IL BLOG DI SIMEU

 

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Siamo a cavallo!

domenica, luglio 9th, 2023

di Angelo Farese

 

Quando il sipario del teatro si apre, viene quasi sempre preceduto da un applauso del pubblico; funge da incoraggiamento agli attori e fa salire l’adrenalina in circolo.

 

Un vecchio infermiere così soprannominava il triage, “‘o teatro”, per via di alcune sceneggiate da parte dell’utenza, per le famose “tarantelle” che succedono quotidianamente… Bruno diceva così: “ma che ne sanno ‘sti piscitielli ‘e cannuccia!

Per il Pronto Soccorso è diverso perchè quando si apre il tendone della camera calda non c’è un applauso, ma un clacson o una sirena del centodiciotto  che prima di giungere si annuncia con due colpi secchi. Spesso è una cosa seria, “’nu guaio” oppure altro, fatto sta che l’adrenalina fa effetto come vodka e red bull “ammiscate”.

 

È il 22 Giugno, turno di mattina… da poco sono passate le otto.

Vado al triage per salutare Roberto e Giovanni che già da un’ora e mezza sono in postazione ad accettare i primi zombi dell’alba ancora assonnati e doloranti.

Qualcuno stanco e deluso dice di essere stato già in fila il pomeriggio e parte della notte precedente ma che poi, stanco di aspettare, è andato a casa a riposare “vabbè torno domattina presto”, un trauma del dito.

 

Un clacson raggiunge le nostre sinapsi che ci mettono in allerta, lasciamo qualsiasi cosa, qualunque paziente in attesa al triage, tutte le attività si paralizzano come alla vista di uno tsunami in arrivo.

Il clacson suona ripetutamente, e più il suono è vicino più aumenta la tensione, la concentrazione, l’adrenalina in circolo.

Siamo pronti, aspettiamo.

Giunge un’auto sparata e le guardie, anche loro attente e sempre al nostro fianco, aprono immediatamente il tendone della camera calda per facilitarne l’accesso.

 

Che lo spettacolo abbia inizio!

 

Il motore dell’auto resta acceso, mentre il conducente ed il passeggero posteriore escono dal veicolo spalancando la porta anteriore destra: “aiutatelo, aiutatelo… poi vi spieghiamo…”. Ha il colorito violaceo  della morte, in particolare il collo e le orecchie.

 

E’ freddo, Dio quanto è freddo, ed è incosciente… uagliù ma è muort’!” Le urla e i cazzotti sull’auto come i Bottari in un concerto di Avitabile. Prendete la barella è in arrestoooo! Nel mentre inizio a massaggiare il torace, e poco dopo si precipitano Roberto e Giovanni con la barella del triage.

 

Per fortuna Giovanni è messo bene fisicamente, sembra Hulk vicino a me anche se è non verde, è  “’nu sarracino”. Lascio prendere a lui la parte superiore del paziente che è più pesante, io con tutto il mal di schiena, lo supporto prendendo le gambe e lo mettiamo in barella come un sacco di cemento da novanta chili.

 

Giuvà votta ‘a barella!” In un tutt’uno salto a cavallo sul paziente inanime manco fossi John Waine, un flashback vissuto con Marianna tempo fa.

La vidi saltare sul paziente senza esitazione come un’amazzone ma viene da Ariano Irpino, e a lei ho pensato come un prezioso suggerimento.

 

Mi rendo conto che il paziente ha avuto il rilascio degli sfinteri e di essere seduto sul suo piscio, ma sono dettagli, non badi a queste cose in certi casi, sembriamo animali in guerra. Riprendo a massaggiare quel cuore fermo attraversando il pronto soccorso come un cowboy del Far West ma senza sella e senza briglie.

Guardo negli occhi Giovanni che spinge la barella correndo verso il codice rosso quasi senza toccare con i piedi a terra e schivando gli ostacoli, erano le gambe del mio cavallo vincente. L’adrenalina in noi è alle stelle e siamo come in  trans, pensi solo all’ABC in emergenza, le priorità, salvare una vita.

Giuvà nun me fa carè”.

Non so se avete mai massaggiato un torace, ma è come se diventassi un tutt’uno anima e corpo con il paziente morto. Dai energia e pensiero, vuoi che quel cuore torni a battere, spingi perpendicolare con le braccia che si incrociano solo sul petto, e pensi contando “dai cazzo riprenditi!” Ernesto ha cinquantatrè anni, cinquantaquattro li compirà il venticinque  giugno, fra due giorni.

 

E’ vestito da lavoro, con le scarpe antinfortunistiche che rendono ancora più pesante il tutto. Gli accompagnatori mi dicono in un secondo momento che era lì in piedi, e all’improvviso e crollato a terra, soffre solo un po’ di ipertensione, dicono.

Come se qualcuno avesse spento l’interruttore.

 

E come lo diciamo alla moglie? Mi chiedono in lacrime i compagni.

 

Arriviamo in rosso come la Ferrari che in gara fa il pitstop. Chi svita il bullone chi smonta la ruota chi ha già quella di ricambio e chi già sta mettendo benzina.

Ernesto è sotto monitor ma sempre inanime, si continua con il massaggio toracico e adrenalina anche a lui. Alterniamo il massaggio continuo con Claudia, Giovanni e Michela, mentre Mariantonietta e Francesca sono ai farmaci.

Paola fa un emogas nella femorale, Cosimo da dietro dirige l’orchestra escludendo clinicamente le cause del decesso e facendo il punto della situazione ripetutamente come sa fare un bravo leader dell’emergenza urgenza. Alessandra (detta la cinese) libra nell’aria la sonda, tra petto ed ultrasuoni “è ‘nu chiuovo” dice, è fermo come un chiodo impiantato, insonando il cuore.

 

Continuiamo senza fermarci. Ernesto ha una ferita lacero contusa alla tempia.

