IL BLOG DI SIMEU

 

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Ich hab’ kein Zuhause

martedì, ottobre 19th, 2021

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo racconto della dott.ssa Margherita Riccardi che si presenta in questo modo: “sono un medico italiano, lavoro come chirurgo in Germania e il mio lavoro si svolge principalmente tra sala operatoria e pronto soccorso. Sono molto legata alla medicina d’urgenza, talmente tanto che presto inizierò a lavorare e studiare per prendere la specializzazione in medicina d’urgenza. Ecco, anche se non lavoro in Italia, vi seguo, vi leggo e vi ringrazio per il lavoro che fate. Chissà, prima o poi tornerò in Italia a lavorare, in qualche Pronto Soccorso“.

Ringraziamo moltissimo questa collega e segnaliamo le sue molte storie, tutte vere, pubblicate sulla pagina Facebook “Salvo Complicazioni” https://www.facebook.com/salvocomplicazionidoc

Buon lavoro e buona vita Margherita!

 

 

Pronto soccorso, notte di guardia.

Il monitor appeso in sala medici lampeggia: profonda ferita al braccio, arrivo in 8 minuti.

Accanto la scritta “N +” mi fornisce l’informazione che sull’ambulanza è presente anche un medico d’urgenza (Notarzt/Notärtzin).

Questo vuol dire di solito che è qualcosa di relativamente grave. Poco dopo sento le sirene avvicinarsi, lascio la mia postazione e mi avvicino all’entrata del

pronto soccorso dove accedono le ambulanze. Infilo i guanti in lattice, guardo l’orologio e mentre mi rendo conto che sono già le 3 del mattino, vedo con la coda  dell’occhio il paziente scendere dall’ambulanza. Sui 40 anni, pantaloncini corti e una maglietta strappata completamente imbrattata di sangue.

Un’ infermiera mi aiuta a farlo stendere su un letto. Il medico d’urgenza mi presenta il paziente e snocciola velocemente le informazioni più importanti:

M.J, 41 anni, consumo abituale di droghe, diverse malattie croniche e alcuni problemi familiari che non riesce a gestire. Oggi la goccia che fa traboccare il vaso. Suizidversuch, scandisce il collega, imprimendo una certa solennità.

Tentativo di suicidio.

Il paziente è stato trovato dai parenti mentre si stava tagliando le vene.

Le ferite si trovano lungo buona parte dell’avambraccio sinistro, non sono molto profonde, ma vanno comunque suturate. M.J. spalanca gli occhi enormi e scuri,

quasi neri. È lucido. L’infermiera disinfetta le ferite mentre io preparo l’occorrente per medicare.Ecco ora annego nei tuoi occhi M.J, penso. Vorrei darti un

qualche tipo di conforto, dirti che andrà tutto bene, ma io e te veniamo da due pianeti diversi, e questo me lo spieghi tu, gentilmente. Ci sono pianeti e vite intere dove le cose non sono mai andate né potranno mai andare bene, e tu vieni da uno di questi. “Ich hab’ kein Zuhause”, io non ho una casa.

Lo dici tremando, e fai delle lunghe pause per cercare le parole giuste che alla fine comunque non vengono fuori. Accetti di parlare con me e il mio tedesco stentato, che è ancora più zoppicante ora che ormai si sono fatte le 4 del mattino. Io e te vicini, mentre inietto l’anestetico locale lungo tutta la ferita principale.

Ma i nostri pianeti sono sempre più distanti, e probabilmente invece vorresti sentirlo un po’ di dolore. Provare qualcosa.

Sentire, ancora una volta, tutto il male del mondo che dici di portare dentro. Non riesco a vederlo M.J., tutto questo male. Non ci riesco. Mi hanno cresciuto con l’idea che in ognuno di noi ci sta del buono, ma come dicevo i nostri pianeti sono sempre più distanti, e tu mi confessi che sei tutto da buttare. Sei un fiume di lacrime adesso e un po’ ti lasci andare, o forse è solo una farsa, o forse non lo so. Rimaniamo così, in silenzio nel cuore della notte.

