, o lo sia già diventato, dovrebbe essere stato paziente prima di ogni altra cosa.

 

Se sei “dall’altra parte” pesi bene la gravità del bisogno dell’altro ed il valore di quel qualcuno che si prenda cura di te, dall’inizio al termine del tuo percorso di cure.

 

Come paziente sei dipendente, non puoi muoverti … hai bisogno di essere spronato a mettere i piedi sul pavimento, a provare a sollevarti nonostante tu sia sfinito dal dolore.

Aspetti che qualcuno ad ogni cambio turno venga a chiederti come stai, se hai bisogno di antidolorifici, che controlli se la tua sacca di drenaggio debba essere svuotata.

 

Aspetti di suonare il campanello dietro la tua testa pensi … “potrò disturbare!?“

Stringi i denti, speri tanto che quel forte dolore possa passare, tossisci in silenzio e con paura, la paura che i punti – che tirano – possano saltar via!

 

Ed ecco quando arriva il tuo turno, quello delle medicazioni, della visita giornaliera, vorresti che quel momento durasse per tutta la degenza; ti senti coccolato, preso in considerazione, sei tu il protagonista del momento, tutti hanno occhi solo per te.

Ti dicono che tutto va bene anche se sai bene che in quel momento tutto va male ma sei determinato e sai che prima o poi ne uscirai.

 

Tutti gli infermieri dovrebbero essere prima di tutto pazienti.

 

Capisci cosa significa aspettare il tuo turno, l’attesa della colazione, del pranzo e della cena che scandiscono il ritmo delle giornate.

La tv è sincronizzata sullo stesso canale, ma non chiedi di cambiare o fare zapping perché ti conservi quella “chiamata” per un motivo davvero valido!

 

Sopraggiunge la notte, quando speri di poter chiudere gli occhi e riposare anche solo per qualche ora … ma ti accorgi che quelle sono le ore più lunghe della giornata e attendi che qualcuno pronunci il tuo nome perché una punturina o i prelievi di controllo sono finalmente lì ad attenderti alle prime luci dell’alba. Saluti gli addetti alle pulizie e il nuovo turno del giorno che è appena iniziato.

 

Essere stato paziente da infermiere è capire meglio il saper fare e il saper essere nel proprio quotidiano; esci dallo spogliatoio con la tua divisa e hai la grinta, la forza e la dedizione di correre dai tuoi pazienti, dal neonato all’anziano, con consapevolezza.

 

Essere infermiere dopo essere stato paziente ti cambia.

E come se ricominciassi una nuova vita.

 

Nel bene e nel male hai compreso e conosciuto un nuovo mondo nel tuo stesso mondo, quello in cui sei tu che scegli a chi “affidare le tue cure.”

 

Sei felice perché sai che al tuo pronti, partenza e via … salirai sul trampolino di lancio con una voglia pazzesca di amare, aiutare l’altro e continuare il cammino della tua straordinaria missione.

La missione che non hai scelto tu, ma che ti ha scelto.

 

È vivere la vita attraverso la vita degli altri!

 

Per i pazienti il codice è sempre “rosso”

luglio 24th, 2023 | NO COMMENTS

di Silvia Musci

Siamo in auto di ritorno da un corso di comunicazione aumentata, felici di condividere ed approfondire una competenza fondamentale delle richieste di salute date dalle persone assistite in Pronto Soccorso, le quali le vivono come fosse sempre un Codice 1, nuova identificazione del passato Codice Rosso.

Così siamo sempre in vista per nuovi approfondimenti della “competenza culturale” che racchiude in sé la comunicazione. “Apprendere per apprendere” o Learning to Learn, è una delle competenze chiave indicate dall’Unione Europea, la quale ci è utile per adattarci alla dinamicità del nostro tempo, sia in ambito lavorativo che personale.

 

Siamo esseri sociali e pertanto abbiamo la necessità di stare in gruppo, di creare relazioni, questo fin dalla nascita, il cucciolo dell’essere umano se abbandonato a sé stesso non sopravvive ha bisogno di essere accudito ed istruito per sopravvivere all’interno della sua comunità.