Sarà caduto? L’hanno menato? Non possiamo saperlo, si decide per esclusione di effettuare la trombolisi. Il paziente ora è in fibrillazione ventricolare. Passano i minuti, otto fiale di adrenalina sparate nei tempi giusti, e cinque scariche di defibrillatore.

 

Il sudore gronda in codice rosso manco fossimo muratori con la “cardarella” e la cazzuola in mano in cantiere, a impastare il cemento sotto al sole.

Il pronto soccorso si ferma, Roberto fronteggia il triage da solo che continua a registrare nuovi utenti. Qualcuno dice basta ormai è andato, interrompiamo. I rianimatori lo intubano, continuiamo. La cinese allucca “e muovete che siamo uccisi dalla stanchezza, muovete”. E’ un attimo,  Ernesto ha un ritmo cardiaco spontaneo, che è di merda ma è pur sempre un ritmo, pensiamo.

 

Quel cuore ha ripreso a battere.

 

Fate del magnesio! Fatto!!

Ernesto pian piano sembra schiarire il colorito della pelle, non è più viola come prima. Stabile nei parametri viene trasferito con urgenza al Monaldi per effettuare una coronarografia, dal tracciato emerso dopo la fibrillazione ventricolare, esce fuori un cazzo d’infarto.

La vita riprende, in Ernesto e nel pronto soccorso.

 

Giungono notizie dall’altro presidio che aveva tre coronarie “appilate”. L’adrenalina in corpo come l’acqua santa fa il suo decorso fino a sciamare come un profumo giovane, un profumo fresco che ti dona la carica che annienta tutti i dolori, anche il mal di schiena.

 

La vita continua e fuori al triage la gente che prima era silenziosa, comincia di nuovo a lamentarsi per l’attesa, ma come diciamo noi riportando un pensiero di Seneca: lieve è il dolore che parla. Il grande dolore è muto”.

 

È il ventiquattro giugno e veniamo a sapere che Ernesto per ora respira spontaneamente. Ancora incosciente e sotto sedazione, ma vivo, e pare anche in finestra neurologica.

È il venticinque giugno, è il tuo compleanno Ernesto, l’Emergency Team del CTO ti fa gli auguri per una veloce e completa guarigione, ci vediamo poi al bar per un caffè.

 

Per ora stappiamo una bottiglia per festeggiare una vita salvata nella stanza del primario. Il tappo vola in alto accompagnato dal botto e dalla schiuma, in alto insieme ai nostri cuori, ma la bevuta è rimandata … codice rossooooooooooooooooooooo!!!

 

nella prima foto Giovanni Rosiello, emergency nurse e nella seconda Angelo Farese emergency nurse con un paziente

“Infermiere! Infermiere!”

lunedì, maggio 29th, 2023

di Anna Arnone

 

È questa la parola più pronunciata, urlata, sussurrata e ascoltata durante il giorno in quel tumulto di voci, allarmi, campanelli, rumori di passi, grida, silenzi.

 

Nella Medicina d’Urgenza dell’ospedale più grande del Mezzogiorno il tempo non ha misura e il giorno si confonde con la notte. In un continuo susseguirsi di incessanti turni dal momento in cui il paziente viene preso in carico nell’unità operativa fino alla sua dimissione.

 

Quando il paziente accede in questo nuovo confine si sente smarrito, disorientato, spesso non ha con sé un cellulare per parlare con i suoi cari, sta terribilmente scomodo su una barella che l’ha trasportato dal pronto soccorso, si sente solo, un peso.

 

Ed è qui che l’infermiere entra in scena, gli spiega dove si trova e quale trattamento dovrà fare, gli chiede di cos’ha bisogno; il care e il core diventano indissolubili, con un meccanismo innato e autentico. In altre circostanze non c’è tempo di parlare, bisogna fare presto, è necessario correre e tirare fuori il paziente dal vortice dell’emergenza: un arresto cardiaco improvviso allertato dai monitor appena posizionati, un’insufficienza respiratoria contenuta con la ventilazione non invasiva prontamente collocata attraverso una maschera facciale che non lascia spazi sul volto.

 

C’è fame d’aria e c’è fame di salvezza.

 

In questi ultimi tempi anche l’infermiere ha fame d’aria: deve proteggersi e deve proteggere, deve coprirsi e deve coprire naso e bocca.

Ma non basta.

Bisogna vestirsi interamente, lasciando scoperti gli occhi visibili solo attraverso una visiera. “C’è il Covid qui? Io voglio andare a casa! Ho paura!”

Lo smarrimento cresce e lascia posto all’angoscia.

“No signora, stia tranquilla, stiamo proteggendo noi e soprattutto voi!” è questa la frase più detta durante la giornata.

A volte non basta, bisogna ripeterlo più e più volte.

 

La Medicina d’Urgenza non è solo una Medicina d’Urgenza, ma è una porta di accesso dal mondo esterno, quasi diretta sul pronto soccorso, un tempo un lazzaretto sovraffollato di folle di parenti accanto ai propri cari, barelle vicinissime senza alcun distanziamento e ora solo un triste ricordo.

 

Quella porta accoglie da sempre come oggi tipologie diverse di pazienti verso i quali è richiesta una forte competenza infermieristica, eterogenea, complessa, efficace al fine di saper rispondere agli specifici bisogni dell’individuo.

 

Non si tratta solo di un ruolo ma una sfida continua con sé stessi e un lavoro di team numeroso, compatto e per questo vincente.

 

“L’UNICO MODO PER FARE UN OTTIMO LAVORO È AMARE QUELLO CHE FAI” – Steve Jobs

venerdì, aprile 28th, 2023

di Jessica Giancristofaro

 

Ho trentadue anni, lavoro in Emergenza – Urgenza da cinque anni e posso sicuramente dire di amare il mio lavoro.

