IL BLOG DI SIMEU

 

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La Storia nelle Stories

lunedì, dicembre 27th, 2021

A cura dell’ ufficio stampa

 

A caratterizzare le festività di fine anno 2021 è purtroppo la “quarta ondata” dallo scoppio dell’emergenza COVID19.  E’ arrivata poco prima del secondo Natale di un mondo sconvolto da un microrganismo in circolazione con attitudini da villaggio globale.

 

Gli ospedali italiani, soprattutto i Pronto Soccorso, sono ancora fortemente coinvolti nel fronteggiare la pandemia. Contare, valutare, organizzare, ri-modulare, re-imparare la gestione e la cura dei pazienti – tutti i pazienti – sono diventati una sorta di periodica consuetudine.

 

Ogni ondata è diversa da quella precedente, una storia da riscrivere ex novo rispetto alle evoluzioni della conoscenza, del virus e dei contesti sempre diversi del suo intorno. Intanto mesi intensi, faticosi e sempre più complessi per molteplici ragioni, si sono sommati. Stanchezza e crisi strutturale sono ai massimi livelli: intanto che la politica chiacchiera, i pronto soccorso implodono.

 

La medicina di emergenza urgenza non è solo una disciplina è anche un modo di pensare, di vivere ed il Pronto Soccorso è prima di tutto le persone ed i professionisti che lo animano.

Si sono ormai accumulati quasi 10 milioni di ore di straordinario ma la stragrande maggioranza di medici ed infermieri sono al loro posto con un immutato senso di responsabilità e grande generosità. Ancora una volta, anche durante queste festività.

 

Abbiamo voluto omaggiare il loro lavoro con un ricordo, raccogliendo le testimonianze delle “SIMEU Stories” scritte quando tutto era sorprendentemente e drammaticamente nuovo. L’inizio della pandemia e la prima tragica ondata raccontata dalle voci dei professionisti dell’emergenza urgenza: da nord a sud Italia, direttamente dalla prima linea.

 

L’INIZIO DELLA PANDEMIA

Antonella Cocorocchio: ”leggendo i documenti ministeriali oppure guardando i giornali e la tv, ho l’impressione che la mia Italia sia divisa in due: una parte che soffre e un’altra che attende l’arrivo della sofferenza”. Racconta Roberto Cosentini: “la Lombardia ormai è l’epicentro di un terremoto che sembra non finire mai. Ogni pomeriggio arriva una scossa e gli ospedali scoppiano. Se non riusciamo a trovare subito altri letti, più medici e infermieri, in queste condizioni possiamo resistere ancora per poco”.

“Un sibilo, continuo, che non avevi mai sentito prima in oltre quindici anni di pronto soccorso”, lo descrive Alessandro Riccardi ed Eleonora Giorgini il 7 marzo 2020 osserva: “sembra una mattina uguale alle altre, ma non lo è”.

Francesca Cortellaro si sfoga con i giornalisti: “È uno tsunami” e anche Susanna de Pascalis lo descrive tale.

Claudia Cicchini sente di essere parte della Storia:“oggi noi, gli attori dell’emergenza urgenza stiamo vivendo i cento giorni di Napoleone rientrato in Francia, l’ingresso a Gerusalemme nella Domenica delle palme: gli osanna, i ringraziamenti per un lavoro che è lo stesso che abbiamo sempre fatto ogni giorno fino ad oggi e che continueremo a svolgere quando sarà finito il nostro momento”. Silvia Musci si chiede con preoccupazione: “chissà per quanto ancora…”.

Nicole Bosi Picchiotti soffre:“era iniziata come una notte tranquilla, solo un paziente…. Ciao Paolo”. Emanuela Cataudella:“quando ci è stato comunicato che ci saremmo dovuti preparare ad una maxi-emergenza sanitaria noi eravamo pronti”. Luisa Tammaro riflette sul nome del nuovo nemico: “Corona, non è una birra da bere fredda in riva al mare”.

 

LA PAURA

Nuovi sentimenti appaiono nelle parole di Concetta Pirozzi: “ansia per le famiglie, per sé stessi, per i pazienti. Ora ci siamo abituati e indossiamo i DPI, in automatico, come se questa fosse la nuova normalità. Ma non è la normalità”. Stefano Paglia:“la paura si vede nei volti degli operatori, a volte lieve velata a volte incontrollata” perché: “a parlare sono i nostri occhi”, scrive Emiliano Fanicchia.

Barbara Gabrielli confessa: “questa notte abbiamo curato la paura”. Mario Guarino: “abbiamo paura, certo che abbiamo paura. Ce lo diciamo con gli occhi incorniciati dalle mascherine e dalle visiereGaetano Diricatti scrive le parole pronunciate da un infermiere: “Doc, sono preoccupato! Dici che ce la faremo a non ammalarci? Ho paura per mia figlia… Anto’,  e risponde “anch’io sono preoccupato… Se sapremo essere una squadra, ce la faremo!”.

