IL BLOG DI SIMEU

 

Lo sconforto della Medicina d’Urgenza

di Federico Marini

 

Caro Sistema Sanitario Nazionale,

 

mi presento:  mi chiamo “Medicina d’Urgenza”.

 

Non mi sto presentando per caso, lo sto facendo ora perché, nonostante siano passati oltre 13 anni dalla mia prima apparizione, non abbiamo ancora avuto modo di conoscerci veramente. Quantomeno sembra che la mia presenza sia ancora in penombra rispetto alla restante parte delle colleghe “Medicine” a tuo carico e sento il bisogno di chiarire alcune questioni che, ad oggi, non sono state ben definite.

 

Il mio ruolo è quello di gestire le condizioni acute, riuscire a stabilizzare il paziente riconoscendo la causa che lo ha portato alla mia attenzione ed affidarlo alla collega che ha più esperienza nella gestione terapeutica della malattia. In poche parole gestisco l’emergenza o l’urgenza clinica.

 

Prima di essere “d’Urgenza” però, io sono “Medicina” e come tale mi occupo della persona che ho davanti. Se mi si chiede un bicchiere d’acqua per la sete, offro l’acqua. Se mi si chiede un lenzuolo lo porgo. Se il paziente deve essere spostato in un’altra zona dell’ospedale per ricevere altro tipo di assistenza lo sposto. Nonostante non sia strettamente pertinente alla mia specializzazione, lo è sicuramente per la mia scelta di vita.

 

Ognuna di noi prima di specializzarsi ha scelto di essere “Medicina”, ognuna di noi in un momento della vita ha avuto quell’idea di poter far del bene, perché è da questa idea che nasciamo; dal tentativo di evitare la sofferenza altrui, che è probabilmente il desiderio più puro dell’essere umano.

Anche io come le altre nasco così, pura e sognatrice, combattente ma caritatevole.

 

Probabilmente essendo giovane ricordo ancora molto bene il giuramento di Ippocrate o forse l’appellativo “d’Urgenza” mi porta a correre in aiuto anche quando non sarebbe proprio di mia competenza, fatto sta che l’emergenza pandemica l’ho praticamente gestita tutta io, con l’aiuto di alcune colleghe che, attraverso i media, davano le loro indicazioni…a distanza.

 

Lo so che noi giovani dobbiamo fare la gavetta e che se c’è un problema rognoso, scomodo o semplicemente pesante è l’ultimo arrivato che deve farsene carico; il perché non mi è stato mai completamente chiaro ma “si è sempre fatto così” e lo accetto.

 

Ciò che però digerisco con fatica è la totale assenza di aiuto da parte di chi, come me, ha scelto di aiutare il prossimo, di essere dalla parte del bisognoso, dalla parte dell’essere umano.

 

Le condizioni morbose che portano il malato da noi non sono mai sempre le stesse, lo sappiamo; la collega Igea si occupa proprio della variabilità epidemiologica delle malattie, studiando come l’interazione genotipo-ambiente condizioni quello che poi io ritrovo al triage.

 

Quindi io mi organizzo e segnalo, con il ruolo secondario di sentinella, la variabilità e l’eventuale cambio di incidenza delle malattie di fronte la mia porta.

 

Chi mi conosce sa che sono molto umile, vedo la morte ogni giorno, non riuscirei mai a vantarmi di aver salvato qualcuno quando accanto ne ho persi altri cinque, al tempo stesso riconosco però la mia capacità di adattamento alle condizioni di emergenza, credo di essere nata proprio per questo!

 

Ad oggi però sembra che questa situazione io la stia gestendo completamente da sola. Nella mia unità ho pazienti della collega “Cardiologia” in attesa di coronarografia, instabili, a rischio di vita, buttati in una barella. Ho pazienti della collega “Neurologia” con meningiti batteriche accanto a pazienti immunodepressi. Gestisco pazienti della collega “Ematologia” destinati ad isolamento nel percorso dedicato alle malattie infettive. Osservo occlusioni intestinali che durano settimane senza indicazione da parte della collega “Chirurgia” né ad intervento né ad andare a casa. Curo polmoniti della collega “Pneumologia” mandandoli a casa prima del ricovero. Così come i pazienti con sincope, quelli con scompenso cardiaco con indicazione ad “ottimizzazione terapeutica prima del ricovero”, come se la specialista fossi io. Senza parlare delle polmoniti Covid della collega “Infettivologia”, ma lei lo sappiamo, questo periodo è stata impegnata in diverse trasmissioni televisive, forse sarebbe meglio lasciarla riposare; e così li ricovero da me, con tutte le indicazioni stringenti e soffocanti per evitare la diffusione del virus…che valgono solo in Ospedale.

 

Tutto questo mentre una paziente viene ricoverata in stanza singola, privata per rifarsi il seno.

 

Ciò significa che io, oltre a gestire la fase acuta, sto prendendo il ruolo delle mie colleghe, pur non avendone competenza. Nonostante la megalomania che contraddistingue chi decide di seguirmi, l’assenza di un percorso dedicato e di una valutazione da parte delle colleghe più esperte, non fa altro che danneggiare il paziente, il malato che si presenta in pronto soccorso, ovvero, potenzialmente, ognuno di noi.

 

Il tutto viene gestito mentre sento il terreno tremare sotto le gambe, perché non ho più le forze: chi mi ha scelto è stanco e molte persone mi hanno abbandonato, con le poche unità rimaste faccio fatica persino ad essere “Medicina” … e me ne vergogno.

 

Caro SSN, potrei non riuscire più a gestire tutto questo, se da parte delle “colleghe” e da parte tua non ci sarà una decisa presa in carico delle condizioni a loro destinate.

 

Chiedo una responsabilizzazione da parte di tutta la politica, perché ad oggi, la mia sensazione è che sto gestendo da sola la mutevolezza patologica alle nostre porte.

 

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