Essere infermiera di Pronto Soccorso e 118 significa tenere sempre attive una serie di skills specifiche che ci permettono di trattare il paziente critico, ripristinare le funzioni vitali oppure supportarle quando necessario.

È un lavoro che amo, ma che richiede un impegno costante e una crescita continua.

La componente tecnica dell’assistenza infermieristica è molto forte in Area Critica, ma quello che rende affascinante questo mondo è senz’altro l’emozione che si prova quando riusciamo a salvare una vita.

La corsa contro il tempo che, come sappiamo è “muscolo”, ci spinge a fare del nostro meglio in ogni situazione.

Stare su un mezzo di soccorso del territorio, lavorando in collaborazione con i colleghi della Centrale Operativa che sono i primi a ricevere la richiesta di aiuto da parte dell’utenza, significa arrivare per primi su una scena che coinvolge una o più persone con stato di salute compromesso.

Possiamo trovarci davanti a un paziente traumatizzato in strada, a una persona con infarto del miocardio oppure a una persona con ictus in atto e spesso davanti abbiamo anche i familiari o altre persone che richiedono la nostra attenzione e che rendono ancora più complesso il nostro lavoro.

L’autocontrollo, il sangue freddo, l’intesa tra i componenti del team, sono fondamentali per svolgere un soccorso ottimale che mira a minimizzare il danno subito dalla persona.

 

Le competenze acquisite durante il percorso formativo che ogni infermiere svolge durante i primi mesi di lavoro ci permettono di affrontare qualsiasi situazione con attenzione e professionalità.

 

Inoltre, l’adesione a protocolli e algoritmi predefiniti e standardizzati permette di ridurre al minimo la percentuale di errore, che in emergenza è sempre dietro l’angolo, vista la rapidità e la tempestività con cui bisogna agire.

Rimanere sempre aggiornati sulle modifiche apportate grazie alle nuove evidenze scientifiche significa tenere sempre viva la voglia di migliorarsi, di crescere e di diventare professionisti esperti di una disciplina nobile che ci coinvolge a pieno e che allo stesso tempo ci dà la possibilità di incrociare la nostra strada con quella delle persone che incontriamo.

Inevitabilmente, inconsciamente, ogni paziente entrerà a far parte di noi e chissà se anche i nostri occhi, incorniciati dalla mascherina – che fa parte del nostro viso ormai da tempo – e il giallo fosforescente della nostra divisa, entreranno nei loro ricordi, di coloro che abbiamo toccato, soccorso e consolato durante gli interventi che ci hanno coinvolto … chissà?!?

 

dall’ Ospedale di Bazzano – AUSL Bologna

 

di G.C.

Lavoro in emergenza urgenza da circa 15 anni, prima in pronto soccorso e poi negli ultimi 10 anni in emergenza territoriale.

La mia passione è nata ai tempi dell’università e da quel momento ho concentrato tutte le mie energie per raggiungere il mio obiettivo professionale.

 

Intraprenderei di nuovo questo percorso perché nonostante i turni massacranti, i rientri comunicati all’ultimo minuto, i pazienti difficili, l’emergenza urgenza è stata una scelta fatta con dedizione.

 

Sono grato per aver avuto questa possibilità, prima appannaggio di pochi, sin da neolaureato, perché oggi molti colleghi si allontanano da questa realtà a causa delle difficoltà che il sistema sta riscontrando.

In questi anni ho avuto la possibilità e la volontà di crescere professionalmente e personalmente grazie al costante impegno e al quotidiano confronto con le diverse figure professionali che gravitano attorno al nostro strano, ma fantastico mondo. Guardando al passato non cambierei nulla del mio percorso, mentre guardando al futuro mi pongo un obiettivo di crescita costante personale e della professione.

 

dall’ Emergenza Territoriale Toscana Centro

Un mondo a parte

giovedì, marzo 30th, 2023

di Lisa Fantauzzi                                                                                  

Quando ho deciso di iscrivermi al Corso di Laurea in Infermieristica ho da subito capito che mi sarebbe piaciuto essere un’infermiera di emergenza.

Il volontariato nella Pubblica Assistenza della mia città ed il tirocinio mi hanno sicuramente aperto gli occhi, ma man mano che gli studi proseguivano capivo sempre più che il mio posto era quello.

Ovviamente mi rendevo conto che per lavorare in emergenza occorrevano capacità e conoscenze molto specifiche ma, per fortuna, tenacia e determinazione non mi hanno mai abbandonata.

 

Arriva la laurea e dopo solo tre mesi eccomi in un ospedale di periferia, tra i corridoi del Reparto di Chirurgia dove non c’era turno in cui i colleghi non parlavano male del Pronto Soccorso.

Ricoveri che secondo loro si potevano evitare, fatti salire in reparto al cambio turno, magari con un ECG non refertato …

E più li sentivo lamentarsi e più cresceva la voglia di far parte di quel mondo e, dopo un anno, al secondo incarico, mi viene proposto il Pronto Soccorso dell’Ospedale della mia città, il terzo dell’Umbria per numero di accessi.

Un misto tra gioia e terrore per non essere all’altezza, ma dopo un attimo di esitazione è stato un si, un si durato 12 anni.

 

Da subito mi sono resa conto che il Pronto Soccorso ti dà tanto in competenze, professionalità e rapporti umani ma, allo stesso tempo, ti toglie tanto perchè da ogni turno ne esci provato sia psicologicamente che fisicamente.

Il Pronto Soccorso è così, se lo scegli devi essere consapevole che sarà dura, che devi essere pronto a tutto; anche quando sembra tutto tranquillo all’improvviso può scatenarsi il caos assoluto.

 

Io lo definisco “un mondo a parte proprio perché all’interno dell’ospedale non esiste un posto uguale a cominciare dal rapporto speciale che c’è con i colleghi infermieri e con i medici; qualcosa che si instaura solo nei dipartimenti di emergenza e che ti dà l’energia per affrontare ogni nuovo turno.