Christian Ramacciani Isemann: “la mia squadra adesso è fragile, impaurita dall’ignoto che gli si para davanti e stanca dei troppi giorni senza riposo. La mia squadra però è determinata”.

Daniela Grisanti invece è a casa in maternità:“ho paura, e me ne vergogno, non mi sento in diritto di provarla, non essendo in prima linea assieme a Voi. Sono fiera di Voi. Fabio De Iaco parla di quello che vede “immagini che non ci abbandoneranno mai: tutti ne abbiamo qualcuna nella testa”. Senza scordare la paura più angosciante: quella dei malati. “Era lì ben presente, sul lettino della shock-room ed ha capito, compreso” la testimonianza di Maria Felicia Di Corcia. “Ho questa fottutissima paura continua!” confessa l’infermiera Monica che si è infettata ad una coinvolta Francesca Mangiatordi.

 

Il VIRUS SCONOSCIUTO

Giuseppe Lauria:“si tratta di qualcosa che il nostro organismo non ha mai visto, soprattutto in una società come la nostra. Nel Medioevo era un conto, ma adesso siamo una società globale: il virus prende l’aereo, il treno, la macchina”. Per questo bisogna “decidere fuori dagli schemi”, ricorda Marco Barchetti.

“Ti trovi a lottare contro un nemico invisibile, infinitamente piccolo eppure tanto più grande di te. Da allora, pensieri orrendi abitano le notti insonni e pensi di non farcela” racconta impensierita Maria Antonietta Castellone.

Francesca De Marco: “notte difficile, pazienti gravi ma io ho una speranza. Il virus potrebbe regalarci qualcosa, ammesso che una catastrofe non annunciata possa regalarci qualcosa, ovvero il senso di responsabilità per l’altro”. “Tante le calamità lontane dal mio mondo! Oggi il mio mondo è come quello lontano” è il sentimento di smarrimento per Maria Pia Ruggieri.

 

MEDICI, PERSONE E SENTIMENTI

Davide Bertoglio:“gli operatori sanitari prima di esser medici e infermieri sono donne e uomini che combattono questa guerra non solo con le armi che la medicina ci dà, ma anche con empatia e sensibilità”. Empatia, una parola che risuona. “Ho sentito come si sentono i miei malati”, racconta Roberta Petrino e Claudia Cicchini la comprensione la vive così:“chiamo la moglie, le parlo. Mi racconta del figlio, che deve laurearsi nei prossimi giorni, della figlia studentessa di infermieristica, che ha iniziato le manovre rianimatorie al padre; mi chiede come farà con i ragazzi, con la vita…” Mentre un pragmatico Giulio Maria Ricciuto ricorda quanto sia importante avere: “più protezioni per medici e infermieri”.

Michele Mitaritonno: “giorni di quarantena per qualcuno, giorni di reclusione forzata per altri e poi ci siamo noi … per noi operatori sanitari sono giorni di duro lavoro!” Senza mai fermarsi, senza le giuste pause “allora avanti con il turno successivo” è lo sfogo di Giacomo Magagnotti.

Alessio Gamboni e Tiziana Fancelli così si descrivono, con un’ironia forse salvifica: “siamo i DR.oni, portiamo l’Ospedale a casa e facciamo a casa ciò che ti aspetti dall’Ospedale, la parola giusta, il gesto umano”.

“Regalare un sorriso, un sostegno a tutti coloro che ne avevano bisogno” ecco cosa dà forza a Smeralda Giunta.

Giuseppe Ruocco condivide il suo pensiero:“proseguirò come tutti coloro che son sospesi in questo limbo in cui la vita sembra freezata e messa in pausa, a distanza di sicurezza dalla paura e con un cuore sdrucito e rattoppato da tutto questo peso a tratti insostenibile”. Nel frattempo Anna Castrovilli è sicura che la forza sta nelle persone: “uniti ce la faremo”.

 

L’ORGOGLIO DEL PROPRIO LAVORO

Paola De Carlo: “ci chiamano eroi, ma noi siamo i medici dell’emergenza, siamo abituati a lavorare in condizioni difficili, siamo sempre in allerta e ci adattiamo ai cambiamenti”. Anna Maria Ferrari:“abbiamo dimostrato di esserci!”. Antonio Cuzzoli riflette con orgoglio che: “la Medicina e le Persone dell’Emergenza – Urgenza stanno svolgendo un ruolo cruciale in questa crisi epidemiologica e anche l’opinione pubblica oggi ci è vicina”.

