Specialisti in pionierismo
maggio 15th, 2023
di Alessandro Salzmann
di Alessandro Salzmann
di Jessica Giancristofaro
Ho trentadue anni, lavoro in Emergenza – Urgenza da cinque anni e posso sicuramente dire di amare il mio lavoro.
Essere infermiera di Pronto Soccorso e 118 significa tenere sempre attive una serie di skills specifiche che ci permettono di trattare il paziente critico, ripristinare le funzioni vitali oppure supportarle quando necessario.
È un lavoro che amo, ma che richiede un impegno costante e una crescita continua.
La componente tecnica dell’assistenza infermieristica è molto forte in Area Critica, ma quello che rende affascinante questo mondo è senz’altro l’emozione che si prova quando riusciamo a salvare una vita.
La corsa contro il tempo che, come sappiamo è “muscolo”, ci spinge a fare del nostro meglio in ogni situazione.
Stare su un mezzo di soccorso del territorio, lavorando in collaborazione con i colleghi della Centrale Operativa che sono i primi a ricevere la richiesta di aiuto da parte dell’utenza, significa arrivare per primi su una scena che coinvolge una o più persone con stato di salute compromesso.
Possiamo trovarci davanti a un paziente traumatizzato in strada, a una persona con infarto del miocardio oppure a una persona con ictus in atto e spesso davanti abbiamo anche i familiari o altre persone che richiedono la nostra attenzione e che rendono ancora più complesso il nostro lavoro.
L’autocontrollo, il sangue freddo, l’intesa tra i componenti del team, sono fondamentali per svolgere un soccorso ottimale che mira a minimizzare il danno subito dalla persona.
Le competenze acquisite durante il percorso formativo che ogni infermiere svolge durante i primi mesi di lavoro ci permettono di affrontare qualsiasi situazione con attenzione e professionalità.
Inoltre, l’adesione a protocolli e algoritmi predefiniti e standardizzati permette di ridurre al minimo la percentuale di errore, che in emergenza è sempre dietro l’angolo, vista la rapidità e la tempestività con cui bisogna agire.
Rimanere sempre aggiornati sulle modifiche apportate grazie alle nuove evidenze scientifiche significa tenere sempre viva la voglia di migliorarsi, di crescere e di diventare professionisti esperti di una disciplina nobile che ci coinvolge a pieno e che allo stesso tempo ci dà la possibilità di incrociare la nostra strada con quella delle persone che incontriamo.
Inevitabilmente, inconsciamente, ogni paziente entrerà a far parte di noi e chissà se anche i nostri occhi, incorniciati dalla mascherina – che fa parte del nostro viso ormai da tempo – e il giallo fosforescente della nostra divisa, entreranno nei loro ricordi, di coloro che abbiamo toccato, soccorso e consolato durante gli interventi che ci hanno coinvolto … chissà?!?
dall’ Ospedale di Bazzano – AUSL Bologna
di G.C.
Lavoro in emergenza urgenza da circa 15 anni, prima in pronto soccorso e poi negli ultimi 10 anni in emergenza territoriale.
La mia passione è nata ai tempi dell’università e da quel momento ho concentrato tutte le mie energie per raggiungere il mio obiettivo professionale.
Intraprenderei di nuovo questo percorso perché nonostante i turni massacranti, i rientri comunicati all’ultimo minuto, i pazienti difficili, l’emergenza urgenza è stata una scelta fatta con dedizione.
Sono grato per aver avuto questa possibilità, prima appannaggio di pochi, sin da neolaureato, perché oggi molti colleghi si allontanano da questa realtà a causa delle difficoltà che il sistema sta riscontrando.
In questi anni ho avuto la possibilità e la volontà di crescere professionalmente e personalmente grazie al costante impegno e al quotidiano confronto con le diverse figure professionali che gravitano attorno al nostro strano, ma fantastico mondo. Guardando al passato non cambierei nulla del mio percorso, mentre guardando al futuro mi pongo un obiettivo di crescita costante personale e della professione.
dall’ Emergenza Territoriale Toscana Centro
di Francesco Rocco Pugliese
Alla fine del percorso di studi universitari il grande dilemma attanagliava tutti: università o ospedale?
L’Università seguiva il criterio meritocratico scandito dal metronomo dei baroni, l’ospedale era una realtà organizzativa in costruzione.
Nel mezzo un mare magnum di guardie in clinica, sostituzioni di colleghi, visite fiscali, tentativi di attività privata e quant’altro nell’attesa di decidere o subire la decisione.
Per tutti comunque la possibilità di un “corridoio umanitario”: il pronto soccorso, un non luogo in cui storicamente sostavano i medici di qualsiasi specialità in attesa della strutturazione nel reparto specialistico ambito oppure con percorso inverso i medici reietti dell’ospedale.
Questa varietà di intenti e di aspettative rendeva il dialogo eterogeneo, senza obiettivi condivisi, basato prevalentemente sulle criticità quotidiane vissute e senza una vision (termine programmatico allora ben al di là dell’essere non sono utilizzato, ma anche solo pensato).
Qualsiasi specialità poteva trovare lavoro in pronto soccorso (medicina interna, chirurgia generale, medicina di laboratorio, dermatologia, ematologia, ….), qualsiasi linguaggio poteva essere utilizzato, qualsiasi escatomage poteva essere ideato per collocare il proprio paziente.