Così è anche la comunità di pratica infermieristica ma non solo, una professione meravigliosa e complessa, la quale in Emergenza Urgenza è particolarmente ricca sia di hard skills tra le quali ricordo i corsi di Rianimazione Cardio Polmonare, sul Trauma, il Triage, sia di soft skills.

Di queste ultime ne ricordiamo alcune:

la capacità di adattamento,

il problem solving,

la comunicazione,

la negoziazione,

il time management,

il pensiero laterale,

l’apertura al feed back,

il teamwork,

tutte skills che vengono applicate nel Team di cura.

 

Siamo portatori di una cultura condivisa con valori, credenze e linguaggio oltre alla formazione necessaria in questo campo.

Sono Infermiera di Emergenza Urgenza da “sempre”: è stato subito amore già dal primo incontro, impossibile da lasciare nonostante sia stata dura attraversare il periodo Sars Cov 2, per lei rimane la passione, che attualmente vivo nel Grande Ospedale Metropolitano Niguarda.

Grazie all’Antropologia, con il pensiero laterale per scelta personale ho approfondito la competenza comunicativa. E’ di fatto lei il filo rosso, la comunicazione, che collega tutti noi nel Patient Center Care, il modello di cura che pone al suo interno la persona assistita e che vede tutti noi attori coinvolti nelle varie professionalità a collaborare per il suo benessere.

La competenza culturale è fondamentale per la relazione di cura con la persona assistita ma non solo, anche tra di noi!

 

Se vogliamo utilizzare la metafora per descrivere i vari punti di vista del vissuto in Pronto Soccorso, possiamo pensare a com’è attraversare un confine verso un luogo riconosciuto socialmente ma con obbligo di frequenza solo in caso di …. necessità!

Così attraversiamo la porta del Pronto Soccorso ed entriamo nel Triage dove la struttura, i rumori, il sovrapporsi di voci e allarmi che sono disseminati nella “nostra” struttura, parte attiva e necessaria, sono negli occhi dei nostri assistiti visti attraverso lo stupore o lo smarrimento di trovarsi nel “paese delle meraviglie”!

 

Le loro richieste di salute sono tutte urgenti, uniche ed inamovibili, vorrebbero risposte immediate ed accoglienza a porte aperte …. Invece la porta si chiude … sembrando così un confine invalicabile!

Per noi invece è diverso, conosciamo il territorio e condividiamo linguaggi e modalità operative, noi ci spostiamo con fluidità dall’ area ad Alta intensità di cura come la Shock Room dove arrivano i Codici 1, a quelle a media intensità, l’OBI che non è Star War ma l’Osservazione Breve Intensiva, fino a quelle a bassa intensità quali i Codici minori i 4 e 5 ….

 

Ma per i pazienti i Codici sono tutti urgenti!!!

 

Soprattutto il tempo incide sulla loro percezione, scorre in modi diversi… per noi velocemente, per loro in attesa spesso soli per necessità, lento e inamovibile…ci raccontano che…non finirsce mai!

Noi abbiamo divise di vario colore che indicano le varie professionalità, certo il cartellino ci identifica…tra di noi ci conosciamo, loro invece si affidano ai nostri sguardi, alle nostre mani…

Stanotte lei è ancora qui? Chi viene al posto suo…?”

 

Stanze diverse, codici di priorità diversi, attrezzature diverse… respiratori, monitor multiparametrici, lettini o letti da degenza… spazi … per noi famigliari, sappiamo dove muoverci e come, cosa c’è e cosa vi troviamo, quasi una seconda casa, in definitiva ci passiamo almeno un terzo della giornata.

Abbiamo i PPCI, ovvero i Percorsi di Presa in Carico Infermieristica che conducono la persona assistita, dopo la fase di Triage nel percorso più adatto alla loro richiesta di salute proprio per evitare il “tempo non a valore” detto più semplicemente tempo perso. Alcune volte sono all’interno di un percorso tracciato dal PDTA, i Percorsi Diagnostici Terapeutici Assistenziali, altre volte sono in percorsi specifici come il pediatrico o l’ostetrico, per noi strade consolidate ma per loro un labirinto sconosciuto.