Con loro ci si può concedere uno sfogo, ci si può confrontare ma soprattutto contare; il più delle volte basta uno sguardo per capirsi, per cambiare atteggiamento, per cambiare strategia; se uno di noi è in difficoltà la “squadra” è sempre pronta a dare tutto il supporto possibile.

 

Ad inizio turno non sai mai cosa ti aspetta, a volte non fai nemmeno in tempo a mettere la divisa, a prendere le consegne, che c’è già qualcuno che ti chiede aiuto.

Il paziente di Pronto Soccorso, indipendentemente dal codice di gravità, esprime un bisogno di salute ed è spaventato, non sa bene quale sarà il suo percorso e cosa dovrà affrontare e, soprattutto, ha bisogno di essere rassicurato.

Ho imparato che a volte stringere una mano è metà della terapia, fermarmi un minuto a scambiare una parola può cambiare lo stato d’animo di quel paziente.

Una frase semplice come “sono qui con te per aiutarti” lo fa sentire al sicuro.

Soprattutto in questo tempo dove tutti sono con il dito puntato contro la Sanità Pubblica, dobbiamo essere ancora più abili nella comunicazione, trasmettere sicurezza ed essere attenti osservatori perché ogni paziente è portatore di una sua storia, di esperienze passate che noi non conosciamo.

 

Siamo noi professionisti a fare la differenza sulla qualità del servizio.

 

Ci sono state storie che ancora oggi porto nel cuore, mi hanno colpito e fatto scendere anche qualche lacrima, non mi vergogno a dirlo, ma alla fine delle giornate di lavoro sono sempre tornata a casa con la consapevolezza di aver dato il mio massimo.

Dopo 12 anni di ritmi frenetici, di tanta pazienza, di studio per mantenere adeguati livelli di conoscenza e competenza, si sono aperti nuovi scenari per me ma non vi nascondo che il “mio Pronto Soccorso” mi manca tanto.

Fiera di essere stata un’infermiera di pronto soccorso, rifarei la stessa scelta altre mille volte.

 

Orgogliosamente Infermiera DEA H San Giovanni Battista – Foligno (PG)

 

Il meccanico del tempo. Favola autobiografica?

venerdì, febbraio 17th, 2023

di Mario Rugna

C’era una volta, in un tempo lontano, un ragazzo che aveva tanta voglia di lavorare e tanta  fretta d’imparare.

Invero non era lo studio che lo intimoriva, al contrario, era curioso, divorava libri e riviste fin da quando era bambino, si informava su tutto ed ascoltava avido i racconti degli anziani in piazza.

 

Quello che invece lo spaventava era il dover andare a bottega per imparare un mestiere.

Lui nel chiuso di quattro mura, con un “mastro” che lo comandava a bacchetta facendogli fare i lavori più umili per poi ripagarlo con due soldi, proprio non ci voleva stare.

 

Invero ci aveva provato a fare il garzone, ed anche più volte e con tanti maestri delle arti e dei mestieri più disparati.

Falegname, meccanico, idraulico, giardiniere, anche dall’amico di famiglia che voleva fargli fare il soldato. Per un po’ andava tutto bene, veniva apprezzato da padroni ed aiutanti dovunque andasse, ma dopo poco, niente da fare.

Sempre la stessa storia, si annoiava e scappava.

 

Una gran perdita di TEMPO insomma.

Era ora di rimboccarsi le maniche e darsi da fare.

Ma COSA fare!?

 

In effetti sapeva fare un po’ di tutto, ed anche abbastanza bene, ma onestamente niente così ad arte da aprire una bottega tutta sua.

E poi di stare rinchiuso in una “gabbia” tutto il giorno proprio non gli andava.

E se invece di aprire bottega pensò, “andassi per strada ed a casa della gente ad accomodare tutto e subito senza far aspettare ore, giorni o mesi per una riparazione?

IL TEMPO.

Per la roba da sistemare era importante, perché le cose rotte e non accomodate dopo un po’ sono da buttare via.

E più sono rotte più IL TEMPO è importante.

 

Allora comprò un carretto da uno straccivendolo e lo attrezzò con arnesi essenziali, di fortuna, ma ancora efficienti, ed iniziò a girare per le strade della città urlando:

Accomodo tutto a regola d’arte, a casa vostra subito e senza grossa spesa”.

 

Le persone incuriosite iniziarono a fermarlo per affidargli piccole riparazioni; chi per la porta che cigolava, chi per la finestra che aveva gli spifferi, chi per la seggiola con un “zampa” rotta.

E lui una soluzione la trovava per tutto dai piccoli problemi a quelli più seri.

Dalle cose quasi da buttare che miracolosamente riusciva a “salvare” a quelle che in fondo non avevano tanto bisogno di essere riparate. Certo le sue riparazioni d’EMERGENZA non erano di gran fattura ma funzionavano bene, a volte anche meglio di quelle degli artigiani più famosi.

E la gente era contenta, perché vedeva in lui cortesia, impegno e passione, anche quelle volte che alla fine doveva dire: mi spiace non c’è niente da fare.

 

SI, per quel mestiere ci era proprio portato.

 

E poi a quegli oggetti in fondo ci si era affezionato veramente, nuovi o vecchi che fossero, per tutti trovava un motivo d’interesse ed un moto di soddisfazione quando alla fine riusciva ad accomodarli.

Certo non era facile tenere il passo coi tempi perché più girava e più incontrava cose nuove da riparare ed il progresso poi portava sempre nuovi “aggeggi” da accomodare.

 

Ma lui non si scoraggiava e studiava, studiava e lavorava, tutti i giorni.