Le apparecchiature elettromedicali erano praticamente assenti; gli spazi generalmente ridotti, scelti fra quelli meno ambiti della struttura senza alcun razionale di collegamento con i servizi essenziali; la funzione di triage svolta di fatto dall’ausiliario che aiutava i pazienti ad entrare.
Negli anni Novanta gli accessi al pronto soccorso divennero sempre più numerosi, l’influenza della comunità scientifica internazionale sempre maggiore con la comparsa di percorsi e protocolli da seguire e di conseguenza le risorse divennero progressivamente più carenti.
Quattro amici decisero che volevano cambiare il mondo e si sedettero per rendere possibile un reale confronto fra tutti gli operatori di pronto soccorso e cercare di adeguare quest’ultimo allo sviluppo della medicina e della società.
Colloqui vasti, ripetuti, in più lingue professionali, a volte infruttuosi a volte faziosi, ma nel complesso di notevole crescita interna e dentro le istituzioni.
Si riuscì a far comprendere la necessità di definire gli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera e di questo ne beneficiò anche il pronto soccorso in termini di un’implementazione di risorse umane e tecnologiche.
Negli anni Duemila i quattro amici, che erano riusciti a codificare una lingua comune dell’urgenza e quindi a diffondere il loro messaggio, ormai diventati centinaia, fondarono una casa comune, la Società Italiana di Medicina di Emergenza Urgenza SIMEU.
Per poter insegnare e parlare però ufficialmente questa lingua comune, capirono che era necessaria una scuola apposita: tavoli tecnici, colloqui istituzionali, ferme prese di posizione portarono alla istituzione della medicina d’urgenza quale disciplina a sé stante con relativa scuola di specializzazione.
Negli ultimi decenni i quattro amici hanno potuto godere del notevole approvvigionamento di attrezzature, ampliamento degli spazi e costruzione di reti scientifiche ed assistenziali, ma hanno potuto constatare anche il progressivo diventare del pronto soccorso una cattedrale nel deserto:
un microcosmo, altamente tecnologico e specializzato, sempre più isolato dal resto dell’ospedale; una riduzione degli accessi assoluti direttamente proporzionale all’aumento del sovraffollamento ed alla riduzione delle risorse umane.
I quattro amici sono ancora là, memoria ed anima di questo percorso: è tempo di bilanci.
La loro velocità di cambiamento organizzativo ha superato di gran lunga quella del sistema ospedale, fermo da un secolo; eppure la società, le istituzioni, i giovani neolaureati non dialogano con loro.
Quale errore è stato commesso?
di Lisa Fantauzzi
Quando ho deciso di iscrivermi al Corso di Laurea in Infermieristica ho da subito capito che mi sarebbe piaciuto essere un’infermiera di emergenza.
Il volontariato nella Pubblica Assistenza della mia città ed il tirocinio mi hanno sicuramente aperto gli occhi, ma man mano che gli studi proseguivano capivo sempre più che il mio posto era quello.
Ovviamente mi rendevo conto che per lavorare in emergenza occorrevano capacità e conoscenze molto specifiche ma, per fortuna, tenacia e determinazione non mi hanno mai abbandonata.
Arriva la laurea e dopo solo tre mesi eccomi in un ospedale di periferia, tra i corridoi del Reparto di Chirurgia dove non c’era turno in cui i colleghi non parlavano male del Pronto Soccorso.
Ricoveri che secondo loro si potevano evitare, fatti salire in reparto al cambio turno, magari con un ECG non refertato …
E più li sentivo lamentarsi e più cresceva la voglia di far parte di quel mondo e, dopo un anno, al secondo incarico, mi viene proposto il Pronto Soccorso dell’Ospedale della mia città, il terzo dell’Umbria per numero di accessi.
Un misto tra gioia e terrore per non essere all’altezza, ma dopo un attimo di esitazione è stato un si, un si durato 12 anni.
Da subito mi sono resa conto che il Pronto Soccorso ti dà tanto in competenze, professionalità e rapporti umani ma, allo stesso tempo, ti toglie tanto perchè da ogni turno ne esci provato sia psicologicamente che fisicamente.
Il Pronto Soccorso è così, se lo scegli devi essere consapevole che sarà dura, che devi essere pronto a tutto; anche quando sembra tutto tranquillo all’improvviso può scatenarsi il caos assoluto.
Io lo definisco “un mondo a parte” proprio perché all’interno dell’ospedale non esiste un posto uguale a cominciare dal rapporto speciale che c’è con i colleghi infermieri e con i medici; qualcosa che si instaura solo nei dipartimenti di emergenza e che ti dà l’energia per affrontare ogni nuovo turno.
Con loro ci si può concedere uno sfogo, ci si può confrontare ma soprattutto contare; il più delle volte basta uno sguardo per capirsi, per cambiare atteggiamento, per cambiare strategia; se uno di noi è in difficoltà la “squadra” è sempre pronta a dare tutto il supporto possibile.
Ad inizio turno non sai mai cosa ti aspetta, a volte non fai nemmeno in tempo a mettere la divisa, a prendere le consegne, che c’è già qualcuno che ti chiede aiuto.