 

Abbiamo personaggi diversi a seconda se arriva un bimbo, un anziano o un clochard … quanti magnifici colori ed interpretazioni, ma soprattutto abbiamo sempre la diretta, in Pronto Soccorso non ci si annoia mai, non esiste un giorno o una notte uguale all’altra!

 

Mentre il “nostro filo rosso” dato dalla comunicazione ci porta a lavorare in Team a capirci al volo, a condividere informazioni necessarie per la continuità delle cure nel nostro territorio ospedaliero, per chi invece sta dall’altra parte è entrare in un terreno sconosciuto e quindi essere accolto ed avere informazioni adeguate sia per contenuto sia per modalità, ha la grande funzione di sostegno per chi vive l’attesa “fuori dalle mura” e quindi non solo conoscitiva dello stato di salute del proprio caro.

 

L’accompagnatore o care giver, che siano famigliari o amici, per loro la frase di rito spesso è :” Non si preoccupi, adesso lo prendiamo in carico noi, appena possiamo le diamo informazioni”, non è più sufficiente … la porta si chiude … e così comincia l’attesa … da entrambe le parti, la “corrispondenza di amorosi sensi” non si conclude ma continua nello spazio dei pensieri dove incontrano emozioni, tra cui paura, tristezza, angoscia che ben sappiamo possono influenzare in modo negativo lo stato di salute.

 

Salute, malattia e medicina divengono così dei sistemi simbolici costituiti da un insieme di significati, di valori e di norme comportamentali e di conseguenza delle reciproche interrelazioni. Abbiamo così la famosa triade della definizione di malattia, dove per Illness intendiamo il malessere percepito dalla persona che darà così un senso al proprio vissuto, Disease è la malattia definita da noi sanitari che può permettere così l’accesso alle cure ed infine Sickness è la definizione che la società attribuisce alla malattia stessa che va quindi oltre alle sue caratteristiche individuali, dandole così un ruolo sociale. In questo momento vedo tutta la triade all’opera, a seconda dell’angolazione della mia osservazione, osservazione partecipata attiva di stimoli dove si cerca di comunicare al meglio sempre nei tempi migliori per tutte le figure coinvolte.

 

In Pronto Soccorso le persone assistite hanno l’impressione che il tempo sia estraniante: se ne ha così tanto, di tempo, che ci si sente strani, fuori luogo, rispetto alla vita ordinaria in cui esso ha un suo nesso costante. Niguarda a sostegno di questo specifico ambito da qualche mese ha istituito il Caring Nurse, uno di noi che si prende cura proprio dell’attesa, della comunicazione e del sostegno funzionale per ambo le parti!

 

Per noi colleghi infatti è di grande aiuto sapere che situazioni stressongene sono contenute attraverso la relazione, la letteratura insegna che l’aderence si attiva attraverso la comunicazione.

Seppur attivo da poco tempo si vedono già dei risultati incoraggianti, così Codici 1 visti dal “nostro” o “vostro” punto di vista, per tutto questo, noi in prima linea ci siamo!

 

Infermiera MS HRD MS PhDs DACS
EAS DEA ASST “Grande Ospedale Metropolitano Niguarda

Siamo a cavallo!

luglio 9th, 2023 | NO COMMENTS

di Angelo Farese

 

Quando il sipario del teatro si apre, viene quasi sempre preceduto da un applauso del pubblico; funge da incoraggiamento agli attori e fa salire l’adrenalina in circolo.

 

Un vecchio infermiere così soprannominava il triage, “‘o teatro”, per via di alcune sceneggiate da parte dell’utenza, per le famose “tarantelle” che succedono quotidianamente… Bruno diceva così: “ma che ne sanno ‘sti piscitielli ‘e cannuccia!

Per il Pronto Soccorso è diverso perchè quando si apre il tendone della camera calda non c’è un applauso, ma un clacson o una sirena del centodiciotto  che prima di giungere si annuncia con due colpi secchi. Spesso è una cosa seria, “’nu guaio” oppure altro, fatto sta che l’adrenalina fa effetto come vodka e red bull “ammiscate”.

 

È il 22 Giugno, turno di mattina… da poco sono passate le otto.