Anche Federica Stella rimarca che “la famiglia dell’emergenza-urgenza sta rispondendo benissimo a livello nazionale, e io più che mai sono orgogliosa di farne parte”.

Stefania Ferrero lancia la sua sfida al nemico: “beh, caro Sig. Corona, la partita fra noi due l’ho vinta io, e l’ho vinta anche perché al mio fianco ho avuto persone eccezionali”. Cristina Cena:“fremevamo per far ripartire i nostri pazienti e il nostro Paese, ci siamo uniti e sostenuti per combattere insieme e.…ci siamo riusciti”. Francesco Franceschi:gli infermieri di Triage sono eccezionali, hanno oramai acquisito quell’intuito clinico che solo il PS ti sa dare”. Franco Grilli medico guarito dal Covid: “la medicina d’urgenza rimane comunque la mia scelta di vita”.

La MEU è qualcosa di più di una professione.

Marco Cortigiani: non lo facciamo per eroismo o temerarietà, non per gli onori e la gloria, che abbiamo imparato trovarsi molto distanti dagli ambulatori e le sale d’aspetto di un Pronto Soccorso o per le strade, lo facciamo per senso del dovere”. Lo ribadisce Orietta Petrignani: “so cosa si prova, a volte la paura di non farcela con i turni, la stanchezza, emozioni forti… Ma anche la gioia e la gratificazione per quello che alla fine del nostro lavoro riusciamo a fare”. Per non parlare del coinvolgimento dei più giovani come Marco de Cataldis: “essere specializzando in medicina d’emergenza e urgenza: ne sono fiero”.

Maria Rita Taliani:“non credo di essere sola…teniamo alto il nome di quell’Italia in cui nessuno più si riconosceva…e purtroppo ancora qualcuno non si riconosce”. E poi Emanuela Cataudella che confida nella buona riuscita delle cose: “il Sistema Sanitario Italiano ce la farà, perché nonostante tutto ha dato una grande lezione di efficacia ed efficienza”. Concetta Pirozzi:“la fiducia nelle capacità del sistema e dei singoli e nelle qualità di chi ci coordina, oltre che la speranza e l’ottimismo, devono continuare ad animare il nostro operato in questi e nei futuri momenti bui. A testa alta resistiamo”.

 

UN NUOVO VIRUS, UNA NUOVA VITA.

Nulla è come prima. Un essere invisibile, un granello che ha fatto saltare un meccanismo complesso. Quello che era normalità, banali abitudini quotidiane non esistono più. “Mi ricordo benissimo il giorno in cui sei arrivato in Italia” scrive in una lettera al Covid lo studente Jacques Camajori Tedeschi mentre secondo Nicola Placucci:“arriva lui, il virus. Che ci costringe ai turni infernali, ai presidi di protezione insopportabili, ai cambiamenti di abitudini sul lavoro e nella vita impensabili fino a qualche settimana fa. E anche correre, si, anche correre diventa illegale”. Luisa Borella si concentra  sulle voci degli altri, degli anziani: “c’è il sole oggi .. Si .. visto? .. Proprio primavera. Usciamo, è ora della camminata. No non possiamo. Siamo vecchi, dicono che siamo a rischio con il virus”. Silvia Fiumana: “scendo di corsa le scale al cambio. Prendo la radio, saluto il mio regolatore, un sorriso con gli equipaggi dietro le nostre mascherine e si parte. Di corsa al box”.  Patrizia Gherlinzoni: “vai a casa e ricaricati”. Lo staff del PS di Civitavecchia ASL Roma 4: “abbiamo per mesi combattuto contro un nemico subdolo e sconosciuto, qualcuno di noi è stato contagiato, ma nessuno è scappato; tutti sono rimasti al loro posto”. Gaetano Diricatti:“vorrei essere Omero o magari Lucio Dalla, ma anche Diodato”, per raccontare cos’è tutto l’amore di cui è stato testimone oppure le parole ascoltate dai pazienti ” … certo, mi piace di più qui: sono accanto alla finestra, fuori è primavera! Ecco, dai, apritele bene, ‘ste finestre, fatela entrare, questa primavera…il virus no, di qui non entra né esce…”. Antonio Del Prete: “ci hanno dedicato di tutto e abbiamo trovato persino posto sul presepe di San Gregorio Armeno a Napoli”.

Francesca Mazzella: “questa malattia ci ha reso fragili e, annichilendoci, ci ha portato via la cosa più importante, la condivisione, l’empatia della comunicazione e la comunicazione dell’empatia, a cui noi medici d’emergenza siamo molto legati”.