Tu a piangere ferite che non vedo e io con i miei aghi e portaghi a chiudere tutte le altre

Dopo Anita.

mercoledì, settembre 29th, 2021

Direttamente dall’ EM STORY CONTEST della SUM.SCHOOL SIMEU appena conclusa, la testimonianza nominata vincitrice “per aver utilizzato le immagini, i rumori e gli sguardi come strumento di narrazione. L’uso dei nomi propri per indicare le persone come stile di approccio e cura. Il ricorso alle canzoni come rievocazione del proprio vissuto messo al servizio della persona nel percorso di cura”. Da un’idea del Segretario Nazionale dott. Mario Guarino, giuria presieduta dallo scrittore Maurizio De Giovanni

Mara Tesei ne è l’autrice. Originaria di Perugia, presta servizio presso il PS di Montepulciano dopo aver partecipato a tre missioni in Africa con una ONG.

 

Piccoli pezzi di vetro cadono come polvere dai vestitini che piano piano le togliamo.

È vigile, piange.

Non ha evidenti segni di contusione e non notiamo ferite una volta rimasta solo con il pannolino.

Si chiama Anita, un anno di età.

 

Un’infermiera del centodiciotto entra nella stanza e ci consegna le borse che erano vicino a lei nell’auto. Sono delle buste di carta di negozi per bambini, dentro dei vestitini con ancora il cartellino del prezzo attaccato. Chissà Anita come può averti immaginato bella con questi addosso la tua mamma. Invece ora sei quasi nuda con una dottoressa e due infermiere che immaginano cosa possa averti lasciato addosso l’impatto dell’auto. Ecografia ed esami di sangue negativi. Nulla, addosso non ti ha lasciato nulla. E sulla tua mamma? Cosa lascerà sulla tua mamma questo pomeriggio in cui siete uscite insieme e tornando la vostra auto ha avuto un impatto frontale con un’altra auto? Ora siete divise dalle porte scorrevoli della sala rossa: ogni volta che si aprono è come se la sala respirasse. Con lo stesso ritmo con cui le porte scorrevoli si aprono e si chiudono penso a quello che gli infermieri stanno facendo sulla mamma. Gestione delle vie aeree, accesso venoso. Io però non sono dentro con loro, sono dall’altra parte del corridoio eppure: elettrocardiogramma, esami di sangue, ecografia.

 

Io però ho in carico Anita, i familiari a casa non rispondono, né i nonni né il papà.

Eppure: emogasanalisi, tac. Questo ritmo di pensieri non la tranquillizza. “Marinella cosa facciamo con il paziente per la cardiologia?”, domanda che riecheggia dall’altro corridoio dove altri medici ed infermieri continuano a lavorare, mentre io sono lì ferma con in braccio Anita. “Marinella, va a reparto?”. Ma certo, Marinella. Tutto diventa un po’ più chiaro, tutto diventa sequenziale, come l’abcde che mentalmente avevo fatto sulla mamma di Anita.

“Questa di Marinella è la storia vera, che scivolò sul fiume a primavera, ma il vento che la vide così bella, dal fiume la portò sopra una stella”.

Entro nella stanzina di ristoro del Pronto Soccorso.

Inizio a cullarla e a cantarle piano la canzone di Marinella. Ricordo solo quella strofa e gliela canto di continuo, così come di continuo stiamo camminando in su e in giù in quella stanzina dove gli infermieri cercano un minuto di tranquillità tra un triage e l’altro, tra un’urgenza ed un’emergenza.

 

Anche io cerco in quel posto un po’ di tranquillità per Anita.

Ora lì non piange più, ha in bocca il suo ditino che ogni tanto prende ogni tanto lascia.

“Ma il vento che la vide così bella …” Anita si addormenta.

