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Cochrane Corner: I corticosteroidi nel trattamento dei pazienti affetti da sepsi

giovedì, aprile 7th, 2016

Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

Su Twitter: @P_Balzaretti

 

Conoscenze attuali

L’impiego di steroidi nella sepsi ha una lunga storia. Inizialmente furono proposti trattamenti con alte dosi per brevi periodi, la cui è efficacia è stata smentita da alcune revisioni alla metà degli anni’90 (1). Per questo motivo sono stati proposti regimi terapeutici a basati su dosi più basse, ma le evidenze a riguardo risultano tutt’ora contraddittorie con i due più importanti trial randomizzati che riportano conclusioni conflittuali (Annane 2002 e Sprung 2008).

Secondo le linee guida della Surviving Sepsis Campaing, i corticosteroidi non andrebbero impiegati nei pazienti con sepsi. Nel caso di pazienti con shock settico, la somministrazione andrebbe riservata a coloro i quali permangono ipotesi dopo adeguato riempimento volemico e introduzione di vasopressori. Qualora indicato, viene consigliato l’impiego di idrocortisone con dose massima giornaliera di 200 mg. Il trattamento andrebbe scalato quando non vi è più necessità di supporto aminico (2).

La revisione sistematica che andremo a vedere affronta nuovamente il tema, proponendosi di sintetizzare le evidenze fin qui pubblicate.

 

La Revisione Cochrane (3)

Titolo: Corticosteroids for treating sepsis.

Autori: Annane D, Bellissant E, Bollaert PE, Briegel J, Keh, Kupfer Y.

Citazione bibliografica: Cochrane Database Syst Rev 2015; 12: CD002243.

Link: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/2663326

Obiettivo: Esaminare gli effetti dei corticosteroidi sulla mortalità ad un mese e valutare se la dose e la durata del trattamento influenzano la risposta al trattamento.

Studi inclusi: trial randomizzati controllati, in cieco o meno.

Outcome primario: mortalità totale a 28 giorni

Outcome secondari: mortalità in Terapia Intensiva, mortalità intra-ospedaliera, regressione dello shock a 7 e 28 giorni, entità della disfunzione d’organo, durata della degenza in Terapia Intensiva, durata della degenza ospedaliera, eventi avversi.

N°. di studi inclusi: 33

N° di pazienti: 4268

Risultati:

 

 

Parametro

Risultato

N° di pazienti

Mortalità a 28 giorni

Corticosteroidi vs. controllo*

Risk ratio

0,87 (I.C. 95% 0,76 – 1,00)

3176

Corticosteroidi (basse dosi, lunga durata) vs. controllo

Risk ratio

0,87 (I.C. 95% 0,78 – 0,97)

2266

Corticosteroidi (alte dosi, breve durata) vs. controllo

Risk ratio

0,96 (I.C. 95% 0,80 – 1,16)

910

Corticosteroidi vs. controllo (solo studi con doppio cieco adeguato)

Risk ratio

0,95 (I.C. 95% 0,84 – 1,08)

2259

Corticosteroidi vs. controllo (solo pazienti con shock settico)

Risk ratio

0,88 (I.C. 95% 0,78 – 0,99)

1444

Mortalità intra-ospedaliera

Corticosteroidi vs. controllo

Risk ratio

0,85 (I.C. 95% 0,73 – 0,98)

2014

Corticosteroidi (basse dosi, lunga durata) vs. controllo

Risk ratio

0,91 (I.C. 95% 0,82 – 1,01)

1708

Differenza del SOFA score a 7 giorni

Corticosteroidi vs. controllo

Differenza delle medie

-1,53 (I.C. 95% -2,04 – 1,03)

1132

Eventi avversi

Sovrainfezioni

Risk ratio

1,02 (I.C. 95% 0,87 – 1,20)

2567

Iperglicemia

Risk ratio

1,26 (I.C. 95% 1,16 – 1,37)

2081

Emorragia digestiva

Risk ratio

1,24 (I.C. 95% 0,92 – 1,67)

2382

 

Tabella 1. Riassunto dei principali risultati. * solo due studi non prevedevano placebo. Basse dosi sono definite come dosi inferiori a 400 mg al giorno di idrocortisone o dosaggi equivalenti; se la durata del trattamento è ≥ a 3 giorni è definita lunga.

 

Interpretazione – conclusioni

Anche questa revisione evidenzia come l’impiego di corticosteroidi abbia un’efficacia molto scarsa nel trattamento del paziente con sepsi, anche nel caso si impieghino basse dosi per periodi prolungati. Parte dell’efficacia registrata potrebbe essere legata puramente alle limitazioni metodologiche degli studi primari, come dimostrato dalle analisi per sottogruppi: qualora vengano presi in considerazione solo gli studi di migliore qualità, l’impatto sulla sopravvivenza a 28 giorni viene completamente vanificato.