 

Il FUTURO

Quando tutto questo sarà finito dice Sonia Maurizi: “mi comprerò un fonendoscopio nuovo. Magari di colore verde. Come la speranza, che mai mi abbandona”. Fabiana Di Girolamo e Arianna Trabalzini:“quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo”. Emmanuele Tafuri: “quando questa situazione finirà, speriamo prima possibile, mi auguro che si comprenda che chi lavora in emergenza non è un martire, eroe o missionario quando c’è una pandemia o bersaglio di critiche ed aggressioni in tempo di pace”. Ma più di ogni altra cosa lo sguardo al futuro sono i bambini. Angelo Farese: “Clohe, la bimba che non si svegliava e poi ha aperto gli occhi”.

 

GRAZIE A TUTTI per continuare a fornire una change di sopravvivenza, aiuto, ascolto alle persone che a voi si rivolgono. SEMPRE, quale ne sia il costo.

 

 

 

UNA VITA DA ZOMBIE. La vera essenza della crisi della Medicina di Emergenza – Urgenza

lunedì, dicembre 6th, 2021

di Claudio Poggioni

Medico “in estinzione” presso un Pronto Soccorso in Toscana, ci autorizza a pubblicare questi suoi pensieri maturati alla vigilia dello scorso 17 novembre: la crisi della medicina d’emergenza urgenza riassunta in poche righe.

 

La vita suona al ritmo dei turni, un loop inesorabile tra giorni e notti. Una musica che si ripete, silenziosa, senza interruzione. Non ci sono i fine-settimana che interrompono questa monotonia, non c’è uno stacco che ti riporta alle cose belle della vita; quelle vanno incastrate nei pochi momenti liberi, con fatica, consapevole che lo sforzo di farlo si esaurirà con l’energia della gioventù, ed a quel punto rimarrà solo una lagna deprimente.

Entrare, cambiarsi prendere le consegne e partire. Una sequenza infinita di pazienti ognuno con i suoi problemi. Ma le difficoltà si accatastano una sull’altra, ognuno vuole risposte, subito, anche per futili motivi.

Dentro quella stanza contemporaneamente vieni bombardato da una miriade di domande da parte dei pazienti, degli infermieri, degli Oss.

Il telefono squilla di continuo ma il tempo per ogni risposta, per ogni decisione è di pochi secondi. C’è confusione, un via vai continuo e fatichi a capire chi ti sta parlando. L’odore acre del vecchio paziente che ha defecato nella barella accanto ti penetra nel cervello. Impossibile concludere una visita senza essere interrotto più e più volte, ed ogni volta cercare di ripartire da capo.

Ma il signore cerca di raccontarti il suo problema. Per lui è il suo momento e vuole attenzione, almeno per 5 minuti, però non c’è tutto quel tempo. Lui vuole una risposta, ma l’unica che puoi dargli o almeno che ricerchi è quale destino affidargli. Deve essere ricoverato o può tornare a casa in relativa sicurezza?

La diagnosi diventa un optional, la terapia un lusso, non puoi perdere tutto quel tempo. Sei nel vortice e ne vieni trasportato.

 

L’anziana signora di 95 anni, ormai inconsapevole anche di essere al mondo, sta davanti a te: ma perché non è nel suo letto ad attendere il suo destino naturale? Perché il ragazzo ha avuto il coraggio di venire in Pronto soccorso per un banale mal di gola?

Il territorio non esiste, siamo noi il parafulmine in una tempesta infinita. Lo stress cresce, la rabbia e la consapevolezza dell’impossibilità di approfondire il perché di tutto questo pure.

 

Poi arriva l’emergenza, quella per cui vale la pena spendere tutto.

Ci si dedica anima e corpo ma un occhio va sempre alla lista di attesa che aumenta. Sai già che pagherai caro esserti dedicato a questo codice rosso. Agli altri pazienti non importa cosa stai facendo, quando tornerai da loro ti aggrediranno per il tempo di attesa troppo lungo. Troverai una montagna di lavoro da smaltire che trascinerai fino al cambio del turno ed anche dopo, per non lasciare al collega una situazione troppo drammatica. Torni a casa distrutto, ti aspetta un piatto di pasta fredda ed i tuoi figli sono già a letto.

 

Allora nella disperazione, quando il burn-out inizia a mangiarti l’anima, hai due possibilità. O inizi a chiedere consulenze inutili per situazioni che saresti perfettamente in grado di gestire da solo. Chiedi ecografie che non hai tempo di fare. Chiami l’anestesista per banali sedoanalgesie o il chirurgo per una sutura un po’ più lunga. Smetti di fare il medico di emergenza, ciò a cui hai dedicato la vita, ed inizi a fare il vigile indirizzando pazienti da una parte all’altra. Sei considerato dagli altri specialisti un poveraccio, si lamentano per le continue richieste perché anche loro hanno il loro lavoro da svolgere.

Non sanno cosa c’è dietro.