Il paziente di Pronto Soccorso, indipendentemente dal codice di gravità, esprime un bisogno di salute ed è spaventato, non sa bene quale sarà il suo percorso e cosa dovrà affrontare e, soprattutto, ha bisogno di essere rassicurato.
Ho imparato che a volte stringere una mano è metà della terapia, fermarmi un minuto a scambiare una parola può cambiare lo stato d’animo di quel paziente.
Una frase semplice come “sono qui con te per aiutarti” lo fa sentire al sicuro.
Soprattutto in questo tempo dove tutti sono con il dito puntato contro la Sanità Pubblica, dobbiamo essere ancora più abili nella comunicazione, trasmettere sicurezza ed essere attenti osservatori perché ogni paziente è portatore di una sua storia, di esperienze passate che noi non conosciamo.
Siamo noi professionisti a fare la differenza sulla qualità del servizio.
Ci sono state storie che ancora oggi porto nel cuore, mi hanno colpito e fatto scendere anche qualche lacrima, non mi vergogno a dirlo, ma alla fine delle giornate di lavoro sono sempre tornata a casa con la consapevolezza di aver dato il mio massimo.
Dopo 12 anni di ritmi frenetici, di tanta pazienza, di studio per mantenere adeguati livelli di conoscenza e competenza, si sono aperti nuovi scenari per me ma non vi nascondo che il “mio Pronto Soccorso” mi manca tanto.
Fiera di essere stata un’infermiera di pronto soccorso, rifarei la stessa scelta altre mille volte.
Orgogliosamente Infermiera DEA H San Giovanni Battista – Foligno (PG)
Sono passati 3 anni dall’incubo dal quale stiamo piano piano uscendo, il 18 marzo si celebra la “Giornata nazionale in memoria delle vittime del COVID” e – a quanto appare – il sacrificio di tanti poveri innocenti non ha insegnato molto.
In realtà noi professionisti MEU abbiamo potuto constatare, dal nostro osservatorio privilegiato che risponde sempre ad ogni esigenza, che le vittime del Covid sono molte più di quelle dichiarate, perché nelle statistiche non vengono considerate le riacutizzazioni di cronicità trascurate, la mancanza di diagnosi precoci e la minor attenzione nei confronti delle altre patologie.
Purtroppo duole constatare che in questi tre anni la sanità pubblica non solo non si è rafforzata, ma è si è ulteriormente indebolita.
Dopo l’esperienza pandemica molti operatori sanitari hanno deciso di andare in pensione o di dimettersi, sfruttando varie alternative (non ultime le famigerate Cooperative), gli Ospedali sono in affanno e il Territorio inesistente, spesso per carenza di personale.
Già nel 2019 avevo scritto una lettera su Quotidiano Sanità affermando “se non si provvede velocemente a incentivare il disagio lavorativo con un sistema contrattuale che invogli i giovani a partecipare ai concorsi e i più esperti a restare nella Sanità pubblica non sarà garantita, in tempi brevi, quella cura che la Costituzione invoca come diritto imprescindibile. Proporre un rinnovo del contratto che non tenga minimamente conto del fatto che i professionisti della salute hanno continuato a garantire efficienza nonostante un salario proporzionalmente sempre in diminuzione da 10 anni a questa parte (forse il Governo non conosce il significato del potere d’acquisto) e un disagio lavorativo sempre in crescita, specialmente in alcuni settori, è indicativo della volontà politica di distruggere il SSN. Se un politico facesse, in totale anonimato, una guardia in Pronto Soccorso e non solo una visita di pochi minuti con la Direzione Aziendale (che ovviamente cerca di evidenziare solo efficienza), si potrebbe rendere conto della realtà.”
Ancora oggi nelle ipotesi di indirizzo contrattuale non si vedono cambi di rotta e l’emorragia di professionisti continua.
Non è una giustificazione pagare a livello nazionale liberi professionisti 10 volte di più rispetto ai colleghi dipendenti solo perché i fondi da cui si attinge sono diversi (Personale e Beni e consumi), bisogna valorizzare la professionalità e la continuità del servizio, gratificare e proteggere il proprio tesoro culturale, aumentare il senso di appartenenza.
Autorizzare un aumento di prestazioni aggiuntive pagate quanto i liberi professionisti è un piccolo passo fatto da molte Regioni, ma bisognerebbe remunerare le numerose ore di straordinario fatte abitualmente alla stessa cifra, senza obbligare a procedure burocratiche fatte di timbri e autorizzazioni varie.
In particolare il MEU non lavora solo sull’emergenza, ma è il fulcro tra Ospedale e Territorio:
fa diagnosi rapide, dimette, orienta l’utente, trova soluzioni e riconosce velocemente le gravità evitando l’intasamento del Sistema e questo va riconosciuto e valorizzato.
Per il Governo il finanziamento del SSN, a partire dal Sistema dell’Emergenza Urgenza, deve essere visto come investimento per tutelare la salute pubblica, in modo da avere cittadini in buona salute e quindi che aumentano la produttività del Paese.
Forse non siamo ancora al punto del non ritorno, ma siamo maledettamente vicini e se non ci saranno provvedimenti rapidi non sarà più possibile curare la Sanità.
di Erika Poggiali
Si presenta ogni sera, poche ore dopo l’inizio del turno della notte e si mette a dormire silenzioso sulle sedie.