Vado al triage per salutare Roberto e Giovanni che già da un’ora e mezza sono in postazione ad accettare i primi zombi dell’alba ancora assonnati e doloranti.

Qualcuno stanco e deluso dice di essere stato già in fila il pomeriggio e parte della notte precedente ma che poi, stanco di aspettare, è andato a casa a riposare “vabbè torno domattina presto”, un trauma del dito.

 

Un clacson raggiunge le nostre sinapsi che ci mettono in allerta, lasciamo qualsiasi cosa, qualunque paziente in attesa al triage, tutte le attività si paralizzano come alla vista di uno tsunami in arrivo.

Il clacson suona ripetutamente, e più il suono è vicino più aumenta la tensione, la concentrazione, l’adrenalina in circolo.

Siamo pronti, aspettiamo.

Giunge un’auto sparata e le guardie, anche loro attente e sempre al nostro fianco, aprono immediatamente il tendone della camera calda per facilitarne l’accesso.

 

Che lo spettacolo abbia inizio!

 

Il motore dell’auto resta acceso, mentre il conducente ed il passeggero posteriore escono dal veicolo spalancando la porta anteriore destra: “aiutatelo, aiutatelo… poi vi spieghiamo…”. Ha il colorito violaceo  della morte, in particolare il collo e le orecchie.

 

E’ freddo, Dio quanto è freddo, ed è incosciente… uagliù ma è muort’!” Le urla e i cazzotti sull’auto come i Bottari in un concerto di Avitabile. Prendete la barella è in arrestoooo! Nel mentre inizio a massaggiare il torace, e poco dopo si precipitano Roberto e Giovanni con la barella del triage.

 

Per fortuna Giovanni è messo bene fisicamente, sembra Hulk vicino a me anche se è non verde, è  “’nu sarracino”. Lascio prendere a lui la parte superiore del paziente che è più pesante, io con tutto il mal di schiena, lo supporto prendendo le gambe e lo mettiamo in barella come un sacco di cemento da novanta chili.

 

Giuvà votta ‘a barella!” In un tutt’uno salto a cavallo sul paziente inanime manco fossi John Waine, un flashback vissuto con Marianna tempo fa.

La vidi saltare sul paziente senza esitazione come un’amazzone ma viene da Ariano Irpino, e a lei ho pensato come un prezioso suggerimento.

 

Mi rendo conto che il paziente ha avuto il rilascio degli sfinteri e di essere seduto sul suo piscio, ma sono dettagli, non badi a queste cose in certi casi, sembriamo animali in guerra. Riprendo a massaggiare quel cuore fermo attraversando il pronto soccorso come un cowboy del Far West ma senza sella e senza briglie.

Guardo negli occhi Giovanni che spinge la barella correndo verso il codice rosso quasi senza toccare con i piedi a terra e schivando gli ostacoli, erano le gambe del mio cavallo vincente. L’adrenalina in noi è alle stelle e siamo come in  trans, pensi solo all’ABC in emergenza, le priorità, salvare una vita.

Giuvà nun me fa carè”.

Non so se avete mai massaggiato un torace, ma è come se diventassi un tutt’uno anima e corpo con il paziente morto. Dai energia e pensiero, vuoi che quel cuore torni a battere, spingi perpendicolare con le braccia che si incrociano solo sul petto, e pensi contando “dai cazzo riprenditi!” Ernesto ha cinquantatrè anni, cinquantaquattro li compirà il venticinque  giugno, fra due giorni.

 

E’ vestito da lavoro, con le scarpe antinfortunistiche che rendono ancora più pesante il tutto. Gli accompagnatori mi dicono in un secondo momento che era lì in piedi, e all’improvviso e crollato a terra, soffre solo un po’ di ipertensione, dicono.

Come se qualcuno avesse spento l’interruttore.

 

E come lo diciamo alla moglie? Mi chiedono in lacrime i compagni.

 

Arriviamo in rosso come la Ferrari che in gara fa il pitstop. Chi svita il bullone chi smonta la ruota chi ha già quella di ricambio e chi già sta mettendo benzina.

Ernesto è sotto monitor ma sempre inanime, si continua con il massaggio toracico e adrenalina anche a lui. Alterniamo il massaggio continuo con Claudia, Giovanni e Michela, mentre Mariantonietta e Francesca sono ai farmaci.

