ESSERE SPECIALIZZANDO IN MEU: NE SONO FIERO - Dott. Marco de Cataldis e la Scuola di Medicina di Emergenza e Urgenza

ESSERE SPECIALIZZANDO IN MEDICINA D’EMERGENZA E URGENZA: NE SONO FIERO
Dott. Marco de Cataldis e la Scuola di Medicina di Emergenza e Urgenza _ Policlinico Umberto I, Roma
 
I Colleghi dell’università, che hanno intrapreso strade differenti, bonariamente ti prendono in giro considerando gli emergentisti gli ultimi della classe. I professori e gli specializzandi più esperti ti insegnano subito che non esistono festivi, fine settimana liberi, notti serene nel proprio letto. Ma quando fai tuo questo messaggio, e crei un gruppo unito e forte con i tuoi colleghi, allora nessun imprevisto potrà coglierti impreparato.
Solo così la Scuola di Medicina d’Emergenza e Urgenza del Policlinico Umberto I ha potuto rispondere “presente!” non appena è stata chiamata alla mobilizzazione generale.
Abbiamo cambiato reparto, spostando pazienti fragili, bisognosi di ossigeno e infusioni continue, con delicatezza e rapidità, svuotando corridoi e stanze di presidi medici e mobilio. Lo abbiamo fatto due volte in una settimana. Questo è servito a mettere a disposizione un maggior numero di posti letto per accogliere pazienti Covid positivi e, contemporaneamente, per garantire la massima protezione e il miglior isolamento possibile ai nostri degenti.
Abbiamo le nocche spaccate dal continuo utilizzo di saponi, disinfettanti e guanti che spesso fatichiamo a reperire; il volto, al termine di un turno da 12 ore, solcato dai segni lasciati dalle mascherine divenute quasi dei beni di lusso.
Abbiamo scelto questo mestiere consapevoli del fatto che avremmo vissuto una vita fatta di duro lavoro. Ora iniziamo a renderci contro che i nostri sacrifici stanno diventando i sacrifici dei nostri cari. Siamo tutti possibili untori, e ciò significa autoisolarsi nel tentativo di proteggere chi amiamo. Perché dietro a chi adesso viene chiamato “eroe” c’è un esercito invisibile di mariti, mogli, figli, fidanzati, nonni, genitori, che vivono nell’ansia di scoprire che il loro “medico in famiglia” potrebbe contrarre il virus e ammalarsi gravemente.
Soffriamo, certo, ma ad ogni turno che inizia ci rimbocchiamo le maniche per dare il nostro contributo, grande o piccolo che sia, alla causa. E ogni volta che riusciamo a salvare una vita, tutti i sacrifici, nostri e delle nostre famiglie, vengono ampiamente ripagati.
Quando tutto ciò sarà finito, verrà il tempo dei dibattiti, delle critiche, delle responsabilità, auspicando che questo disastro ci insegni qualcosa. Speriamo che gli italiani, in primis i nostri politici, non abbiano memoria corta quando torneremo ad una vita normale.
Noi emergentisti eravamo gli ultimi, adesso siamo i primi. E siamo gli unici ad avere davvero il coraggio di guardare negli occhi un paziente giunto in PS e dirgli: “Andrà tutto bene”.

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