 

Aveva imparato a capire meglio la gente delle diverse specie, abbienti e meno abbienti, istruiti e non. Aveva imparato la cortesia e la pazienza oltre che la semplice perizia tecnica.

Perché quel mestiere così faticoso, che non conosceva né giorni né notti né feriali né festivi era diventato la sua passione.

 

Ed iniziò ad andare in giro per il mondo, ad insegnare ed a trasmettere il suo entusiasmo ai giovani che cominciavano oramai numerosi a fare il suo lavoro.

Amava spiegare ai suoi allievi che più che diventare bravi “tecnici” dovevano essere delle brave persone ed amare quello che facevano.

Ognuno di quegli oggetti che riparavano andava rispettato, non importa se nuovo o vecchio e consunto, perché aveva in sè una storia, a modo suo unica ed interessante ed era comunque speciale per coloro che lo amavano.

 

Lo chiamavano il MECCANICO DEL TEMPO. Qualcuno pensa perché era sempre disponibile a tutte le ora del giorno e della notte ma a lui piaceva pensare che fosse perché riusciva, col sorriso, a riportare indietro l’orologio della vita delle cose. 

 

Dedicata a tutti medici d’urgenza, di strada e non.

Anche a quelli che come me hanno cominciato un po’ per sbaglio ma col TEMPO hanno capito di aver fatto il MIGLIOR SBAGLIO della loro vita.

Essere parte della grande famiglia dei DEA

lunedì, gennaio 30th, 2023

di Domenica Vangeli

 

Dicembre 2018, il telefono suona.

Sul display un numero fisso: Bologna.

 

Dal 2011 contratti a termine e poi in libera professione. Avevo fatto vari concorsi con tanto di preselezioni tra l’Emilia e la Toscana. Ai tempi la chiamata dalle graduatorie non arrivava mai e non l’aspettavo di certo allora.

 

“Dott.ssa Vangeli?!

Ufficio del personale dell’AUSL di Bologna.

È stata assegnata al dipartimento di emergenza urgenza, pronto soccorso, hub dell’Ospedale Maggiore”.

 

WOW! L’emergenza urgenza non l’avevo mai vissuta se non durante il tirocinio.

Ne avevo conservato il ricordo ma più che altro portavo con me l’esempio dei colleghi incontrati allora, in ogni emergenza vissuta ed affrontata in lungo degenza e post acuti.

 

I pazienti che avevo assistito fino a quel giorno avevano già una diagnosi.

Erano stabili, sapevano cosa avevano superato, sapevano perché dovevano affrontare il ricovero. Io, cosi come i miei colleghi, potevo interloquire con loro: avevamo tempo e modo di instaurare un rapporto.

 

Dopo quella telefonata, sarei entrata a far parte del mondo dell’assistenza infermieristica che precede il ricovero dove il cittadino si trova a chiedere aiuto, spesso purtroppo senza conoscerne la causa né il perché.

Alle volte capita altrove rispetto casa: al mare, in montagna, in vacanza, nel praticare un hobby ed essere nella condizione di chiedere assistenza è l’ultima cosa che può immaginare. E con lui, anche i suoi caregiver e/o la famiglia tutta.

 

Le domande che mi ponevo erano molteplici:

sarò in grado di supportare e sopportare emotivamente i pazienti in quella fase dell’assistenza?!?

Sarò in grado di essere precisa e veloce?!?

Di essere un passo avanti cosi come spesso serve?!?

Di fatto non ci credevo.

Dopo 30 giorni avrei iniziato a fare parte anch’io del DEA lavorando fianco a fianco con professionisti di cui avevo sempre nutrito grande stima.

 

Arrivata a Bologna, prendo finalmente atto che a tutti gli effetti facevo parte anche io della grande famiglia del DEA. Una famiglia sì.

Perché come in essa ognuno ha un suo specifico ruolo.

Con la propria professionalità e le proprie skills ciascuno contribuisce a mantenere quello speciale equilibrio affinché l’assistenza erogata superi quella richiesta, nonostante le circostanze e le condizioni esterne che troppo spesso interferiscono con le prestazioni.

 

È un meccanismo perfetto che si muove ad unisono.

 

Chi ne fa parte gioca un ruolo fondamentale, perché il paziente deve farcela sempre e le sue funzioni vitali devono essere conservate al meglio.

Tutti i i componenti, definiti “attori della scena”, sono ugualmente importanti.

Dal lavoro di ognuno dipendente quello dell’altro.

 

Il collega della CCO che riceve la chiamata da una conversazione deve decidere quale equipe sia più idonea al trattamento del cittadino bisognoso di aiuto.

L’equipe che lo raggiunge per prima – sia essa ambulanza o auto medica – a sua volta definisce il percorso e la destinazione finale migliore, affinché le cure di cui necessita vengano erogate in tempi e modi consoni.

E poi l’equipe che riceve la persona nella mia realtà: l’HUB, uno spazio esiguo, pieno di monitor, fili, farmaci, device di ogni tipo e colleghi di ogni categoria.

 

E’ particolare il silenzio che si crea nei minuti di attesa a “riempire” il tempo stimato di arrivo. Ci si prepara!

 

Obbiettivo del team prendere in carico, stabilizzare e trattare il cittadino – ormai diventato nostro paziente – che necessità di una rapida diagnosi corretta e del relativo trattamento.

 

Tutti, dico tutti, si muovono armoniosamente sulla stessa melodia affinché il paziente sia stabilizzato, le sue funzioni vitali siano sotto controllo e che da lì in poi possa intraprendere il migliore percorso di cura possibile.

 

Non scordiamoci di un elemento importante con il quale ci confrontiamo: il tempo.

Il tempo nel DEA ha un ruolo chiave.

È come un collega aggiuntivo con cui ci troviamo a lavorare. Non sempre è simpatico ed empatico, non sempre ci è amico. Ma nonostante tutto è il primo da includere nel gruppo, da tenere in considerazione, da valutare, importante tanto quanto le reali condizioni del paziente.

