CHLOE - Dott. Angelo Farese

CHLOE
Dott. Angelo Farese _ Infermiere Pronto Soccorso CTO - Napoli
 
Tardo pomeriggio, uno dei tanti. Uno dei tanti per modo di dire, perché risuona blasfemo da quando il covid ha messo bandiera nel nostro Paese. Ma quello è stato un pomeriggio davvero diverso. Forrest Gump avrebbe detto che è come una scatola di cioccolatini, in pronto soccorso non sai mai quello che ti capita, cosa ti arriva.
Prima del triage c’è la camera calda, fatta di tendoni che si sollevano meccanicamente al passaggio dalle fotocellule per accogliere, in sicurezza, ambulanze ed automobili. Noi, come soldati di trincea, sediamo alla workstation in attesa dell'imprevisto. È come essere a teatro, si apre il sipario ed inizia lo spettacolo, sempre nuovo, sempre diverso.
Di solito in triage siamo in due e, da quando è iniziata l’era covid, abbiamo dovuto trasformare le stanze dei codici colore in stanze di isolamento.
Alcune sono state attrezzate in postazioni di rianimazione con pazienti intubati e pronati.
Quel pomeriggio, il triage è nelle mani di Carmela.
Tuta bianca, mascherina e occhiali di protezione, se non fosse in turno con me la scambierei per Armstrong quando atterrò sulla luna con la Apollo. Saranno state le cinque del pomeriggio, mi trovavo in una delle tante stanze di isolamento con una paziente per la terapia, quando sento gridare dal corridoio "rossoooo"! Strano mi dico perché Emanuela in turno non c'è e di solito è lei che porta jella.
Esco dalla stanza di corsa e in affanno perché la mascherina ti fa rirespirare la tua anidride carbonica con una perenne nausea.
Sotto le tute idrorepellenti si suda ad ogni minimo sforzo come quando ero in Sierra Leone durante l'ebola. Si appannano le visiere, cala il sipario e sembra di vedere attraverso il vetro di una doccia calda per cui sei tentato di tirarla via, se l'emergenza è brutta brutta. Intravedo dalla stanza Carmela correre dal triage come una saetta nella shock-room, seguita da Luca che riconosco dagli occhi azzurri. Porta qualcosa in braccio. 
Chloe ha soli tre anni ed è priva di coscienza. Carmela in breve racconta che al triage, la giovane madre, una volta aperto il tendone della camera calda, era entrata piazzandole la bambina fra le braccia credendo fosse morta. Luca parte con il GAS e, con inusuale delicatezza, inizia il massaggio. Ambu, reservoir, ossigeno… la piccola non reagisce, continua ad avere gli occhi chiusi e a non rispondere agli stimoli dolorosi. Da fuori ci dicono che la bimba è caduta a casa battendo la testa, un trauma cranico. Come in una morsa, Luca continua a strizzare il pallone mentre io mi accingo a prendere una cannula di Mayo (non Di Maio altrimenti sarebbe spacciata). Vado per posizionarla fra i denti della piccola che subito serra in un morso, si muove sta per aprire gli occhi e lì, in una frazione di secondo mi balza fra i ricordi in un flash-back la paura che avevano i pazienti sierraleonesi durante l'ebola, quando ci vedevano arrivare come marziani sotto i tutoni gialli con gli scafandri, si vedevano solo gli occhi, lo sguardo, la paura.
Suggerisco così ai ragazzi di allontanarci e non appena avrebbe aperto gli occhi di sorridere come ad una festa, altrimenti si sarebbe spaventata.
Chloe sgrana gli occhioni poco dopo e si guarda incuriosita intorno. Sorride e pure noi, chissà forse per un attimo ha pensato di trovarsi in un cartone animato dei Teletubbies. Iniziamo a fare i pagliacci e lei ride di gusto sempre più. Ci guardiamo increduli, la piccola sta bene e, come d'incanto, inizia a parlare ininterrottamente come una vecchia radiolina anni ’60.
È buffa, simpaticissima, ha la parlantina di una tipica “napulegna”. Luca si emoziona e la stringe forte al petto. Entra la madre in lacrime mentre usciamo dalla shock-room con Chloe fra le braccia, come uno scudetto strappato alla Juve, sollevandola in aria nel corridoio del Pronto Soccorso. Si vede il nonno che varca la porta scorrevole a vetri correre verso di noi con andatura barcollante, si inginocchia al centro del corridoio in lacrime, come per gridare “miracolo, miracolo!” Ci ringrazia, ci bacia le mani e si inginocchia ai nostri piedi. Mario Merola avrebbe detto: “’e figlie so piezze ‘e core!” Segue la nonna dal volto vissuto e scavato dalle rughe che fungono da canali per le lacrime. Giunge anche il padre di corsa dal lavoro piangendo per il terrore e la gioia di aver rivisto la sua creatura.
In questo tempo sospeso, il pronto soccorso si è fermato del tutto. La spia rossa intermittente con la scritta codice rosso continua a lampeggiare, ma ora sa di festa.
La paziente più piccola ha avuto priorità assoluta e i pazienti in attesa, muti. Uno strano silenzio,
e la gioia sul volto e nell’animo di ognuno in quel pomeriggio di metà marzo nel pronto soccorso.
Facciamo un altro giro con Chloe nel corridoio colorato dalle strisce a terra dei codici colore. Adora parlare, è assai curiosa, così decidiamo di farle conoscere il capitano della nostra baracca e, per farle capire che è il più grande a comandare e prenderlo un po' in giro, soprannominiamo il nostro primario nonno Mario. È quello con più esperienza di tutti e non solo, è anche il nostro sacco da pugile certe volte, è uno che sa stare al gioco, un Patch Adamas anche egli “napulegno”. Così la piccola fra le braccia di Carmela comincia a chiamare a voce alta e stridula "Nonno Mario… Nonno Mario".
Cominciano le risate, Mario regala delle caramelle alla piccola in cambio di un bacio e si conclude così, con una foto ricordo, una delle tante storie a lieto fine ai tempi del covid in pronto soccorso.

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