IL BLOG DI SIMEU

 

PUNTI DI VISTA

di Paolo Pinna Parpaglia

 

“Ti giuro che ha rifiutato il ricovero! La moglie ed almeno altri 3-4 operatori presenti lo possono testimoniare”. Esordisce così l’incredula invocazione-sfogo del collega dopo che gli viene notificato dal GUP il rinvio a giudizio per omicidio colposo. La motivazione: non avrebbe adeguatamente informato il paziente, poi deceduto, dei gravi rischi cui sarebbe potuto andare incontro rifiutando, appunto, il ricovero.

 

Il nostro lavoro ci presenta quotidianamente occasioni nelle quali ci troviamo a dover persuadere, o quantomeno incoraggiare, i pazienti ad accettare le cure che noi stessi proponiamo; forse, però, non sempre lo facciamo nei modi corretti. E poi, siamo veramente sicuri che la nostra proposta sia anche la scelta migliore per quel paziente, dal suo punto di vista?

Ecco, probabilmente siamo lacunosi proprio nel dare il giusto valore al “punto di vista” dei nostri pazienti!

 

La legge 219 del 2017 (GU n.12 del 16-1-2018) ha stabilito in maniera chiara che è il paziente a decidere sulle cure a cui sottoporsi, mentre il medico (e l’operatore sanitario in generale, con livelli di responsabilità differenti) deve stabilire una “relazione di cura” con il paziente e metterlo nelle condizioni di operare una scelta consapevole.

 

Va da sé che il medico possa e debba mettere in campo tutta la competenza e l’autorevolezza di cui dispone, per ricercare il giusto equilibrio fra l’evidenza scientifica e la valorizzazione dell’autonomia decisionale del paziente; ma nulla di più!

>>> Per i dettagli in tema di consenso informato in emergenza-urgenza, si rimanda al documento di consenso intersocietario (SIMEU, SIMLA, GIBCE), pubblicato sul sito SIMEU (www.simeu.it) alla pagina del centro studi.

Non essendo un esperto di bioetica clinica né tantomeno di giurisprudenza sanitaria, mi guardo bene dall’approfondire la questione sotto questi profili, ma da medico urgentista mi limito ad alcune considerazioni di ordinaria quotidianità.

 

Sappiamo, da un’indagine condotta da SIMEU nel 2019, che l’89% dei medici d’urgenza Italiani (in maggioranza di PS) è convinto che la volontà del paziente debba essere valorizzata; dato sicuramente pregevole, se non fosse che quasi la metà di essi la colloca comunque in secondo piano rispetto all’obiettivo terapeutico stabilito dal medico stesso.

 

Vittime di un retaggio culturale duro a morire, noi medici siamo tendenzialmente inclini verso un atteggiamento paternalistico e fortemente asimmetrico nei confronti dei pazienti, spesso, va detto, sollecitato dal paziente stesso, che in talune circostanze – quantunque rare – rischia di degenerare in vera e propria “arroganza epistemica”, in virtù della quale pretendiamo di conoscere con assoluta certezza cosa è meglio per il paziente.

 

Quando poi il tempo da dedicare al paziente – quindi anche il tempo per riflettere – viene pericolosamente compresso dalle circostanze, da un legittimo rifiuto della scelta (unilaterale) che dovesse stuzzicare la personalità narcisistica del medico (quale medico non lo è almeno un po’?), potrebbe scaturire la preclusione per eventuali ipotesi alternative di cura.

In contesti operativi in affanno, qual è il PS, come è possibile riuscire a conciliare il pieno diritto all’autodeterminazione del paziente (da valorizzare, a rigore, per ogni singolo esame o trattamento) con la vitale necessità di semplificare e velocizzare i percorsi clinici?

 

Tralasciando le situazioni di reale emergenza per le quali può essere invocato lo stato di necessità (art. 54 CP ed art. 35 codice deontologia medica) e le situazioni in cui il paziente non può per varie ragioni esprimere un consenso, ovvero esista una disposizione anticipata di trattamento (a proposito, siamo sicuri di considerare sempre questa eventualità?) su ogni singolo paziente siamo chiamati ad effettuare due prestazioni combinate e distinte: garantire il diritto alla salute e garantire il diritto all’autodeterminazione.

 

Su questo aspetto il punto di vista del giudice è piuttosto chiaro, l’omissione informativa si deve considerare come “astratta capacità plurioffensiva” (Corte di Cassazione, sezione III civile. N. 28985/2019), laddove da una non corretta informazione (lesione del diritto di autodeterminazione) ne derivasse anche un danno alla salute (lesione del diritto alla salute).

 

Se dunque il consenso ad una proposta di cure presuppone un’informazione puntuale ed esaustiva su vantaggi e rischi potenziali, il suo rifiuto, data la più alta probabilità di un conseguente danno alla salute (d’altronde, se il medico l’ha proposta …) richiede ancora maggiore chiarezza ed impegno, in altri termini: più tempo da dedicarvi.

 

Tanto ciò è vero che il legislatore ha previsto che la comunicazione fra medico e paziente sia da considerarsi tempo di cura a tutti gli effetti e non fa niente se, dal nostro punto di vista, il tempo per le cure oramai manca proprio … trovarlo sarà, come sempre, un nostro problema.

 

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