Oppure ignori la lista, dedichi il tempo che ogni paziente grave merita, fai il tuo lavoro come andrebbe fatto, paradossalmente lo fai con sentimento di protesta. È il modo migliore per essere disprezzato dal sistema. In Pronto Soccorso vogliono un medico “svuotatutto” non un medico bravo.

Rabbia, depressione, stress, lacrime, stanchezza sangue e sudore si mescolano in mix devastante.

 

Esci dal turno distrutto, ma non c’è riposo perché domani tutto ricomincia. I medici sono pochi, le persone scappano da questo massacro, e l’unica scelta che le amministrazioni sanno prendere è sfruttare ancora di più quelli che rimangono pur di tenere in piedi immutato questo sistema. Fino alla fine, finché uno rimane in piedi e non stramazza o decide, se ne ha la forza, di scappare prima.

La vita sociale è impossibile.

Il weekend in cui le persone normali condividono la vita per noi non esiste, le serate davanti alla TV neanche. O si lavora o siamo distrutti dal lavoro.

Tutto nella vita assume lo stesso sapore.

Tutto perde di importanza.

Tua mamma si sente sola ed è depressa, tuo figlio ha la febbre, deve andare dal dentista da 2 mesi ma non hai il tempo di portarlo. Ti chiede attenzione. Ma tutto questo passa in secondo piano. Finché il problema non è grave non può meritare attenzione, quella è catalizzata solo dal lavoro.

Non riesci più a concentrarti su una attività, non porti niente a termine. Affronti la vita solo quando si presenta un’urgenza, un problema grande.

Diventi progressivamente sempre più apatico, fino ad essere uno Zombie.

Ma non è così la vita e lo sai.

La vita è fatta di cose belle, grandi e piccole da godere, la vita è una sola e quando meno te lo aspetti può finire.

 

Quando questi pensieri escono fuori l’unica scelta è abbandonare questo lavoro. Se fortunatamente queste idee vengono fuori prima di sceglierlo la scelta migliore è non iniziarlo neanche.

Ecco l’essenza della crisi della medicina d’emergenza.

Caro ministro non ce ne frega niente di qualche euro in più al mese, non ce ne frega niente degli incarichi professionali o delle promesse di carriera. Rivogliamo prima di tutto la nostra vita, fatta di giorni liberi, di ferie e di diritti.

Vogliamo stare dietro ai nostri figli, vogliamo anche noi fare sport ed avere un hobby. Vogliamo la nostra dignità professionale e la possibilità di esercitare la nostra specialità ed il nostro lavoro con rispetto.

Riorganizzate il sistema, il territorio, gli ospedali.

Trovate un’altra destinazione per i codici minori.

Fate ciò che volete ma rendeteci la possibilità di vivere da esseri umani e non da schiavi, altrimenti la libertà saremo costretti a riprendercela da soli, ognuno per sé, e sarà la fine di questo servizio.

Firmato: uno (degli ultimi) medici di Emergenza/Urgenza.

 

Che aggiungiamo, alla fine a detta di tutti i professionisti MEU, continua comunque ad essere sentito come “il lavoro più bello del mondo” che occorre preservare dal rischio estinzione.

 

Ich hab’ kein Zuhause

martedì, ottobre 19th, 2021

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo racconto della dott.ssa Margherita Riccardi che si presenta in questo modo: “sono un medico italiano, lavoro come chirurgo in Germania e il mio lavoro si svolge principalmente tra sala operatoria e pronto soccorso. Sono molto legata alla medicina d’urgenza, talmente tanto che presto inizierò a lavorare e studiare per prendere la specializzazione in medicina d’urgenza. Ecco, anche se non lavoro in Italia, vi seguo, vi leggo e vi ringrazio per il lavoro che fate. Chissà, prima o poi tornerò in Italia a lavorare, in qualche Pronto Soccorso“.

Ringraziamo moltissimo questa collega e segnaliamo le sue molte storie, tutte vere, pubblicate sulla pagina Facebook “Salvo Complicazioni” https://www.facebook.com/salvocomplicazionidoc

Buon lavoro e buona vita Margherita!

 

 

Pronto soccorso, notte di guardia.

Il monitor appeso in sala medici lampeggia: profonda ferita al braccio, arrivo in 8 minuti.

Accanto la scritta “N +” mi fornisce l’informazione che sull’ambulanza è presente anche un medico d’urgenza (Notarzt/Notärtzin).

Questo vuol dire di solito che è qualcosa di relativamente grave. Poco dopo sento le sirene avvicinarsi, lascio la mia postazione e mi avvicino all’entrata del

pronto soccorso dove accedono le ambulanze. Infilo i guanti in lattice, guardo l’orologio e mentre mi rendo conto che sono già le 3 del mattino, vedo con la coda  dell’occhio il paziente scendere dall’ambulanza. Sui 40 anni, pantaloncini corti e una maglietta strappata completamente imbrattata di sangue.

