‘NZULARCHIA - Dott. Mario Guarino

‘NZULARCHIA
Dott. Mario Guarino _ Direttore MCAU CTO Azienda dei Colli di Napoli
 
Quella mattina sentì piovergli addosso, all’improvviso, la consapevolezza che aveva ancora tanto da imparare, ma anche che era circondato da gente con gli attributi e tanta esperienza.
Giannino era conosciuto nelle “case nuove” come “‘o riccio”.
Agglomerati di orrendi palazzi costruiti negli anni ’50, le “case nuove” si spandevano dalla stazione al porto. Un luogo multietnico da sempre, intreccio di viuzze tra le puttane e il mare. Longilineo, snello, baffo impertinente e brizzolato, ma con il classico alone giallo dovuto agli innumerevoli baci della nicotina, Giannino faceva l’infermiere da sempre. Fin da quando le siringhe erano in vetro temperato e, con gli aghi armati da un’anima di acciaio per evitare che si occludessero, passavano da un gluteo all’altro del quartiere. Viaggiavano nel bollitoio di acciaio il cui manico faceva anche da chiusura. “Sta arrivanno ‘o riccio, ‘o serengaro”. Il suono prodotto dall’andatura a passo svelto per le scale delle “case nuove”, produceva un rumore unico ed inconfondibile che ha fatto da colonna sonora horror a generazioni di bambini. Mai fallito un prelievo, mai “sgarrata” una vena. Giannino era una certezza nel pronto soccorso del Loreto Mare di fine anni ’90. Insieme a Lucia, Ritella, Gaetano, Carmelina, Gennaro ed Enzuccio, quell’avamposto di frontiera poteva contare su di una squadra composta da autentici professionisti.
Lui lo aveva capito dal primo turno in quel pronto soccorso e sapeva che, ad ogni timbratura del cartellino, avrebbe valicato la soglia di un mondo parallelo, incantato. Restò basito, ad esempio, quando gli dissero che Ritella non sapeva leggere. Ritella che non aveva mai sbagliato una terapia, una dose?! Ecco perché, una volta fatta la glicemia rivolgeva il reflettometro verso chi aveva richiesto l’esame. Dopo poche settimane, aveva imparato a fare le medicazioni, le immobilizzazioni e aveva anche capito che le vene dei “tossici” andavano prima immaginate e poi sentite, viste no, non ci sarebbe riuscito mai. Imparò chi fossero gli “scartiloffisti”, veri esperti nella gestione degli incidenti falsi, chi era “’o funaro” e a guardarsi bene da alcuni individui. Insomma, la squadra di supereroi, capeggiata da “‘o riccio”, lo aveva preso a ben volere. Si vedeva che il nuovo arrivato ci sapeva fare e gli piaceva quel mestiere, ma doveva essere guidato in quel mondo fatto di codici sconosciuti, di termini della “parlesia” e di abitudini strane.
Nel mondo regolare, si inneggiava all’happy-hour, al Loreto Mare, alle undici in punto, il battilocchio della masardona non poteva mancare. Era un “cult-time” come il tea delle cinque a Londra. Una pizza fritta arrotolata e completa, cioè ripiena di ricotta,cicoli,provola affumicata, pepe e pomodoro. Alla sua domanda “ma non si potrebbe avere un battilocchio un po’ meno completo?” La risposta del garzone al telefono fu fulminea “certo, come no… senza pomodoro!
Mentre sui navigli si faceva l’aperitivo, al Loreto Mare il battilocchio sanciva l’ora del “chiuditivo”.
Ma quella mattina gli piovve addosso all’improvviso la consapevolezza che aveva ancora tanto da imparare.
Il paziente era stato accorto nel racconto. Aveva dolore all’addome ed era stato già ricoverato l’anno prima perché aveva avuto la “’nzularchia”. Come d’incanto le pagine dell’Harrison gli si sfogliarono una ad una in mente, alla vana ricerca di un sintomo, un segno che avesse un seppur minima assonanza con quella parola: ”’nzularchia”. Girò il volto alla ricerca di uno sguardo d’intesa, di qualcuno che condividesse con lui l’ennesimo stupore. Nessuno. Il lavoro continuava come se quello che per lui era un neologismo, una parola sconosciuta, per tutti era parte di un lessico ben noto, forse arcaico ma proprio.