Paola fa un emogas nella femorale, Cosimo da dietro dirige l’orchestra escludendo clinicamente le cause del decesso e facendo il punto della situazione ripetutamente come sa fare un bravo leader dell’emergenza urgenza. Alessandra (detta la cinese) libra nell’aria la sonda, tra petto ed ultrasuoni “è ‘nu chiuovo” dice, è fermo come un chiodo impiantato, insonando il cuore.

 

Continuiamo senza fermarci. Ernesto ha una ferita lacero contusa alla tempia.

Sarà caduto? L’hanno menato? Non possiamo saperlo, si decide per esclusione di effettuare la trombolisi. Il paziente ora è in fibrillazione ventricolare. Passano i minuti, otto fiale di adrenalina sparate nei tempi giusti, e cinque scariche di defibrillatore.

 

Il sudore gronda in codice rosso manco fossimo muratori con la “cardarella” e la cazzuola in mano in cantiere, a impastare il cemento sotto al sole.

Il pronto soccorso si ferma, Roberto fronteggia il triage da solo che continua a registrare nuovi utenti. Qualcuno dice basta ormai è andato, interrompiamo. I rianimatori lo intubano, continuiamo. La cinese allucca “e muovete che siamo uccisi dalla stanchezza, muovete”. E’ un attimo,  Ernesto ha un ritmo cardiaco spontaneo, che è di merda ma è pur sempre un ritmo, pensiamo.

 

Quel cuore ha ripreso a battere.

 

Fate del magnesio! Fatto!!

Ernesto pian piano sembra schiarire il colorito della pelle, non è più viola come prima. Stabile nei parametri viene trasferito con urgenza al Monaldi per effettuare una coronarografia, dal tracciato emerso dopo la fibrillazione ventricolare, esce fuori un cazzo d’infarto.

La vita riprende, in Ernesto e nel pronto soccorso.

 

Giungono notizie dall’altro presidio che aveva tre coronarie “appilate”. L’adrenalina in corpo come l’acqua santa fa il suo decorso fino a sciamare come un profumo giovane, un profumo fresco che ti dona la carica che annienta tutti i dolori, anche il mal di schiena.

 

La vita continua e fuori al triage la gente che prima era silenziosa, comincia di nuovo a lamentarsi per l’attesa, ma come diciamo noi riportando un pensiero di Seneca: lieve è il dolore che parla. Il grande dolore è muto”.

 

È il ventiquattro giugno e veniamo a sapere che Ernesto per ora respira spontaneamente. Ancora incosciente e sotto sedazione, ma vivo, e pare anche in finestra neurologica.

È il venticinque giugno, è il tuo compleanno Ernesto, l’Emergency Team del CTO ti fa gli auguri per una veloce e completa guarigione, ci vediamo poi al bar per un caffè.

 

Per ora stappiamo una bottiglia per festeggiare una vita salvata nella stanza del primario. Il tappo vola in alto accompagnato dal botto e dalla schiuma, in alto insieme ai nostri cuori, ma la bevuta è rimandata … codice rossooooooooooooooooooooo!!!

 

nella prima foto Giovanni Rosiello, emergency nurse e nella seconda Angelo Farese emergency nurse con un paziente

LAVORI IN CORSO

giugno 10th, 2023 | NO COMMENTS

di Fabio De Iaco

 

Fino a qualche anno fa i cantieri sull’autostrada erano annunciati da grandi cartelli con la scritta “stiamo lavorando per voi”: a quei tempi i cantieri erano un punto d’orgoglio (erano lì per migliorare e modernizzare) e non fonte di imbarazzo e disagio come oggi.

Infatti quei cartelli non si vedono più.

 

In questi mesi anche la Società Scientifica è costellata di cantieri, e vorrei esporre lo stesso cartello: stiamo lavorando per voi. Lo farei con convinzione, perché stiamo migliorando e abbiamo necessità della partecipazione e dell’appoggio di tutti i Soci.