Un’ infermiera mi aiuta a farlo stendere su un letto. Il medico d’urgenza mi presenta il paziente e snocciola velocemente le informazioni più importanti:

M.J, 41 anni, consumo abituale di droghe, diverse malattie croniche e alcuni problemi familiari che non riesce a gestire. Oggi la goccia che fa traboccare il vaso. Suizidversuch, scandisce il collega, imprimendo una certa solennità.

Tentativo di suicidio.

Il paziente è stato trovato dai parenti mentre si stava tagliando le vene.

Le ferite si trovano lungo buona parte dell’avambraccio sinistro, non sono molto profonde, ma vanno comunque suturate. M.J. spalanca gli occhi enormi e scuri,

quasi neri. È lucido. L’infermiera disinfetta le ferite mentre io preparo l’occorrente per medicare.Ecco ora annego nei tuoi occhi M.J, penso. Vorrei darti un

qualche tipo di conforto, dirti che andrà tutto bene, ma io e te veniamo da due pianeti diversi, e questo me lo spieghi tu, gentilmente. Ci sono pianeti e vite intere dove le cose non sono mai andate né potranno mai andare bene, e tu vieni da uno di questi. “Ich hab’ kein Zuhause”, io non ho una casa.

Lo dici tremando, e fai delle lunghe pause per cercare le parole giuste che alla fine comunque non vengono fuori. Accetti di parlare con me e il mio tedesco stentato, che è ancora più zoppicante ora che ormai si sono fatte le 4 del mattino. Io e te vicini, mentre inietto l’anestetico locale lungo tutta la ferita principale.

Ma i nostri pianeti sono sempre più distanti, e probabilmente invece vorresti sentirlo un po’ di dolore. Provare qualcosa.

Sentire, ancora una volta, tutto il male del mondo che dici di portare dentro. Non riesco a vederlo M.J., tutto questo male. Non ci riesco. Mi hanno cresciuto con l’idea che in ognuno di noi ci sta del buono, ma come dicevo i nostri pianeti sono sempre più distanti, e tu mi confessi che sei tutto da buttare. Sei un fiume di lacrime adesso e un po’ ti lasci andare, o forse è solo una farsa, o forse non lo so. Rimaniamo così, in silenzio nel cuore della notte.

Tu a piangere ferite che non vedo e io con i miei aghi e portaghi a chiudere tutte le altre

Dopo Anita.

mercoledì, settembre 29th, 2021

Direttamente dall’ EM STORY CONTEST della SUM.SCHOOL SIMEU appena conclusa, la testimonianza nominata vincitrice “per aver utilizzato le immagini, i rumori e gli sguardi come strumento di narrazione. L’uso dei nomi propri per indicare le persone come stile di approccio e cura. Il ricorso alle canzoni come rievocazione del proprio vissuto messo al servizio della persona nel percorso di cura”. Da un’idea del Segretario Nazionale dott. Mario Guarino, giuria presieduta dallo scrittore Maurizio De Giovanni

Mara Tesei ne è l’autrice. Originaria di Perugia, presta servizio presso il PS di Montepulciano dopo aver partecipato a tre missioni in Africa con una ONG.

 

Piccoli pezzi di vetro cadono come polvere dai vestitini che piano piano le togliamo.

È vigile, piange.

Non ha evidenti segni di contusione e non notiamo ferite una volta rimasta solo con il pannolino.

Si chiama Anita, un anno di età.

 

Un’infermiera del centodiciotto entra nella stanza e ci consegna le borse che erano vicino a lei nell’auto. Sono delle buste di carta di negozi per bambini, dentro dei vestitini con ancora il cartellino del prezzo attaccato. Chissà Anita come può averti immaginato bella con questi addosso la tua mamma. Invece ora sei quasi nuda con una dottoressa e due infermiere che immaginano cosa possa averti lasciato addosso l’impatto dell’auto. Ecografia ed esami di sangue negativi. Nulla, addosso non ti ha lasciato nulla. E sulla tua mamma? Cosa lascerà sulla tua mamma questo pomeriggio in cui siete uscite insieme e tornando la vostra auto ha avuto un impatto frontale con un’altra auto? Ora siete divise dalle porte scorrevoli della sala rossa: ogni volta che si aprono è come se la sala respirasse. Con lo stesso ritmo con cui le porte scorrevoli si aprono e si chiudono penso a quello che gli infermieri stanno facendo sulla mamma. Gestione delle vie aeree, accesso venoso. Io però non sono dentro con loro, sono dall’altra parte del corridoio eppure: elettrocardiogramma, esami di sangue, ecografia.

 

Io però ho in carico Anita, i familiari a casa non rispondono, né i nonni né il papà.