 

Entra in stanza il direttore. È in questo ospedale da poco, non mi ha conosciuto quando pochi mesi prima arrivai in pronto soccorso con la testa piena di lunghe treccine africane per l’ultimo tirocinio di infermieristica. Ero tornata da due giorni dalla mia seconda missione in Africa: già sull’aereo avevo pensato “sarà difficile? Sarò all’altezza?”. Qualche mese dopo sarei tornata lì come dipendente: ogni turno mentre percorrevo il corridoio che dallo spogliatoio portava al pronto soccorso mi chiedevo: “sarò oggi all’altezza di quel posto?”.

La domanda è rimasta sempre la stessa. Il direttore invece non fece alcuna domanda sul perché nel suo pronto soccorso si ritrovava un’infermiera al primo incarico che cantava De Andrè con in braccio una bambina. Sorrise, uscì, mentre entrarono nella stanza le novità sulla mamma: tamponamento cardiaco, trasferimento in sala operatoria di cardiochirurgia.

Con la notizia arrivarono anche i familiari di Anita. Riconsegno Anita al suo papà.

 

Non ci diciamo nulla, ma in quel passaggio da un abbraccio all’altro, ho capito il vero obiettivo del pronto soccorso: riconsegnare una vita.

Prima di lavorarci, come la maggior parte delle persone, pensavo che gli operatori cercassero di perseguire tale obiettivo tra il caos e la fretta. Da infermiera ho compreso che quando tutto si focalizza nel riconsegnare questa vita vige straordinaria disciplina: in una situazione di emergenza, ogni individuo si sente responsabilizzato, “si forma una solidarietà diffusa, cala il livello di litigiosità, insomma per quanto possa sembrare assurdo, l’auto smette di perdere i pezzi quando supera i duecento chilometri orari”

 

Dopo Anita scelsi di non scendere più dall’auto chiamata pronto soccorso.

 

E un posto al sole ancora ci sarà!

venerdì, giugno 25th, 2021
di Mario Guarino

I tatuaggi, disseminati sul corpo emaciato, sono o tanti. Tutti monocromatici tranne quello sul collo che rappresenta una specie di diamante. Ma la scritta sull’avambraccio di sinistra spicca più di tutti. Sembra risaltare tra le macchie della pelle dovute alla terribile malattia. “Vichinga Vichi”, in un pessimo corsivo e di un bluastro sbiadito  che denuncia una qualità per nulla eccellente.

Aveva fatto capolino, nel pronto soccorso, un freddo giorno di febbraio. Il centodiciotto era stato allertato dalla responsabile del centro di accoglienza presso il quale aveva trovato un letto da qualche giorno. Il braccio e la gamba non le muoveva più e le parole erano meno comprensibili del solito. Certo, neanche prima Vichi si esprimeva bene, colpa dell’assenza di gran parte dei denti e del fatto che era straniera, ma si faceva capire eccome. Quella mattina no. Anche lei avvertiva che era accaduto qualcosa di grave.

“Donna, quarantasei anni senza documenti, viene trasportata in pronto soccorso per emiplegia brachio-crurale sinistra non databile.  Parametri vitali nella norma, Cincinnati positivo, codice giallo”.

La valutazione di Valerio al triage era stata tanto fredda quanto perfetta e l’accesso in sala gialla avvenne dopo pochi minuti. “E’ fuori finestra”. Le parole uscirono di getto dalla bocca di Natja come a voler sottolineare la perdita dell’unica opportunità. Andava a puttane la possibilità di fare la trombolisi nel tentativo di liberare l’arteria cerebrale occlusa e recuperare il danno motorio. Il senso di frustrazione, si palesava con una frase dal sapore romantico che faceva riferimento al tempo trascorso dall’inizio dell’evento. Le linee guida erano chiare, passate quelle ore dall’insorgenza dei sintomi, il rischio emorragico era nettamente superiore alla possibilità di successo di sciogliere il trombo.

Ma la storia di Vichi era ben più complessa.

AIDS, diagnosi conclamata e non solo sieropositività. Fino a qualche mese prima andava con l’autobus all’ospedale di malattie infettive per fare i controlli e le terapie necessarie. La pandemia aveva complicato tutto, l’ospedale era stato trasformato in Covid e gli ambulatori chiusi. Anche tra i virus c’è chi vince e chi perde.