Ed è spesso l’antagonista con cui facciamo i conti per poter salvare una vita.

 

 

Immagine di repertorio non riferita al DEA descritto.

Credits foto @FrancescaMangiatordi.

REFLUSSO DI COSCIENZA

sabato, dicembre 17th, 2022

di Un MEU Qualunque

 

*biip*

La timbratrice segna 19:56, sono in ritardo.

Stasera ho mangiato poco e velocemente.

Vabbè.

Questa divisa comincia a puzzare, non ho il ricambio, che palle.

C’è un brusio in lontananza.

Temo che la sala d’attesa sia piena; 25 in totale, dice lo schermo. Di cui 3 rossi, come i capelli di Paola.

Mi dà le consegne, “pensavo peggio” dice – letteralmente 19 persone.

Vabbè, solito disagio.

“Ma sono tutti sistemati”, aggiunge, ma le si vuole bene comunque.

Sono in ambulatorio con Mass e mi rendo conto di quanto io sia fortunato ad avere un infermiere scattante.

Chiamo, visito, chiedo, concludo and repeat.

Sono le 22:10 e tutto scorre, in qualche modo.

 

*driiiiiiin*

“Arriva un rosso cardiaco, uno STEMI, già allertato il cardiologo” ok, che te devo dì, we are ready.

C’è tanto rumore in questo posto.

Il collega di stasera, Luca, è simpatico, non si lamenta mai, è collaborativo, lavora tanto.

“Dopo ci facciamo un caffè, Mattì” ma per forza dico io, qua è ancora lunga la notte.

Polmonite, calcoli renali, pancreatite acuta da colelitiasi – tante storie, tante vite su un barella.

Di già 00:35.

Inizia a diminuire la coda, iniziano a diminuire le forze.

Caffè, è ora.

 

*tump tump, tump – toc toc*

Col suo solito passo pesante arriva Piero, 57 anni, un passato da muratore, un amore sregolato per il Gin.

Un nostro abitué, chiaramente.

Ma stavolta è più strano del solito, “ho un dolore forte e improvviso, come una trave che BAM trapassa la schiena, mi fa male dottò”.

Sono solo le 2:40 e la situazione non mi piace.

Ne parlo con Luca, “Piero non si è mai controllato a fondo, non ha alito alcolico, l’alcolemia è negativa, attendo gli esami”, “fammi sapere Mattì”.

Nel mentre un ragazzo con distorsione di caviglia mi racconta delle sue imprese a calcetto, un gol clamoroso dice, la scivolata un po’ meno aggiungo – e la fila si svuota.

Le 3:45, vabbè, ho fame.

Solito disagio.

C’è tanto rumore però, tutto nella mia testa.

Piero ha un dimero altissimo, mi serve una TC con contrasto.

Sta male, troppo.

Piero comunque scherza sempre, ma nei suoi occhi corvini brilla il brivido del terrore notturno.

“Senti Luca, io temo una dissecazione, la radice aortica mi pare larghetta, quel versamento pericardico non mi piace, aspetto che sia pronto il radiologo”.

“Eccomi sono pronto, fallo venire con l’infermiere ” – passano 2 minuti, la diagnosi è implacabile – Stanford A.

 

*beep*

Mi sfugge tra i denti un’imprecazione necessaria, grazie a Dio non mi ha visto nessuno, grazie a Dio non mi ha sentito nessuno.

Piero torna in sala, mi vede al telefono, lo fisso negli occhi, il suo sguardo è sempre più assente – ha sonno, è debole.

Sono le 5:00 e il cardiochirurgo mi fa storie.

Le solite storie, il solito disagio.

Lo stomaco inizia a bruciare, dannato caffè.

Piero inizia ad essere poco stabile, ma regge, è la tempra di tanti anni difficili.

“Senti, prepara la sala ché ti mando Piero”.

Piero mi sorride, “grazie dottò”, “sei una roccia ” gli dico.

C’è sempre tanto rumore, persino in questo raro momento di silenzio (assordante).

Luca mi dice di riposare un attimo, sono le 6:30 e devo ancora far pipì.

Luca ha sempre la parola giusta, non so come faccia.

Appoggio la nuca contro il muro, mi levo la dannata mascherina, espiro.

Piero è tanto solo, Piero mi preoccupa, dovrebbe riallacciare con suo figlio – ma non ha voluto che gli dicessi nulla, ché “non voglio essere un peso per lui”.

Spero che cambi idea.

 

*Vrooom vrooom*

Tante auto si avvicinano, il turno sta finendo.

Ogni notte finisce – e va bene così, pur rimanendo legato a questo gomitolo di storie.

È la mia libertà, mi sento a mio agio in questo disagio.

Sono solo un MEU qualunque, d’altronde.

 

dalla Sum_School SIMEU 2022

P.A. Buonaccorsi, P.Canepa, A.P. D’Ambrosio, S. Di Gregorio, E. Di Pietro, F. Farolfi, A. Filipponi, A. Foci, G. Gabassi, A. Monti, D. Padula, F. Russo, M. Scarponi, M. Sperandio, I. Trapin, C.I. Trotta, M. Valenzano, P.I. Virdis

 

 

NON DOVRA’ MAI PIU’ SUCCEDERE

martedì, settembre 13th, 2022

di L.R.

 

 

Ti hanno tolto il tempo.

Il tempo che serve a pensare, a realizzare che siamo in un tunnel.

Non ti permettono di fermarti e vai avanti di seguito con mattine, pomeriggi, notti, notti e ancora notti e poi turni lunghi festivi e superfestivi.

Non esistono per te i sabati e le domeniche.

Non esiste nulla se non augurarti che tutta la stanchezza che hai – accumulata in mesi e mesi di continuo lavoro – non ti faccia sbagliare.