Eppure: emogasanalisi, tac. Questo ritmo di pensieri non la tranquillizza. “Marinella cosa facciamo con il paziente per la cardiologia?”, domanda che riecheggia dall’altro corridoio dove altri medici ed infermieri continuano a lavorare, mentre io sono lì ferma con in braccio Anita. “Marinella, va a reparto?”. Ma certo, Marinella. Tutto diventa un po’ più chiaro, tutto diventa sequenziale, come l’abcde che mentalmente avevo fatto sulla mamma di Anita.

“Questa di Marinella è la storia vera, che scivolò sul fiume a primavera, ma il vento che la vide così bella, dal fiume la portò sopra una stella”.

Entro nella stanzina di ristoro del Pronto Soccorso.

Inizio a cullarla e a cantarle piano la canzone di Marinella. Ricordo solo quella strofa e gliela canto di continuo, così come di continuo stiamo camminando in su e in giù in quella stanzina dove gli infermieri cercano un minuto di tranquillità tra un triage e l’altro, tra un’urgenza ed un’emergenza.

 

Anche io cerco in quel posto un po’ di tranquillità per Anita.

Ora lì non piange più, ha in bocca il suo ditino che ogni tanto prende ogni tanto lascia.

“Ma il vento che la vide così bella …” Anita si addormenta.

 

Entra in stanza il direttore. È in questo ospedale da poco, non mi ha conosciuto quando pochi mesi prima arrivai in pronto soccorso con la testa piena di lunghe treccine africane per l’ultimo tirocinio di infermieristica. Ero tornata da due giorni dalla mia seconda missione in Africa: già sull’aereo avevo pensato “sarà difficile? Sarò all’altezza?”. Qualche mese dopo sarei tornata lì come dipendente: ogni turno mentre percorrevo il corridoio che dallo spogliatoio portava al pronto soccorso mi chiedevo: “sarò oggi all’altezza di quel posto?”.

La domanda è rimasta sempre la stessa. Il direttore invece non fece alcuna domanda sul perché nel suo pronto soccorso si ritrovava un’infermiera al primo incarico che cantava De Andrè con in braccio una bambina. Sorrise, uscì, mentre entrarono nella stanza le novità sulla mamma: tamponamento cardiaco, trasferimento in sala operatoria di cardiochirurgia.

Con la notizia arrivarono anche i familiari di Anita. Riconsegno Anita al suo papà.

 

Non ci diciamo nulla, ma in quel passaggio da un abbraccio all’altro, ho capito il vero obiettivo del pronto soccorso: riconsegnare una vita.

Prima di lavorarci, come la maggior parte delle persone, pensavo che gli operatori cercassero di perseguire tale obiettivo tra il caos e la fretta. Da infermiera ho compreso che quando tutto si focalizza nel riconsegnare questa vita vige straordinaria disciplina: in una situazione di emergenza, ogni individuo si sente responsabilizzato, “si forma una solidarietà diffusa, cala il livello di litigiosità, insomma per quanto possa sembrare assurdo, l’auto smette di perdere i pezzi quando supera i duecento chilometri orari”

 

Dopo Anita scelsi di non scendere più dall’auto chiamata pronto soccorso.

 

E un posto al sole ancora ci sarà!

venerdì, giugno 25th, 2021
di Mario Guarino

I tatuaggi, disseminati sul corpo emaciato, sono o tanti. Tutti monocromatici tranne quello sul collo che rappresenta una specie di diamante. Ma la scritta sull’avambraccio di sinistra spicca più di tutti. Sembra risaltare tra le macchie della pelle dovute alla terribile malattia. “Vichinga Vichi”, in un pessimo corsivo e di un bluastro sbiadito  che denuncia una qualità per nulla eccellente.

Aveva fatto capolino, nel pronto soccorso, un freddo giorno di febbraio. Il centodiciotto era stato allertato dalla responsabile del centro di accoglienza presso il quale aveva trovato un letto da qualche giorno. Il braccio e la gamba non le muoveva più e le parole erano meno comprensibili del solito. Certo, neanche prima Vichi si esprimeva bene, colpa dell’assenza di gran parte dei denti e del fatto che era straniera, ma si faceva capire eccome. Quella mattina no. Anche lei avvertiva che era accaduto qualcosa di grave.

“Donna, quarantasei anni senza documenti, viene trasportata in pronto soccorso per emiplegia brachio-crurale sinistra non databile.  Parametri vitali nella norma, Cincinnati positivo, codice giallo”.