 

È sotto gli occhi di tutti come la SIMEU stia cambiando: quello del cambiamento è un processo inevitabile, necessario alla sopravvivenza e imposto dalla devastazione del SSN cui assistiamo quotidianamente, ma soprattutto è un processo necessario per adeguarci al nostro ruolo e alla nostra rilevanza. Ruolo e rilevanza di cui abbiamo sempre avuto piena consapevolezza ma che solo di recente iniziano ad esserci davvero riconosciuti, nonostante le macroscopiche difficoltà nelle quali stiamo operando.

 

La credibilità istituzionale e la visibilità mediatica, peraltro, non sono sufficienti a fare di SIMEU una Società Scientifica moderna e forte, al passo con i tempi: è necessario irrobustire e adeguare la struttura societaria, come abbiamo fatto recentemente con le modifiche allo statuto.

 

Estendere la durata del mandato della consigliatura a un orizzonte di tempo che renda ragionevolmente possibile realizzare progetti ad ampio respiro, rafforzare la presenza degli infermieri nel Consiglio Direttivo Nazionale e inserirli nell’Ufficio di Presidenza, rendere definitivamente strutturale il consiglio delle Regioni, istituire l’area degli Specializzandi e conferire loro il ruolo che meritano in Ufficio di Presidenza: sono tutti passaggi necessari, condivisi dalla stragrande maggioranza, ma che hanno avuto necessità di un anno di lavoro per essere realizzati.

 

E il lavoro non è affatto finito, perché parte da ora il processo di adeguamento del regolamento della Società, che non è un passaggio sterilmente formale, ma l’occasione per rendere concrete le modifiche statutarie e anche per arricchire quanto già fatto di nuovi contenuti.

 

Penso per esempio alla necessità di strutturare l’area degli Specializzandi con caratteristiche di autonomia e accesso alle risorse della Società, oppure all’altrettanto importante necessità di istituire occasioni di rapporto e collegamento con il mondo dell’Università e in particolare delle Scuole di Specializzazione, in maniera aperta e reciprocamente proficua.

 

Sarà un lavoro impegnativo, che ci occuperà per i prossimi mesi, accanto ad altri obiettivi che ci siamo posti e che stiamo perseguendo.

 

Ne cito due:

  • l’istituzione di un osservatorio permanente della Società Scientifica, che renda ottimale la nostra capacità di rilevazione e produzione dati, perché abbiamo ben chiaro come dalla discussione perennemente aperta sul futuro dell’intero sistema quel che spesso manca sono dati aggiornati e realistici, sia clinici che organizzativi, che pure stanno dentro alla nostra attività quotidiana.
  • E poi, non meno importante, la creazione di una fondazione della Medicina d’Emergenza Urgenza italiana che, gemmando dalla Società Scientifica, abbia idee e strumenti per poter agire a tutto tondo sui nostri temi capitali, a livello sociale e culturale, coinvolgendo la Società Civile di questo Paese e promuovendo iniziative per il miglioramento.

 

Insomma, tornando ai cantieri di cui parlavo all’inizio, è chiaro che ne abbiamo aperti tanti, e garantisco che abbiamo la ferma intenzione di chiuderli tutti nel più breve tempo possibile.

E tutto questo marcia di pari passo con l’attività tradizionale e continua della Società Scientifica: formazione, ricerca, produzione di raccomandazioni e linee guida.

 

E qui arriva la mia domanda: visto che la Società è di tutti, e con la Società anche i cantieri, cosa avete intenzione di fare? Perché potete scegliere: fare come gli umarell che assistono da fuori, mani dietro la schiena e sguardo critico, oppure mettervi in gioco e partecipare.

 

Innanzi tutto aderendo alla SIMEU, ma anche e soprattutto intervenendo, portando idee e lavorando allo sviluppo delle stesse, partecipando sui social, nei Consigli Regionali, durante i convegni.

 

Noi di SIMEU abbiamo diversi hashtag.

Quelli che preferisco sono tre:

#fieridivoi

#serviziopubblico

#ilbellodellameu.

 

Ci siete? Perché noi vi aspettiamo.

E perché il futuro della Società Scientifica è già oggi, e ha bisogno di tutti.

A presto!





SIMEU - SOCIETA' ITALIANA di MEDICINA D'EMERGENZA-URGENZA

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