Barelle per dormire non ce ne sono.
Sembra di stare in aeroporto il 15 di agosto nella boarding area in attesa di un posto letto per essere ricoverati. Tutto full anche oggi. E allora viaggia in economy lui, si accontenta.
È ormai un “frequent flyer” del nostro Pronto Soccorso e ha imparato a non infastidire chi sta lavorando, medici, infermieri e OSS.
All’inizio si faceva inserire in triage con sintomi così fantasiosi da far impazzire qualsiasi giovane medico alle prime esperienze in Pronto Soccorso, proprio come il povero dottor Gerard Galvan nella sua lunga notte raccontata dalle parole di Daniel Pennac.
Infastidiva la sua insistenza nell’aggiungere nuovi sintomi ad ogni diagnosi raggiunta per la dimissione, ancorandosi con forza alla barella.
Poi è diventato sincero, o meglio, abbiamo compreso il suo reale bisogno, che non ha nulla a che vedere con le cure mediche, ma con un più pragmatico istinto di sopravvivenza, che si traduce in un posto dove dormire la notte, quando fuori è tutto chiuso e si va sottozero.
Non ha una casa né una famiglia.
Non ha nemmeno un amico.
Ha una storia tutta sua, come tutte quelle persone che vivono per strada, per scelta, necessità, casualità. Secondo le stime ISTAT sono 100mila i senza tetto in Italia, il 38% stranieri, il resto italiani. Hanno un’età media di 41,6 anni e si concentrano principalmente in 6 comuni: Roma (nel 23% dei casi), Milano (9%), Napoli (7%), Torino (4,6%), Genova (3%) e Foggia (3,7%)1. Ma sono dati fittizi, aggiornati al 31 dicembre 2021, che sottostimano i dati reali e non considerano tutte quelle persone non iscritte all’anagrafe.
Qualcuno li chiama elegantemente “clochard”, qualcun altro preferisce l’anglosassone “homeless”, in italiano li abbiamo sempre chiamati “barboni” in una accezione negativa e stigmatizzante, poi sostituita da “senza fissa dimora” o “senzatetto”. Ma alla fine sono tutti “poveri diavoli”, emarginati dalla società, invisibili alle istituzioni.
È vero, è sporco e puzza, tanto.
Ed è vero, non siamo la Caritas né un dormitorio.
“Verrà ancora se lo trattiamo così!”
“Ma così come? Come un essere umano in difficoltà?”
Avete ragione, la soluzione non siamo noi e non dovremmo esserla.
E allora provo a cercare una soluzione nella politica italiana e mi imbatto nel disegno di legge n.1448 del Senato, il cui articolo 15 “individua le misure volte a tutelare le persone senza tetto o senza fissa dimora, al fine di agevolarne l’accesso al beneficio, tramite programmi annuali di assistenza da parte dei comuni, che devono essere comunicati, con cadenza semestrale, al Ministero del lavoro e delle politiche sociali”2. Ma poi quando cerco di avere un approccio pragmatico al problema, scopro che “per accedere alle strutture di accoglienza è necessario interfacciarsi con il Centro Aiuto, Ufficio del Comune di …. che risponde al numero ….”, come si legge su un sito internet di un comune italiano del Nord. E ancora “il contributo è di 1,50 euro per posto letto e di 1,50 euro per il pasto serale”. Nulla penserete voi, un’eredità per chi non ha un euro in tasca. E ancora, “…. è un dormitorio per uomini, dai 18 ai 65 anni, senza fissa dimora e in situazione di bisogno per l’accoglienza notturna. L’accesso al servizio è diretto, se ci sono posti disponibili”, con quel “se” che non è sinonimo di garanzia.
La Costituzione Italiana, che di anni ne ha 75, parla chiaro. Secondo l’articolo 3 “…È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”3
Ma di nuovo, non trovo nemmeno qui una soluzione, che eppure deve esserci e dovrebbe essere semplice e veloce, ad opera delle istituzioni politiche e non del medico di Pronto Soccorso.
Ci provano allora i servizi sociali ai quali facciamo riferimento in questo percorso umano di “problem solving” che non ha nulla a che vedere con competenze mediche ed expertise, ed è così che vengo a conoscenza dei tempi infiniti delle liste di attesa per un “ricovero sociale”.
“La realtà non è come ci appare” scrive Carlo Rovelli (2014, Raffaello Cortina Editore) nel tentativo di spiegare al lettore la teoria della relatività generale e della meccanica quantistica.
E la verità è che è stato più facile capire l’indeterminismo ontologico e l’estensione dell’aspetto relazionale delle leggi fisiche a spazio e tempo piuttosto che risolvere “il caso sociale del Pronto Soccorso”, che ancora oggi è senza soluzione come un “cold case” della politica italiana.
di Mario Rugna
C’era una volta, in un tempo lontano, un ragazzo che aveva tanta voglia di lavorare e tanta fretta d’imparare.
Invero non era lo studio che lo intimoriva, al contrario, era curioso, divorava libri e riviste fin da quando era bambino, si informava su tutto ed ascoltava avido i racconti degli anziani in piazza.