La valutazione di Valerio al triage era stata tanto fredda quanto perfetta e l’accesso in sala gialla avvenne dopo pochi minuti. “E’ fuori finestra”. Le parole uscirono di getto dalla bocca di Natja come a voler sottolineare la perdita dell’unica opportunità. Andava a puttane la possibilità di fare la trombolisi nel tentativo di liberare l’arteria cerebrale occlusa e recuperare il danno motorio. Il senso di frustrazione, si palesava con una frase dal sapore romantico che faceva riferimento al tempo trascorso dall’inizio dell’evento. Le linee guida erano chiare, passate quelle ore dall’insorgenza dei sintomi, il rischio emorragico era nettamente superiore alla possibilità di successo di sciogliere il trombo.

Ma la storia di Vichi era ben più complessa.

AIDS, diagnosi conclamata e non solo sieropositività. Fino a qualche mese prima andava con l’autobus all’ospedale di malattie infettive per fare i controlli e le terapie necessarie. La pandemia aveva complicato tutto, l’ospedale era stato trasformato in Covid e gli ambulatori chiusi. Anche tra i virus c’è chi vince e chi perde.

La strada era stata la sua casa fino alla malattia. Poi aveva trovato un letto in quel centro. L’AIDS le aveva tolto l’immunità e le aveva donato la priorità. Ma proprio ora che aveva trovato un tetto era “fuori finestra”. La vita è bizzara come i capelli di Vichi, esili di natura e scolpiti da sforbiciate improvvisate. Da allora nessuno la vuole. Vichi non esiste per il mondo dei diritti. In quanto senza fissa dimora non può andare nelle strutture di riabilitazione. Siccome ha bisogno della fisioterapia nessun centro di accoglienza la prende. Poi l’AIDS peggiora il tutto. Le lungodegenze rifiutano la richiesta di trasferimento perché, a dir loro, “non attrezzate a gestire i pazienti con AIDS” e le residenza per anziani non accettano persone che hanno meno di sessantacinque anni.

Gina impazzisce, ma non si arrende. “Embè fosse l’ultima cosa che faccio prima di andare in pensione tra un mese, io un posto glielo trovo”. E’ l’assistente sociale dell’ospedale. Con la naturale eleganza e bellezza dei suoi anni portati splendidamente, Gina è feroce con le carte e la burocrazia, e che non si arrenderà lui ne è certo.

L’altro avambraccio di Vichi ospita un tatuaggio con il nome di Fabri Fibra. “Mi piace assaje”, risponde alla domanda fatta solo con gli occhi dal medico curioso durante il giro. Quell’assaje è il segno di un’altra infezione fatta di inflessioni dialettali trasmesse a dallla sua nuova città. “Perché no piace a te Fabri Fibra?” Chiede di tutto punto al medico curioso, relegandolo all’angolo della risposta. “A me no ma…” “e Clementino? A me piace assaje pure Clementino, è forte lui dai…”, “beh si Clementino piace anche a me”. ”Azz tenevamo il primario rap e non lo sapevamo”, aggiunge sottovoce Gennaro l’operatore socio-sanitario dal giallo dei suoi baffi intrisi di nicotina e catrame.

Il tempo di finire il giro, organizzare gli esami da fare secondo le diverse priorità, ed i bicchierini di plastica, ripieni a metà con il caffè appena fatto da Gennaro, riuniscono il gruppo in una breve pausa. Appena un sorso e, preso da un’illuminazione, lui telefona alla sua amica Francesca, giornalista e molto conosciuta nell’ambito musicale. La richiesta è semplice, far sentire meno sola Vichi. Lei conosce cantanti ed attori grazie alla sua professione, hai visto mai?

Napoli ti sorprende per la rete. Ne ha discusso tante volte con il suo amico scrittore. I rapporti, tra le persone che hanno i piedi nel mare, hanno un peso specifico diverso. Come se Partenope tenesse uniti i suoi figli attraverso i lunghi e folti capelli.

Basta poco”, ripete al telefono, “magari un saluto” e dopo qualche ora arrivano il video dell’attore Ciro Giustiniani e della cantante Monica Sarnelli.

Vichi è felicissima. Chiama accanto a se Maurizio, il suo infermiere preferito, per vedere e condividere quei video. Sorride a gengive esposte. Monica Sarnelli le dedica la canzone che fa da sigla ad una famosa fiction da ben venticinque anni e che le ha portato fortuna con l’augurio che ne porti un po’ anche a Vichi, la vichinga.

Ah a proposito…”, chiede il medico curioso, “i vichinghi sono forti, quindi anche Vichi lo è”. “Si”, risponde certa e precisa, “i vichinghi sono forti, ma muoiono presto!

Il display del telefonino lascia andare il refrain della canzone di Monica, lasciando ammutoliti ed attoniti tutti nella stanza di ospedale che fa da casa a Vichi, “…se questa vita siamo noi, lascia le cose che non vuoi. E’ così poco il tempo per amare, e un posto al sole ancora ci sarà!





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