Si, perchè è forte la consapevolezza che siamo Noi e pochi altri che, in ogni secondo della nostra professione, potremmo fare la differenza: essere artefici della vita o della morte dei nostri pazienti.

Ogni secondo …

 

Non dovrà mai più succedere che “altri” decidano sulle nostre spalle come e quanto dobbiamo lavorare facendo il conto sugli accessi e i codici e non sui tre anni di turni massacranti che NOI, i pochi rimasti, ci siamo accollati.

Non dovrà mai più succedere che: “i medici MEU non ci sono” … “è colpa vostra perchè volete fare tutto!”… non dovrà mai più succedere che ti dicano “noi i concorsi li abbiamo fatti ma non si presenta nessuno”.

Piuttosto, dico io, invece di fare il copia ed incolla dei Bandi si pensi ad allargare le equipollenze e a sanare chi lavora in emergenza da 20 anni ma non ha potuto entrare in specialità!

Alcune soluzioni migliorative ci sarebbero, se si volessero cercare!

 

Non dovrà più succedere che i tuoi superiori (Direzioni Sanitarie e Strategiche) ti costringano a lavorare con ancora meno unità del solito in questo mese di Agosto, senza “turbare i paradisi di Autoconvenzione in Ospedali senza PS” e invitano proprio te – che sei rimasta con 6 unitá in MeCAU  – a ridurre gli aiuti in Autoconvenzione!

 

Non dovrà mai più succedere, ma intanto succede ed è successo a Noi!

 

Ho continuato a combattere per mesi ma non mi hanno creduta, anzi hanno sindacato anche sulle mie ferie sempre equamente distribuite e mai lunghe … sebbene un diritto … ma “con sei colleghi è difficile completare una turnistica adeguata!”

Ho paura, tanta paura in questi giorni per la mia salute e per quella dei miei colleghi, anche più anziani di me!!

Siamo soli e la nostra disperazione per gli altri è solo fastidio e nulla più!

 

Dobbiamo essere protetti da vere leggi che facciano tremare chi pensa che: “vabbè tanto loro sono abituati ad arrangiarsi, un turno in più un turno in meno cos’è??”

 

Dobbiamo avere riconosciuto il diritto di riposo e anche il tempo per aggiornarci perché, sia gli uni che l’altro, sono importanti per la qualità e la responsabilità del lavoro che facciamo!

 

Dobbiamo essere i più rispettati nei nostri Ospedali ma invece siamo sempre i più criticati, massacrati, i più “fastidiosi” solo perchè chiediamo percorsi, direttive, aiuti che purtroppo rimangono sempre e solo sulla carta!

 

Dobbiamo lottare ed esigere i nostri diritti altrimenti i giovani specialisti non crederanno mai alle nostre parole quando diciamo che il nostro è (o era?) “il lavoro più bello del mondo!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Foto archivio SIMEU, autore Francesca Mangiatordi

A volte pur cercando di vivere la propria Leggenda Personale, siamo sul punto di cadere

mercoledì, agosto 31st, 2022

di Maria Luisa Ralli

Quando ho scelto di fare la specialità in Medicina d’Emergenza Urgenza avevo da poco iniziato il quarto anno di medicina e per preparare uno degli esami più difficili e complessi del mio percorso avevo iniziato ingenuamente a frequentare il Pronto Soccorso.

Ogni giorno c’era qualcosa da imparare, potevi metterti in gioco e in discussione animato da un’insaziabile curiosità di conoscere e aiutare l’altro. Quando mi sono iscritta al concorso di specialità non ho avuto dubbi:

“la mia specialità sarebbe stata il pronto soccorso: tutti i mali dell’uomo, i mali di tutti gli uomini, come dire tutte le specialità” (Daniel Pennac).

 

Mi sono specializzata a Novembre 2021 e vi posso garantire che la specializzazione è stata davvero un’avventura esperienziale stupenda.

Il mio entusiasmo ha subito una battuta d’arresto entrando nel mondo del lavoro dove mi sono scontrata con i problemi che affliggono il sistema d’emergenza urgenza.

 

Ho provato a immaginare questi problemi come molteplici “Lestrigoni e Ciclopi”, così chiamati gli ostacoli incontrati da Ulisse nel suo viaggio verso Itaca nella celebre poesia omonima di Kavafis.

Ho cercato di seguire i consigli del poeta per superarli:

“I Lestrigoni e i Ciclopi o la furia di Nettuno non temere, non sarà questo il genere di incontri se il pensiero resta alto e un sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo. In Ciclopi e Lestrigoni, no certo, nè nell’irato Nettuno incapperai se non li porti dentro se l’anima non te li mette contro.”

 

Difficile purtroppo però mantenere il pensiero alto e sentimento fermo se si considera la grave crisi in cui si trova il sistema emergenza urgenza e il sistema sanitario pubblico.

Purtroppo nell’incontro con questi ostacoli ho dubitato della mia scelta e ho dimenticato a volte l’eccitazione nell’incontro con il paziente, il paziente indifferenziato e critico, l’eccitazione dei “15 minuti più belli di ogni specialità” (Joe Lex).

 

Recentemente mi sono ritrovata tra le mani l’Alchimista di Paulo Coelho.

Mentre leggevo ho avuto la sensazione di essere il protagonista, Santiago, e che l’alchimista parlasse proprio a me:

“Perché parlate proprio a me?”

“Perché, pur cercando di vivere la tua Leggenda Personale, sei sul punto di cadere.”

“E voi intervenite quando ciò accade?”

“[…] Talvolta mi manifesto sotto forma di una via d’uscita, o di una buona idea. Talaltra, sovente in un momento cruciale, mi limito a aiutare determinate azioni. […]”

Che cosa è la Leggenda Personale?

[…] la Leggenda Personale. […] è quello che hai sempre desiderato fare.