Quello che invece lo spaventava era il dover andare a bottega per imparare un mestiere.
Lui nel chiuso di quattro mura, con un “mastro” che lo comandava a bacchetta facendogli fare i lavori più umili per poi ripagarlo con due soldi, proprio non ci voleva stare.
Invero ci aveva provato a fare il garzone, ed anche più volte e con tanti maestri delle arti e dei mestieri più disparati.
Falegname, meccanico, idraulico, giardiniere, anche dall’amico di famiglia che voleva fargli fare il soldato. Per un po’ andava tutto bene, veniva apprezzato da padroni ed aiutanti dovunque andasse, ma dopo poco, niente da fare.
Sempre la stessa storia, si annoiava e scappava.
Una gran perdita di TEMPO insomma.
Era ora di rimboccarsi le maniche e darsi da fare.
Ma COSA fare!?
In effetti sapeva fare un po’ di tutto, ed anche abbastanza bene, ma onestamente niente così ad arte da aprire una bottega tutta sua.
E poi di stare rinchiuso in una “gabbia” tutto il giorno proprio non gli andava.
E se invece di aprire bottega pensò, “andassi per strada ed a casa della gente ad accomodare tutto e subito senza far aspettare ore, giorni o mesi per una riparazione?”
IL TEMPO.
Per la roba da sistemare era importante, perché le cose rotte e non accomodate dopo un po’ sono da buttare via.
E più sono rotte più IL TEMPO è importante.
Allora comprò un carretto da uno straccivendolo e lo attrezzò con arnesi essenziali, di fortuna, ma ancora efficienti, ed iniziò a girare per le strade della città urlando:
“Accomodo tutto a regola d’arte, a casa vostra subito e senza grossa spesa”.
Le persone incuriosite iniziarono a fermarlo per affidargli piccole riparazioni; chi per la porta che cigolava, chi per la finestra che aveva gli spifferi, chi per la seggiola con un “zampa” rotta.
E lui una soluzione la trovava per tutto dai piccoli problemi a quelli più seri.
Dalle cose quasi da buttare che miracolosamente riusciva a “salvare” a quelle che in fondo non avevano tanto bisogno di essere riparate. Certo le sue riparazioni d’EMERGENZA non erano di gran fattura ma funzionavano bene, a volte anche meglio di quelle degli artigiani più famosi.
E la gente era contenta, perché vedeva in lui cortesia, impegno e passione, anche quelle volte che alla fine doveva dire: mi spiace non c’è niente da fare.
SI, per quel mestiere ci era proprio portato.
E poi a quegli oggetti in fondo ci si era affezionato veramente, nuovi o vecchi che fossero, per tutti trovava un motivo d’interesse ed un moto di soddisfazione quando alla fine riusciva ad accomodarli.
Certo non era facile tenere il passo coi tempi perché più girava e più incontrava cose nuove da riparare ed il progresso poi portava sempre nuovi “aggeggi” da accomodare.
Ma lui non si scoraggiava e studiava, studiava e lavorava, tutti i giorni.
Aveva imparato a capire meglio la gente delle diverse specie, abbienti e meno abbienti, istruiti e non. Aveva imparato la cortesia e la pazienza oltre che la semplice perizia tecnica.
Perché quel mestiere così faticoso, che non conosceva né giorni né notti né feriali né festivi era diventato la sua passione.
Ed iniziò ad andare in giro per il mondo, ad insegnare ed a trasmettere il suo entusiasmo ai giovani che cominciavano oramai numerosi a fare il suo lavoro.
Amava spiegare ai suoi allievi che più che diventare bravi “tecnici” dovevano essere delle brave persone ed amare quello che facevano.
Ognuno di quegli oggetti che riparavano andava rispettato, non importa se nuovo o vecchio e consunto, perché aveva in sè una storia, a modo suo unica ed interessante ed era comunque speciale per coloro che lo amavano.
Lo chiamavano il MECCANICO DEL TEMPO. Qualcuno pensa perché era sempre disponibile a tutte le ora del giorno e della notte ma a lui piaceva pensare che fosse perché riusciva, col sorriso, a riportare indietro l’orologio della vita delle cose.
Dedicata a tutti medici d’urgenza, di strada e non.
Anche a quelli che come me hanno cominciato un po’ per sbaglio ma col TEMPO hanno capito di aver fatto il MIGLIOR SBAGLIO della loro vita.
di Domenica Vangeli
Dicembre 2018, il telefono suona.
Sul display un numero fisso: Bologna.
Dal 2011 contratti a termine e poi in libera professione. Avevo fatto vari concorsi con tanto di preselezioni tra l’Emilia e la Toscana. Ai tempi la chiamata dalle graduatorie non arrivava mai e non l’aspettavo di certo allora.
“Dott.ssa Vangeli?!
Ufficio del personale dell’AUSL di Bologna.
È stata assegnata al dipartimento di emergenza urgenza, pronto soccorso, hub dell’Ospedale Maggiore”.
WOW! L’emergenza urgenza non l’avevo mai vissuta se non durante il tirocinio.
Ne avevo conservato il ricordo ma più che altro portavo con me l’esempio dei colleghi incontrati allora, in ogni emergenza vissuta ed affrontata in lungo degenza e post acuti.