Quasi un quarto di secolo è passato, poco e tantissimo è cambiato e quella mattina ha sentito, ancora una volta, piovergli addosso all’improvviso la consapevolezza di avere ancora tanto da imparare.
Teresa, quarantaquattro anni ed un carcinoma della mammella che ha preso possesso di quasi tutti gli organi. Un pancione teso e lucido per l’ascite. Non è contattabile, lontana, confusa. La “’nzularchia”, pensa. Le indicazioni dategli da Giannino e la sua curiosità, gli hanno portato ad approfondire. Così, grazie all’avvocato Renato De Falco e al suo prezioso libro “alfabeto napoletano” adesso sapeva.  Teresa aveva la “’nzularchia”, l’ittero! Ago di Verres da dodici, meopa erogato con maschera collegata alla valvola on-demand, servente con tutto il necessario, scialitica focalizzata sull’addome e vanno via nel tempo circa sette litri di liquido ascitico. Gli sguardi di chi lavora su quella procedura, incorniciati dai confini della mascherina, si incrociano. L’eloquenza non parlata racconta della giovane età, dei familiari preoccupati, del marito in un incessante va e vieni dal triage per chiedere, sapere. Il drenaggio, lasciato in sede per evitare di doverla ripungere, lacrima ascite nelle ore successive. D’incanto gli occhi di Teresa si spalancano. Grandi e dolci contornati da una sclera gialla come l’oro, “la ‘nzularchia” grida lui, raccogliendo gli sguardi curiosi di Anita e Gabriella. “La ‘nzularchia” ripete. Ossessionato dal ricordo di Giannino, dell’avvocato De Falco e del Loreto Mare. Sarebbe stato complesso, lungo e, forse, inappropriato raccontare di ‘o riccio e di Ritella. Così si limita a spiegare l’etimologia dell’antica parola che, secondo alcuni viene dal latino “sub arquatus”, cioè sotto l’influsso dell’arcobaleno. La sua spiegazione cade nel vuoto rispetto al dolore di vedere una giovane donna vittima di una malattia incontrastabile. Le ore successive hanno visto un miglioramento inaspettato di Teresa. La stanza d’isolamento in cui è accolta, in attesa dell’esito del tampone, è un va e vieni di persone bardate di tutto punto. Racconta della sua malattia sin dall’inizio. Da quella mattina in cui si accorse di una “nocciolina” sul petto. L’incipit di un dramma. Racconta dei figli, dei progetti sospesi e della monotona vita di quella provincia, ai confini della periferia di Napoli. Il suo paese è diventato famoso all’improvviso anni fa per un libro di temi di bambini raccolti da un bravissimo maestro. Ma ora sta proprio meglio, anche la stanchezza si è assopita grazie al ferro ad elevata concentrazione che le è stato somministrato appena giunti gli esami. Riesce a stare in poltrona ed appare raggiante come il sole, per il colore ed il sorriso. “Io speriamo che me la cavo”, esclama rivolgendosi a lui che da poco le ha spiegato il significato di “’nzularchia”.
Ma aveva ancora tanto da imparare e quella mattina ha sentito, ancora una volta, piovergli addosso all’improvviso tutta la consapevolezza di questo.
Il tampone è positivo!
Non bastano il cancro, le metastasi, il coma, la “’nzularchia” … non basta. Spetta a lui, per forza, lo deve fare lui. Comunicare a Teresa che non può andare a casa, che anche se sta meglio e proprio casa sua sarebbe il posto migliore, non può. L’attende l’ambulanza per un altro ospedale. L’attende un altro isolamento. Come coperto da una nube, il sole della “‘nzularchia” si oscura. Non una parola, solo uno sguardo ed un abbraccio mediato da tuta e visiera. Dopo poco la barella di biocontenimento porta via Teresa e la “‘nzularchia”, una donna e la sua storia.
Rientrando in sala, lo colpisce il disegno di un arcobaleno su di una parete della shock-room “andrà tutto bene” ...
Pensa alla ’nzularchia, a Teresa e sente d’improvviso piombargli addosso la consapevolezza che ha tanto, ma tanto ancora da imparare.

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