La strada era stata la sua casa fino alla malattia. Poi aveva trovato un letto in quel centro. L’AIDS le aveva tolto l’immunità e le aveva donato la priorità. Ma proprio ora che aveva trovato un tetto era “fuori finestra”. La vita è bizzara come i capelli di Vichi, esili di natura e scolpiti da sforbiciate improvvisate. Da allora nessuno la vuole. Vichi non esiste per il mondo dei diritti. In quanto senza fissa dimora non può andare nelle strutture di riabilitazione. Siccome ha bisogno della fisioterapia nessun centro di accoglienza la prende. Poi l’AIDS peggiora il tutto. Le lungodegenze rifiutano la richiesta di trasferimento perché, a dir loro, “non attrezzate a gestire i pazienti con AIDS” e le residenza per anziani non accettano persone che hanno meno di sessantacinque anni.

Gina impazzisce, ma non si arrende. “Embè fosse l’ultima cosa che faccio prima di andare in pensione tra un mese, io un posto glielo trovo”. E’ l’assistente sociale dell’ospedale. Con la naturale eleganza e bellezza dei suoi anni portati splendidamente, Gina è feroce con le carte e la burocrazia, e che non si arrenderà lui ne è certo.

L’altro avambraccio di Vichi ospita un tatuaggio con il nome di Fabri Fibra. “Mi piace assaje”, risponde alla domanda fatta solo con gli occhi dal medico curioso durante il giro. Quell’assaje è il segno di un’altra infezione fatta di inflessioni dialettali trasmesse a dallla sua nuova città. “Perché no piace a te Fabri Fibra?” Chiede di tutto punto al medico curioso, relegandolo all’angolo della risposta. “A me no ma…” “e Clementino? A me piace assaje pure Clementino, è forte lui dai…”, “beh si Clementino piace anche a me”. ”Azz tenevamo il primario rap e non lo sapevamo”, aggiunge sottovoce Gennaro l’operatore socio-sanitario dal giallo dei suoi baffi intrisi di nicotina e catrame.

Il tempo di finire il giro, organizzare gli esami da fare secondo le diverse priorità, ed i bicchierini di plastica, ripieni a metà con il caffè appena fatto da Gennaro, riuniscono il gruppo in una breve pausa. Appena un sorso e, preso da un’illuminazione, lui telefona alla sua amica Francesca, giornalista e molto conosciuta nell’ambito musicale. La richiesta è semplice, far sentire meno sola Vichi. Lei conosce cantanti ed attori grazie alla sua professione, hai visto mai?

Napoli ti sorprende per la rete. Ne ha discusso tante volte con il suo amico scrittore. I rapporti, tra le persone che hanno i piedi nel mare, hanno un peso specifico diverso. Come se Partenope tenesse uniti i suoi figli attraverso i lunghi e folti capelli.

Basta poco”, ripete al telefono, “magari un saluto” e dopo qualche ora arrivano il video dell’attore Ciro Giustiniani e della cantante Monica Sarnelli.

Vichi è felicissima. Chiama accanto a se Maurizio, il suo infermiere preferito, per vedere e condividere quei video. Sorride a gengive esposte. Monica Sarnelli le dedica la canzone che fa da sigla ad una famosa fiction da ben venticinque anni e che le ha portato fortuna con l’augurio che ne porti un po’ anche a Vichi, la vichinga.

Ah a proposito…”, chiede il medico curioso, “i vichinghi sono forti, quindi anche Vichi lo è”. “Si”, risponde certa e precisa, “i vichinghi sono forti, ma muoiono presto!

Il display del telefonino lascia andare il refrain della canzone di Monica, lasciando ammutoliti ed attoniti tutti nella stanza di ospedale che fa da casa a Vichi, “…se questa vita siamo noi, lascia le cose che non vuoi. E’ così poco il tempo per amare, e un posto al sole ancora ci sarà!





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