I pazienti che avevo assistito fino a quel giorno avevano già una diagnosi.
Erano stabili, sapevano cosa avevano superato, sapevano perché dovevano affrontare il ricovero. Io, cosi come i miei colleghi, potevo interloquire con loro: avevamo tempo e modo di instaurare un rapporto.
Dopo quella telefonata, sarei entrata a far parte del mondo dell’assistenza infermieristica che precede il ricovero dove il cittadino si trova a chiedere aiuto, spesso purtroppo senza conoscerne la causa né il perché.
Alle volte capita altrove rispetto casa: al mare, in montagna, in vacanza, nel praticare un hobby ed essere nella condizione di chiedere assistenza è l’ultima cosa che può immaginare. E con lui, anche i suoi caregiver e/o la famiglia tutta.
Le domande che mi ponevo erano molteplici:
sarò in grado di supportare e sopportare emotivamente i pazienti in quella fase dell’assistenza?!?
Sarò in grado di essere precisa e veloce?!?
Di essere un passo avanti cosi come spesso serve?!?
Di fatto non ci credevo.
Dopo 30 giorni avrei iniziato a fare parte anch’io del DEA lavorando fianco a fianco con professionisti di cui avevo sempre nutrito grande stima.
Arrivata a Bologna, prendo finalmente atto che a tutti gli effetti facevo parte anche io della grande famiglia del DEA. Una famiglia sì.
Perché come in essa ognuno ha un suo specifico ruolo.
Con la propria professionalità e le proprie skills ciascuno contribuisce a mantenere quello speciale equilibrio affinché l’assistenza erogata superi quella richiesta, nonostante le circostanze e le condizioni esterne che troppo spesso interferiscono con le prestazioni.
È un meccanismo perfetto che si muove ad unisono.
Chi ne fa parte gioca un ruolo fondamentale, perché il paziente deve farcela sempre e le sue funzioni vitali devono essere conservate al meglio.
Tutti i i componenti, definiti “attori della scena”, sono ugualmente importanti.
Dal lavoro di ognuno dipendente quello dell’altro.
Il collega della CCO che riceve la chiamata da una conversazione deve decidere quale equipe sia più idonea al trattamento del cittadino bisognoso di aiuto.
L’equipe che lo raggiunge per prima – sia essa ambulanza o auto medica – a sua volta definisce il percorso e la destinazione finale migliore, affinché le cure di cui necessita vengano erogate in tempi e modi consoni.
E poi l’equipe che riceve la persona nella mia realtà: l’HUB, uno spazio esiguo, pieno di monitor, fili, farmaci, device di ogni tipo e colleghi di ogni categoria.
E’ particolare il silenzio che si crea nei minuti di attesa a “riempire” il tempo stimato di arrivo. Ci si prepara!
Obbiettivo del team prendere in carico, stabilizzare e trattare il cittadino – ormai diventato nostro paziente – che necessità di una rapida diagnosi corretta e del relativo trattamento.
Tutti, dico tutti, si muovono armoniosamente sulla stessa melodia affinché il paziente sia stabilizzato, le sue funzioni vitali siano sotto controllo e che da lì in poi possa intraprendere il migliore percorso di cura possibile.
Non scordiamoci di un elemento importante con il quale ci confrontiamo: il tempo.
Il tempo nel DEA ha un ruolo chiave.
È come un collega aggiuntivo con cui ci troviamo a lavorare. Non sempre è simpatico ed empatico, non sempre ci è amico. Ma nonostante tutto è il primo da includere nel gruppo, da tenere in considerazione, da valutare, importante tanto quanto le reali condizioni del paziente.
Ed è spesso l’antagonista con cui facciamo i conti per poter salvare una vita.
Immagine di repertorio non riferita al DEA descritto.
Credits foto @FrancescaMangiatordi.
di Geminiano Bandiera
In questo tremendo momento storico per tutta la sanità italiana la società civile sembra essersi finalmente accorta che esiste un manipolo di professionisti che garantiscono un servizio essenziale con difficoltà rapidamente crescenti, dal peso ormai insostenibile.
Siamo indubbiamente sempre meno scontati.
Si chiama informazione.
Era ed è giusto che tutti ne siano informati, dai colleghi di altri reparti ospedalieri piuttosto che di altre discipline di impegno “territoriale”, ai vertici organizzativi, alla popolazione civile per finire alla politica.
E’ ormai chiaro a tutti che noi medici di emergenza urgenza siamo una “specie in via di estinzione”, ma credo peraltro che sia molto più evidente anche l’essenzialità e l’insostituibilità dei servizi che eroghiamo.
Ben vengano quindi le campagne di informazione alla popolazione e soprattutto i tentativi di individuazione di validi percorsi per la cronicità e la patologia non urgente o comunque differibile, che troppo spesso finisce per essere vissuta come urgente solo per mancanza appunto di percorsi alternativi.
Inoltre, in una società sempre più destrutturata in cui una scienza medica specialistica d’organo tende costantemente a frammentare l’approccio al paziente rappresentiamo, insieme a pochi altri, gli ultimi tutori dell’approccio all’essere umano malato nella sua interezza e complessità.
Anche su questo aspetto, per nulla banale nelle sue quotidiane conseguenze pratiche, ritengo sia doveroso fare informazione.
