IL BLOG DI SIMEU

 

Dopo Anita.

Direttamente dall’ EM STORY CONTEST della SUM.SCHOOL SIMEU appena conclusa, la testimonianza nominata vincitrice “per aver utilizzato le immagini, i rumori e gli sguardi come strumento di narrazione. L’uso dei nomi propri per indicare le persone come stile di approccio e cura. Il ricorso alle canzoni come rievocazione del proprio vissuto messo al servizio della persona nel percorso di cura”. Da un’idea del Segretario Nazionale dott. Mario Guarino, giuria presieduta dallo scrittore Maurizio De Giovanni

Mara Tesei ne è l’autrice. Originaria di Perugia, presta servizio presso il PS di Montepulciano dopo aver partecipato a tre missioni in Africa con una ONG.

 

Piccoli pezzi di vetro cadono come polvere dai vestitini che piano piano le togliamo.

È vigile, piange.

Non ha evidenti segni di contusione e non notiamo ferite una volta rimasta solo con il pannolino.

Si chiama Anita, un anno di età.

 

Un’infermiera del centodiciotto entra nella stanza e ci consegna le borse che erano vicino a lei nell’auto. Sono delle buste di carta di negozi per bambini, dentro dei vestitini con ancora il cartellino del prezzo attaccato. Chissà Anita come può averti immaginato bella con questi addosso la tua mamma. Invece ora sei quasi nuda con una dottoressa e due infermiere che immaginano cosa possa averti lasciato addosso l’impatto dell’auto. Ecografia ed esami di sangue negativi. Nulla, addosso non ti ha lasciato nulla. E sulla tua mamma? Cosa lascerà sulla tua mamma questo pomeriggio in cui siete uscite insieme e tornando la vostra auto ha avuto un impatto frontale con un’altra auto? Ora siete divise dalle porte scorrevoli della sala rossa: ogni volta che si aprono è come se la sala respirasse. Con lo stesso ritmo con cui le porte scorrevoli si aprono e si chiudono penso a quello che gli infermieri stanno facendo sulla mamma. Gestione delle vie aeree, accesso venoso. Io però non sono dentro con loro, sono dall’altra parte del corridoio eppure: elettrocardiogramma, esami di sangue, ecografia.

 

Io però ho in carico Anita, i familiari a casa non rispondono, né i nonni né il papà.

Eppure: emogasanalisi, tac. Questo ritmo di pensieri non la tranquillizza. “Marinella cosa facciamo con il paziente per la cardiologia?”, domanda che riecheggia dall’altro corridoio dove altri medici ed infermieri continuano a lavorare, mentre io sono lì ferma con in braccio Anita. “Marinella, va a reparto?”. Ma certo, Marinella. Tutto diventa un po’ più chiaro, tutto diventa sequenziale, come l’abcde che mentalmente avevo fatto sulla mamma di Anita.

“Questa di Marinella è la storia vera, che scivolò sul fiume a primavera, ma il vento che la vide così bella, dal fiume la portò sopra una stella”.

Entro nella stanzina di ristoro del Pronto Soccorso.

Inizio a cullarla e a cantarle piano la canzone di Marinella. Ricordo solo quella strofa e gliela canto di continuo, così come di continuo stiamo camminando in su e in giù in quella stanzina dove gli infermieri cercano un minuto di tranquillità tra un triage e l’altro, tra un’urgenza ed un’emergenza.

 

Anche io cerco in quel posto un po’ di tranquillità per Anita.

Ora lì non piange più, ha in bocca il suo ditino che ogni tanto prende ogni tanto lascia.

“Ma il vento che la vide così bella …” Anita si addormenta.

 

Entra in stanza il direttore. È in questo ospedale da poco, non mi ha conosciuto quando pochi mesi prima arrivai in pronto soccorso con la testa piena di lunghe treccine africane per l’ultimo tirocinio di infermieristica. Ero tornata da due giorni dalla mia seconda missione in Africa: già sull’aereo avevo pensato “sarà difficile? Sarò all’altezza?”. Qualche mese dopo sarei tornata lì come dipendente: ogni turno mentre percorrevo il corridoio che dallo spogliatoio portava al pronto soccorso mi chiedevo: “sarò oggi all’altezza di quel posto?”.

La domanda è rimasta sempre la stessa. Il direttore invece non fece alcuna domanda sul perché nel suo pronto soccorso si ritrovava un’infermiera al primo incarico che cantava De Andrè con in braccio una bambina. Sorrise, uscì, mentre entrarono nella stanza le novità sulla mamma: tamponamento cardiaco, trasferimento in sala operatoria di cardiochirurgia.

Con la notizia arrivarono anche i familiari di Anita. Riconsegno Anita al suo papà.

 

Non ci diciamo nulla, ma in quel passaggio da un abbraccio all’altro, ho capito il vero obiettivo del pronto soccorso: riconsegnare una vita.

Prima di lavorarci, come la maggior parte delle persone, pensavo che gli operatori cercassero di perseguire tale obiettivo tra il caos e la fretta. Da infermiera ho compreso che quando tutto si focalizza nel riconsegnare questa vita vige straordinaria disciplina: in una situazione di emergenza, ogni individuo si sente responsabilizzato, “si forma una solidarietà diffusa, cala il livello di litigiosità, insomma per quanto possa sembrare assurdo, l’auto smette di perdere i pezzi quando supera i duecento chilometri orari”

 

Dopo Anita scelsi di non scendere più dall’auto chiamata pronto soccorso.

 

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