Tutti, all’inizio della gioventù, sanno qual è la propria Leggenda Personale. In quel periodo della vita tutto è chiaro, tutto è possibile, e gli uomini non hanno paura di sognare e di desiderare tutto quello che vorrebbero veder fare nella vita. Ma poi, a mano a mano che il tempo passa, una misteriosa forza comincia a tentare di dimostrare come sia impossibile realizzare la Leggenda Personale. […] Sono le forze che sembrano negative, ma che in realtà ti insegnano a realizzare la tua Leggenda Personale. Preparano il tuo spirito e la tua volontà. Perché esiste una grande verità su questo pianeta: chiunque tu sia o qualunque cosa tu faccia, quando desideri una cosa con volontà, è perché questo desiderio è nato nell’anima dell’Universo. Quella cosa rappresenta la tua missione sulla terra. […] Realizzare la propria Leggenda Personale è il solo dovere degli uomini. Tutto è una sola cosa. E quando desideri qualcosa, tutto l’Universo cospira affinché tu realizzi il tuo desiderio”.

 

L’alchimista spiega a Santiago che per realizzare e comprendere la propria leggenda personale dovrà ascoltare e seguire i segni che incontrerà nel suo viaggio.

Nonostante le disfunzioni del sistema in questi mesi ci sono stati segni che mi hanno fatto capire che mi trovavo nella strada giusta: lavorare in una squadra di medici e infermieri con cui fare la differenza per la salute dell’altro, il paziente, imparare a lottare sia per la vita che per la morte: credo che non dimenticherò mai la mia prima rianimazione pediatrica, sento ancora l’adrenalina alla ricomparsa del ritmo cardiaco così come accompagnare un giovane malato terminale nel suo ultimo viaggio insieme ai familiari.

 

Ultimamente mi sono imposta di essere più attenta ad ascoltare i segni ma sento che non mi basta.

Per contrastare le forze negative c’è bisogno di una riforma del sistema d’emergenza urgenza, riforma che inevitabilmente si estenderà all’intero sistema sanitario pubblico.

Il prossimo 25 settembre potrebbe essere l’occasione per farlo.

 

Se il Pronto Soccorso cura “tutti i mali dell’uomo, i mali di tutti gli uomini” adesso più che mai il Pronto Soccorso, il sistema d’emergenza urgenza hanno bisogno di essere curati dagli uomini.

 

 

Lavorare in emergenza urgenza spesso ti frega.

domenica, giugno 5th, 2022

di Giorgia Cammarata

 

Potrà sembrare strano, ma ci si ritrova a lavorare in ambito dell’emergenza-urgenza per svariati motivi. Ad alcuni sarà capitato dopo aver visto una delle tante serie tv, ad altri per famigliari o conoscenti operanti già nello stesso settore, qualcuno dopo un tirocinio durante il corso di studi, oppure semplicemente per caso perché consapevoli che trovarsi in prima linea ad aiutare il prossimo è qualcosa che spesso ti porta ad una condizione di appagamento e di grande benessere.

Indubbiamente è una scelta che può piacere o non piacere, ma se piace, molte volte ti porta ad una condizione irrinunciabile.

Tanti potrebbero essere i motivi per non farsela piacere: turni massacranti e senza soste, aggressioni verbali, fisiche e anche psicologiche. Poi situazioni drammatiche davanti al finevita, condizioni di competizione professionale e, di non minor importanza, una remunerazione assolutamente inadeguata.

 

Eppure se piace, basta una sola e ben riuscita rianimazione per farti capire quanto è particolare e travolgente lavorare con pazienti estremamente critici.

Mi sono chiesta più volte se lavorare in emergenza è una scelta o è l’emergenza che sceglie te. Ti pone davanti a continue sfide, ti porta a ripudiarla in continuazione, ti sfinisce, ti annoia, ma poi si sa che è difficile riuscire a lavorare in un contesto diverso.

 

Lavorare in emergenza significa spesso rimanere fregati.

 

Fregati dal tempo, che inesorabile passa e scandisce tutto. Dal momento in cui timbri e sai che possono succedere tante cose o niente, al fatto che esso stesso sarà il tuo nemico più grande contro cui dovrai lottare. La sconfitta non è prevista, o quasi, ma è quando avviene che forse restano i segni peggiori. Quei segni che ti portano metterti in discussione facendoti sentire terribilmente impotente.

Fregati nel cuore: per le forti scariche di adrenalina ogni volta che ti ritrovi in una situazione critica che, anche col passare del tempo, sono sempre le stesse. Poi l’affetto ti lega ai colleghi con cui condividi le battaglie di ogni turno.

Fregati nella mente: più sai e più vorresti sapere e non smettere mai di imparare, aggiornarsi, cambiare piano improvvisamente. Mente che non saprà più stare senza un algoritmo. Poi interviene il grande desiderio di conoscenza e di imparare. Imparare che ogni emergenza non è mai uguale a un’altra; imparare che e è solo la condivisione della tua serenità che può dar sollievo ad un paziente spaventato; imparare dal collega che ha più esperienza di te e ne ha viste tante più di te; imparare quanto è fondamentale il gioco di squadra, ma in particolare imparare a valorizzare la sacralità della vita per tutte le volte che hai lottato tanto per mantenerla ed è andata male.

 

Lavorare nell’emergenza significa anche lottare per farsi valere, per far capire quanto è difficile, dinamico, instabile e precario il filo che al giorno d’oggi ci tiene legati ad essa e che troppo spesso si tende a svalorizzarla.

Lottare per far capire quanto possa essere gratificante lavorare in reparti di emergenza, ma che non può più bastare che lo sia solo a livello personale.

Lavorare in emergenza è una battaglia quotidiana alla vita che imperterrita, come la vita stessa, ti pone davanti ad infinite sfide.

 

 





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