Fino ad oggi, pur avendo mille interfaccia sociali e sanitarie, sembravamo invisibili e di sicuro eravamo quantomeno scontati.
Oggi probabilmente molto meno. Grazie anche all’informazione appunto.
Attenzione però ad una narrazione eccessivamente drammatizzata e catastrofistica, soprattutto nei confronti dei colleghi più giovani ed in particolare di quelli che dimostrino interesse verso la nostra meravigliosa disciplina.
Non siamo scontati, siamo ottimi professionisti, rivestiamo un ruolo strategico ed insostituibile per la risposta ai bisogni di salute emergenti (vitali ma fortunatamente di numero contenuto) ma anche di quelli urgenti (nelle varie sfumature dell’accezione, con un impatto molto maggiore in termini di volumi).
I primi si prestano benissimo ad una narrazione “eroica” che certamente dà fulgore alla disciplina, i secondi devono invece essere oggetto di una più corretta informazione sia ai colleghi specialisti di altre discipline che ai pazienti.
Non intendo aprire una discussione, peraltro molto interessante, sul significato della parola urgenza ma ritengo fondamentale riflettere, tutti, sulla necessità di non incorrere in un ennesimo errore di frammentazione, ricordando quanto sia spesso labile il confine tra emergenza ed urgenza e sdrucciolevole il terreno sul quale spesso ci troviamo in questo ambito, insieme ai nostri malati.
Narrazione dicevamo.
Non siamo eroi, tantopiù che aneliamo ad una vita fuori dal lavoro il più possibile “normale”, secondo i bisogni di un qualunque altro essere umano.
Abbiamo del resto dalla nostra la possibilità di praticare una professione molto gratificante per i suoi contenuti tecnici ed umani.
E’ l’organizzazione che spesso tende a renderla inaccettabile, la cronica carenza di risorse.
Informiamo ancora ed ancora, qualora ce ne fosse bisogno, ma non dimentichiamo una narrazione positiva di quanto riceviamo tutti i giorni e certamente diamo ai nostri pazienti ed alla società.
Sono convinto che occorra, da parte nostra, una presa di coscienza forte del fatto che, al di là della aspetti comunicativi, sia utile una riflessione importante anche da parte nostra sulla determinante relazione che intercorre appunto tra l’informazione al resto della società, la narrazione circa la nostra attività professionale e la formazione degli specialisti nella disciplina di emergenza urgenza, universitaria (anche su questa ci sarebbe molto da discutere e porterebbe via certamente troppo tempo e spazio) e postuniversitaria.
Ora ci conoscono tutti, sanno che siamo sempre più rari e che probabilmente svolgiamo una professione durissima ma è chiaro a tutti quel tantissimo che di buono facciamo?
Siamo riusciti a far capire al resto della società che tipo di competenze possediamo, che percorso formativo, anche e soprattutto postuniversitario, seguiamo?
E’ chiaro a tutti che siamo tra coloro che dopo la fine del percorso universitario specialistico seguiamo un ulteriore percorso formativo molto composito e continuamente in evoluzione, sul campo?
Ne siamo consapevoli noi stessi per primi e sappiamo valorizzare la nostra formazione?
Tutto ciò proprio mentre ci stiamo estinguendo e nonostante questo.
Perché uno non vale uno, almeno non sempre e di certo non in emergenza urgenza.
Non nutro sentimenti polemici né verso le nostre organizzazioni sanitarie né, tantomeno, verso quelle sindacali ma sento la orgogliosa necessità di informarne il resto della società civile e narrarlo ai colleghi che continuano a credere nel sogno MEU.
Siamo professionisti di qualità, informiamo e narriamo questa nostra caratteristica irrinunciabile, mentre continuiamo a formarci.
Descriviamo minuziosamente tutte le difficoltà che ci impediscono spesso di essere formati come o quanto rapidamente vorremmo ma non accontentiamoci di fare il possibile con gli scarsi mezzi che abbiamo a disposizione. Continuiamo a pretendere il meglio, da noi stessi e dalle organizzazioni sanitarie, per il bene dei pazienti anch’esso non sempre, purtroppo, scontato.
Uno non può e non deve valere uno in emergenza urgenza, anche perchè così si finisce inevitabilmente a tendere alla zero, sia quantitativamente che qualitativamente.
Mi sento di chiudere con un augurio sincero a tutti noi medici di emergenza urgenza: che il 2023 possa portare a tutti un po’ di sana normalità in modo che possiamo continuare a fare cose straordinarie per il bene dei nostri pazienti.
di Roberto Cosentini
Un caso clinico
48 aa dol tor tipico (20’, regredito), vado al triage, ECG negativo, strano …
Eppure
Lo porto in sala visita e sospiro: ci fosse un aiutino online …
C’E’!!!
Digito sul cell LITFL —> OMI criteria (ecg senza il quadro tipico dello STEMI); onde T iperacute. (https://litfl.com/omi-replacing-the-stemi-misnomer/)
Riguardo l’ECG, queste onde T ci sono!!!
All’eco ipocinesia anteriore, chiamo il cardiologo ed è gia in emodinamica.
