E CHI LA CONOSCEVA, CHI L’AVEVA MAI SENTITA PRIMA?! - Dott.ssa Maria Antonietta Castellone

E CHI LA CONOSCEVA, CHI L’AVEVA MAI SENTITA PRIMA?!
Dott.ssa Maria Antonietta Castellone _ Infermiera Pronto Soccorso MCAU CTO Napoli
 
Erano i primi giorni di febbraio. La televisione mostrava in continuazione filmati di ospedali pieni di persone che morivano dopo poche ore.  Whuan in Cina. Ma chi l’aveva mai sentita prima?!  La Cina è lontana, pensavamo io e Pina. All’inizio si diceva fosse una semplice influenza. Un’epidemia, certo, ma che non sarebbe mai arrivata a noi. I giorni passavano ed i protocolli del triage cambiavano di giorno in giorno. La cosa più nuova era la comparsa dei criteri “epidemiologici”.
La sensazione era quella di una giornata serena ma con il mare che si agita sempre più.  Il primo caso in Lombardia ci fece capire che la tempesta era vicina, che tutte le precauzioni previste non erano eccessive. Come le onde del mare in burrasca, aumentavano anche le nostre paure. A volte difficili da gestire, da metabolizzare.
Lo ricordo perfettamente.
Era il pomeriggio dell’undici marzo, un turno in regime di straordinario come tanti altri. Al triage arriva Luigi. Sessantasette anni portati non benissimo.  Accompagnato in auto da due figli e dalla moglie. Alla prima valutazione non sembra star male.  
Il primario, ci tiene assai. Lo chiama quick-look, ovvero il triage del “vascio” (del basso). Lui paragona il pronto soccorso ad una di quelle abitazioni di cui sono ancora pieni i quartieri spagnoli e la sanità, i “vasci” appunto. Piccoli monolocali a mutuo contatto con la strada. Le ridotte dimensioni dell’appartamento e la mancanza di un vero e proprio ingresso, rendono necessaria una prima e buona valutazione fatta sulla porta. Cioè devi capire subito chi ti sta entrando in casa e perché. Un mix tra la diffidenza e l’introspezione dell’altro.
Luigi non è pallido, non suda, e scende dall’auto da solo senza problemi, prima che Maria gli porgesse la sedia a rotelle e dopo avergli fatto indossare la mascherina chirurgica.
La compagnia di Daniele al triage, mi dà sicurezza. È esperto ed attento. Agostino è arrivato da poco nel nostro gruppo e lo segue già come un mentore. “Luigi perché è venuto da noi, cosa si sente?”  “Ho il fiato corto da qualche giorno”. Ci guardiamo attraverso gli occhiali di protezione. Uno sguardo d’intesa che dura un istante. “Siete stato al nord?” Luigi sorride “ma voi pensate a quel coronavirus, ma nooooo vi prego... certo mio figlio è tornato qualche giorno fa da Bergamo ma sta bene, tutti stanno bene a casa”. Angelo è fulmineo. Trasporta il paziente direttamente in sala isolamento seguito da Daniele.
Eccola che arriva. Attesa ma imprevedibile. Mostruosa ed ingestibile. L’onda della paura mi arriva addosso. Cerco il primario chiamandolo a voce alta come al solito. Dice che sono rompiscatole, brava ma rompiscatole come la suocera. Eccolo è al computer della shock-room che prescrive degli esami. “Un covid, ne sono certa è un covid… ora è in isolamento… ho paura!
HO PAURAAAAA.
Proprio come Luigi, ora anche io ho il fiato corto. Mi guardo intorno e vedo loro, i miei colleghi. Respiro, respiro ancora, e poi due respironi lunghi. Li guardo di nuovo e realizzo di non essere sola. Che l’onda, la maledetta onda non può travolgerci se stiamo uniti.
Il protocollo di vestizione, per accedere all’isolamento, viene seguito alla precisione in un assordante silenzio. Meno male che c’è Giovanni a tirare i muscoli del volto in un tiepido sorriso. E’ quasi due metri e la tuta gli va piccola, per cui è costretto a mettere due paia di calzari per non lasciare zone scoperte. Come astronauti entriamo in sala. Guarino visita il paziente e fa l’eco del torace. Ci spiega tutto, le linee B, la linea pleurica interrotta, i microaddensamenti subpleurici. L’emogas fatto da Daniele è pronto. L’importanza dei rapporti passa anche attraverso uno sterile pezzo di carta, un minuscolo scontrino. I rapporti ti fanno capire. Dal collega di turno al pieffe. L’ossigeno nel sangue ed il suo rapporto con l’ambiente, la difficoltà di vivere in questa atmosfera senza un aiuto. Il fiato corto, appunto. Il pieffe di Luigi è molto basso. Di corsa esami, tampone, e mentre il primario gli spiega che una strana bolla di plastica lo aiuterà a respirare meglio, provvedo a montare il casco. Il filtro sulla valvola peep è la priorità del momento. Fieramonte me lo ha spiegato bene, serve ad evitare la dispersione di goccioline infette, dei droplets. La radiologia è stata avvertita, prepariamo il percorso protetto e Luigi va. Dopo poco il referto confermerà il quadro di polmonite interstiziale.
Da piccola mi divertivo a guardare attraverso i vetri del bagno di casa del nonno. Lavorati, opachi, come un caleidoscopio rimandavano immagini lontane, deformi e fantastiche. Il quadro di “ground-glass” della tac mi riporta a quelle immagini, ma non mi divertono.
Però la paura è passata. Non ho più il fiato corto. Mi sento protetta dalla certezza, dal rigore delle cose fatte bene e dai miei colleghi.
Luigi è peggiorato. L’intubazione è stata una procedura scelta con dolore ma condivisa. A pancia in giù riposa nel bianco candore del propofol in infusione continua, tra monitor e pompe elastomeriche. L’esito, previsto, del tampone arriverà solo il giorno dopo.
Da quel momento è iniziato un tempo sospeso.
Ti trovi a lottare contro un nemico invisibile, infinitamente piccolo eppure tanto più grande di te. Da allora, pensieri orrendi abitano le notti insonni e pensi di non farcela. Pensi che quella maledetta onda possa sopraffare i tuoi muscoli agitati da interminabili bracciate. Ma non ti arrendi, non puoi perdere colpi, ancora tanti Luigi sono là ad aspettarti. E allora mentre aspetti che il bagno di clorina faccia effetto nella procedura di svestizione, pensi “e chi la conosceva Whuan?!”

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