È COME UN TERREMOTO - Dott. Roberto Cosentini

È COME UN TERREMOTO
Dott. Roberto Cosentini _ Primario della Medicina d’Urgenza dell’AO Papa Giovanni XXIII di Bergamo
 
Fonte Repubblica.it - Coronavirus, il primario di Bergamo: “È come un terremoto. Ogni sera una scossa e non si vede la fine"
Estratto da articolo di Giampaolo Visetti, pubblicato 11 marzo 2020
 
«La Lombardia ormai è l’epicentro di un terremoto che sembra non finire mai. Ogni pomeriggio arriva una scossa e gli ospedali scoppiano. Se non riusciamo a trovare subito altri letti, più medici e infermieri, in queste condizioni possiamo resistere ancora per poco». Roberto Cosentini, milanese, 60 anni, è il primario della medicina d’urgenza dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo e dirige il centro Emergenza di alta specializzazione (Eas), all’avanguardia in Italia nello studio della ventilazione non invasiva.
Da quasi tre settimane, assieme ai 26 medici e infermieri della sua équipe, non lascia il reparto, prima linea nazionale della lotta contro il Covid-19. Cosentini è un clinico esperto e pacato, proprio a Wuhan si è confrontato con i colleghi cinesi sulla crisi dei problemi respiratori acuti. Per la prima volta però, anche in lui «una profonda preoccupazione» affianca ora la fiducia. «Il problema — dice a Repubblica — è che la dinamica innescata dal coronavirus è già cambiata. Adesso arrivano nel mio ospedale 60-80 contagiati al giorno. Sempre di più, ma in particolare tutti insieme, tutti gravi, di ogni età e fino a prima del contagio sani e forti. Se questa ondata nuova non cala, il sistema sanitario va verso il collasso: innescato da quella che possiamo paragonare ad una catastrofe naturale».
Perché equipara la nuova emergenza a un terremoto?
«Per la ciclicità delle crisi. Nei primi giorni del contagio, gli infetti erano spalmati lungo tutta la giornata e si presentavano con febbri leggere e bronchiti modeste. Adesso seguono il picco febbrile del pomeriggio e arrivano già con polmoniti gravi, che richiedono terapie intensive e respirazione assistita. Ogni giorno tre le 16 e le 18 arriva una scossa, ossia un’ondata di urgenze concentrate. Una situazione simile si verifica solo durante i terremoti: questa volta però siamo alla terza settimana e non si vede la fine».
Qual è la causa del mutamento?
«I primi ad essere aggrediti dal virus sono stati gli anziani con una somma di patologie. Adesso il contagio attacca anche i giovani e i più sani, quelli che hanno resistito a casa più a lungo, curandosi con i farmaci conosciuti. Non siamo più alle influenze leggere, questa è l’ora delle polmoniti più gravi».
Perché prevede di non poter resistere più di qualche giorno?
«In una polmonite normale, i pazienti si sfebbrano nel giro di tre o quattro giorni. In quella da Covid-19 siamo in media tra otto e dieci giorni. In terapia intensiva i letti dei contagiati restano occupati il triplo, un tempo senza precedenti. Dobbiamo accelerare ancora la creazione di posti letto: il rischio è non poter più accogliere e curare chi rischia la vita».
Come vi state preparando a uno scenario che è già diverso rispetto all’inizio?
«Dividiamo i contagiati in tre categorie: gli intubati, quelli che hanno bisogno di una ventilazione sub-intensiva e i pazienti meno gravi. Queste tre categorie vanno ridistribuite in strutture diverse. Se restano nello stesso ospedale, il sistema non regge».
Quale soluzione propone?
«Se penso a Bergamo, a Milano e alle zone più colpite del Nord, da Piacenza a Cremona, si devono liberare subito spazi per le terapie sub-acute. Non bastano le strutture private e gli ospedali militari: vanno liberate e riorganizzate le case per anziani, o i centri che accolgono i non autosufficienti. Forse all’esterno non sono ancora chiare le quantità di contagiati che si stanno accumulando dentro gli ospedali. Mi preoccupa molto il pensiero di un simile scenario trasferito presto in altre regioni del Paese, in particolare al Sud».
Voi come vi siete organizzati?
«Abbiamo rivoluzionato i turni. Tra medici e infermieri siamo in 26, per ora uno solo si è ammalato. Un rianimatore, vestito con la tuta impermeabile, non resiste più di sei ore: oggi ne fa dieci o dodici. Anche tutti noi, con il camice plastificato e le protezioni non traspiranti, da sette ore arriviamo a dodici. Resistiamo dal 21 febbraio, ma saremo costretti a non cedere per settimane. Così ci siamo divisi in tre turni alleggerendo quello di notte: il virus insegna che l’onda monta nel pomeriggio».
Ha notato altri mutamenti nel contagio?
«Stiamo imparando molto. La sorprese più impattanti sono la lunghezza dei tempi di guarigione, l’aggressività del virus e la gravità delle polmoniti che si manifestano ora: questo sta facendo la differenza rispetto alle prime previsioni».
Perché l’Italia è tanto colpita?
«Non lo sappiamo e non è detto che tra qualche giorno questo dato resti reale. Non sappiamo nemmeno con certezza se un contagiato guarito può contrarre il virus di nuovo e in quale forma. I colleghi di tutta Europa ci stanno chiedendo dati e informazioni per non farsi trovare impreparati».
Cosa lascerà il Covid-19?
«Una sanità totalmente diversa e anche una società irriconoscibile. Le nostre città e il nostro modo di vivere non potranno più essere quelli di prima. Per questo mi permetto di scongiurare le persone di restare in casa: sappiano che non lo fanno per aiutare noi medici, ma per evitare di essere sconvolte da una catastrofe reale».

 


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