LITFL è solo una delle tantissime fonti online gratuite che possono aiutare il medico d’urgenza, anche al letto del malato e sempre aggiornate!
E’ un mondo affascinante che si chiama FOAMed il cui simbolo è la schiuma (foam) della birra, sfondo della chiacchierata tra amici che ha dato il via al movimento. Le risorse sono sparse nel web, blog post podcast video letture a congressi. A fare da ponte tra tutti sono i social Media (SoMe), in particolare Twitter.
A condividere questa preziosa conoscenza online sono i migliori medici d’urgenza del mondo.
Ci distinguiamo anche in questo: il movimento FOAMed è stato creato da medici d’urgenza e – anche se c’è qualche risorsa in medicina interna, cardiologia e nefrologia – la conoscenza condivisa più vasta riguarda sicuramente la nostra disciplina.
Le risorse della FOAMed
Come orientarsi per navigare se le acque sono sconosciute?
Per rispondere a questa domanda e aiutare i nostri studenti a Bergamo, abbiamo classificato le principali risorse FOAMed censite sulla base di visualizzazioni e ricerca. Abbiamo cosi’ individuato 11 aree tematiche: (https://rebelem.com/focused-foamed-the-learners-lens/)
Le 11 aree sono:
Per ogni area vengono descritte le principali risorse con le caratteristiche (blog, podcast, video, frequenza di pubblicazione etc.)
Il grande Joe Lex dice che se ti aggiorni sui libri sei indietro di 4 anni, sugli articoli di uno sui congressi di 1, ma con la FOAmed sei aggiornato in diretta …
Il consiglio per chi inizia è semplice.
> Scegli una piattaforma educazionale tra quelle esistenti
> Individua le tue aree di interesse specifico secondo lo schema
> Quello che devo sapere (per essere più bravo)
> Quello che amo studiare (e che potrò insegnare)
Quindi:
I Social Media_Twitter
15 marzo 2020
Nel pieno dell’apocalisse COVID19, con i malati infilati anche nelle sale d’attesa, sovrastand oil, rumore continuo delle CPAP dico a Carlo, MEU II anno: ‘Carlo, stiamo vivendo il world worst case scenario. Dobbiamo avvertire gli altri perchè si preparino.’ E scrivo il tweet includendo i guru della Medicina d’Urgenza mondiali.
“Sharing #COVID19 italian experience.
@davidcarr333 @srrezaie @EMCases @EMSwami @First10EM @ALiEMteam @LITFLblog @stemlyns @MelHerbert @EmCrit @jeremyfaust @LWestafer”
Il giorno dopo vengo intervistato in podcast su St Emlyn’s di Manchester (uno dei più’ popolari al mondo) che viene scaricato 100.000 volte in una notte e così avviene per altri nostri colleghi di Bergamo con gli USA.
Organizziamo chat e zoom conf con GB, USA, Australia, Francia, Danimarca … i nostri colleghi.
La notizia e soprattutto la nostra risposta organizzativa, iniziata a Lodi da Stefano Paglia, fa il giro del mondo.
La chiave e’ prepararsi, fare scorte (caschi, CPAP etc.) e svuotare gli ospedali per non essere sopraffatti.
E gli altri si preparano …
Un oceano di ringraziamenti ci arriva da tutto il mondo … e le pizze dal PS di San Francisco …
Riceviamo ancora ringraziamenti per le vite che abbiamo salvato in ogni parte del mondo.
“Locarno, 15.3.20.
Ciao amica, qui in Svizzera ancora tutto tace ma la cosa assurda è che ci sono due fazioni: chi crede che sia tutta una montatura, chi crede che stia per accadere qualcosa di terribile. Ho deciso di far ascoltare il tuo vocale al mio primario che a sua volta l’ha inviato al medico cantonale. Così il nostro ospedale a Locarno è diventato Centro Covid, e oggi abbiamo già i primi 3 intubati.”
Questa è la Medicina d’Urgenza.
Considerazione finale
Credo che il sottofondo della nostra disciplina sia essenzialmente la gratitudo.
> Di avere studiato
> Di aiutare i malati
> Di imparare ogni giorno
> Di aiutare la EM community
> Di poter lavorare in equipe (senza infermieri non siamo nulla)
e, come come dice Hanna Arendt,
> Di essere venuti al mondo.
di seguito alcune testimonianze
BIBLIOGRAFIA
Chris Nickson. 2019. https://litfl.com/top-10-tips-for-foam-beginners/
Justin Morgenstern. 2019. https://first10em.com/lecture-handout-social-media-in-medicine-university-of-toronto-anesthesia-and-surgery-faculty-development-day/
Chris Nickson. 2019. https://litfl.com/from-hippocrates-to-osler-to-foam/
Salim Rezaie. 2019. https://www.emra.org/about-emra/publications/emra-cast/foamed-with-dr-rezale/
Mike Cadogan on LIFTL. http://lifeinthefastlane.com/emcc-blog-update-2016/
Scott Weingart. 2015. https://emcrit.org/squirt/online-hierarchy-needs/
Simon Carley, “How to integrate #FOAMed into #MedEd,” in St.Emlyn’s, April 22, 2016, https://www.stemlynsblog.org/and-not-or-how-to-integrate-foamed-into-meded/.
Grazie a tutto il mio team.