IL BLOG DI SIMEU

 

Gli affetti altrui.

di C.B. DEA Santa Maria Annunziata

 

Fin dai primi tirocini, la maggior parte degli studenti di infermieristica è bramosa di svolgere parte della propria formazione in un particolare Setting: il DEA.

L’idea di affinare tecniche e conoscenze in situazioni in cui il tempo è davvero prezioso, è estremamente eccitante.

 

In questo Setting vengono messi a dura prova i nervi e le capacità di ogni professionista che, sotto la pressione dei codici incalzanti, è tenuto non solo ad agire tempestivamente, ma anche a saper rispondere in maniera coerente, efficace ed efficiente alle improvvise e diverse esigenze che gli si presentano.

La frenesia che si continua a percepire anche dopo la Laurea è questa: ci aspetta una sfida ogni giorno!

Affiancamento dopo affiancamento, tra un corso di formazione e l’altro, l’Infermiere acquisisce sempre maggiori competenze che  vanno a costituire un bagaglio personale che si potrà poi utilizzare in ogni altro Setting lavorativo successivo.

 

Dal punto del coinvolgimento è un ruolo tanto provante quanto gratificante, anche se a volte ci capita di trascurare il lato emotivo di noi stessi e delle situazioni, delle persone, in cui ci imbattiamo durante il turno lavorativo.

Ad esempio la signora con frattura di femore è molto di più di un caso clinico! E’ una settantanovenne che vive sola, lontana dalla famiglia, amante dei reality show che la sera, per tenersi compagnia, passa le ore al telefono con la nipote.

Oppure, il ventenne che si è lacerato una falange, ha appena iniziato il suo primo impiego ed è preoccupato per il posto di lavoro.

 

Il nostro ruolo è denso di relazioni umane, cosi come lo è anche di coinvolgimento personale anche se, in prima battuta, la natura del Setting ci spinge ad essere estremamente competenti nella parte tecnica. Dopo una più attenta riflessione ci possiamo però  rendere conto che esige anche un grande coinvolgimento dal punto di vista relazionale.

 

Negli ultimi due-tre anni, come mai prima l’Infermiere è stato chiamato a rispondere a situazioni nuove e mutevoli, a partire dall’esperienza della pandemia iniziata nel 2020.

L’infermiere di Pronto Soccorso non è solo colui, che insieme al resto dei professionisti sanitari, è tenuto a rispondere alle esigenze della popolazione in modo rapido e efficace, ma è colui che ha dovuto imparare a gestire il problema delle distanze, delle solitudini, delle emozioni profonde e purtroppo spesso anche del lutto attraverso un filtro.

Ovattato nella sua bolla, separato da strati di guanti e materiale isolante, si è improvvisamente dovuto far carico di tante cose di grande impatto umano.

 

Il gap non è stato solo di tipo fisico, ma anche e soprattutto emozionale: la situazione creata dalla pandemia covid ci ha portato a dover imparare a salutare i cari morenti di fatto soli, ove possibile, attraverso non solo tute impermeabili, ma a volte attraverso uno schermo.

Negato il calore di una carezza, di una mano amica: abbiamo assistito a situazioni pesanti come amici che non si sono più visti, mogli e mariti che non si sono più baciati, figli e figlie, madri e padri che non si sono più abbracciati per un ultimo saluto.

 

Per noi infermieri è stata un esperienza disarmante: non aver avuto più tempo in una condizione in cui il tempo era già di per se sfuggente.

È come se una situazione già gravosa di per sé a causa della natura della morte stessa e della fatalità della vita, dove vige un senso incolmabile di dolore, a volte rancore e amarezza si fosse ulteriormente appesantita.

 

In quel momento la figura onnipresente con i pazienti dell’infermiere ha svolto un ruolo fondamentale. Gestire i processi della malattia non è mai semplice, ancora meno lo è stato ostacolati da una pandemia mondiale dove tutti erano a rischio e nessuno poteva assistere direttamente il proprio caro. L’Infermiere  a questo punto si è fatto carico anche degli affetti altrui.

 

L’idea di conforto sia per chi esalava gli ultimi respiri, sia per i familiari lontani, passava proprio attraverso la figura che in quel momento assisteva h24, minuto dopo minuto le persone, le uniche figure a poter essere in qualche modo vicine a chi soffriva in quel momento delicato.

Se prima questo ruolo era affidato alla famiglia, in quel momento era diventato del tutto nostro.

 

Forse questa esperienza ci è servita a sviluppare in questi anni successivi una diversa consapevolezza ed un’ attenzione maggiore all’importanza delle relazioni umane, anche nella quotidianità attuale al di fuori dalla bolla covid.

 

Anche dove e quando i minuti sono davvero contati, la qualità della relazione umana può fare la differenza.

 

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