Anche l’impiego nei soli pazienti con shock settico, suggerito dalla Surviving Sepsis Campaign, sembrerebbe avere un impatto modesto, ai limiti della significatività statistica. Tali effetti devono essere considerati alla luce di un aumento del rischio di iperglicemia pari al 26%.

Questi dati potrebbero essere in qualche modo in accordo con la visione proposta recentemente nelle nuove definizione di sepsi e shock settico proposte dalla Society for Critical Care Medicine e l’European Society for Intensive Care Medicine secondo cui l’elemento con il maggior impatto sulla sopravvivenza del paziente con infezione e sepsi non è l’entità della risposta infiammatoria (la cui riduzione è l’obiettivo del trattamento con corticosteroidi) ma l’insorgenza di disfunzione d’organo. A questo riguardo, comunque, l’impiego di steroidi sembrerebbe avere un effetto benefico, garantendo la riduzione del SOFA score di circa 1,5 punti: questo dato potrebbe portare a riconsiderarne le indicazioni nei pazienti a maggiore rischio.

 

Bibliografia

  1. Lefering R, Neugebauer EAM. Steroid controversy in sepsis and septic shock: a meta-analysis. Crit Care Med 1995;23(7):1294–303. Link

  2. Dellinger RP, et al. Surviving Sepsis Campaign: International Guidelines for Management of Severe Sepsis and Septic Shock: 2012. Crit Care Med 2013; 41:580–637. Link

  3. Annane D, Bellissant E, Bollaert PE, Briegel J, Keh D, Kupfer Y. Corticosteroids for treating sepsis. Cochrane Database Syst Rev 2015; 12: CD002243. Link

  4. Singer M, et al. The Third International Consensus Definitions for Sepsis and Septic Shock (Sepsis-3). JAMA 2016;315(8):801-810. Link

COCHRANE CORNER: Sostituzione degli accessi venosi periferici: meglio a intervalli regolari o quando indicato clinicamente?

mercoledì, dicembre 9th, 2015

Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

Su Twitter: @P_Balzaretti

 

Conoscenze attuali.

I cateteri venosi periferici (CVP) sono il metodo più comune e semplice per ottenere un  accesso endovenoso per la somministrazione di fluidi e farmaci. Il posizionamento di un dispositivo intravascolare che consenta l’accesso venoso periferico è una delle procedure più utilizzate nel Pronto Soccorso: secondo una rilevazione del 2010 negli Stati Uniti, venivano somministrati farmaci per via endovenosa nel 27% circa dei pazienti che accedono al Pronto Soccorso (1).
Con il progressivo prolungarsi della permanenza dei pazienti nelle Aree di Emergenza (in parte a causa della scarsità dei posti letto in ospedale, in parte per l’istituzione di Aree di Terapia Subintensiva e Osservazione Breve Intensiva all’interno dei Dipartimenti di Emergenza), uno dei problemi che si pone sempre più frequentemente riguarda il timing della sostituzione degli accessi venosi periferici.
Due sono le strategie possibili: la prima consiste nel sostituire gli accessi a intervalli regolari, ogni 72-96 ore circa, mentre la seconda prevede il riposizionamento della cannula periferica quando indicato clinicamente, in base al suo mancato funzionamento o alla presenza di segni di flogosi o infezione.

Al momento non vi sono, nelle linee guida ufficiali, indicazioni uniformi su come procedere. Mentre da un lato le raccomandazioni della Infusion Nurses Society (2) e del progetto epic3 del Servizio Sanitario Nazionale inglese (3) raccomandano di sostituire l’accesso quando clinicamente indicato, le linee guida per la prevenzione delle infezioni ospedaliere del CDC di Atalanta consigliano di sostituire l’accesso ogni 72 – 96 ore, ritenendo quella della sostituzione su base clinica una questione “ancora non risolta”.
La revisione sistematica di cui andremo a parlare in questo post si inserisce proprio in questo dibattito, tentando di fornire delle evidenze solide a sostegno dell’una o dell’altra strategia.

La Revisione Cochrane

Titolo: Clinically-indicated replacement versus routine replacement of peripheral venous catheters

Autori: Webster J, Osborne S, Rickard CM, New K

Citazione bibliografica: Cochrane Database Syst Rev 2015; 8: CD007798
Link: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26272489
Obiettivo: valutare gli effetti di rimuovere gli accessi venosi periferici in base all’indicazione clinica piuttosto che rimuoverli e riposizionarli routinariamente.

Studi inclusi: trial randomizzati e controllati

Outcome primario: incidenza di infezioni del torrente circolatorio associate al catetere venoso periferico (definite come: emocoltura positiva raccolta da accesso venoso periferico + segni clinici di infezione + non altre evidenti fonti di infezione del torrente circolatorio + riscontro del medesimo micro-organismo nell’emocoltura e nell’esame colturale della punta dell’accesso venoso); tromboflebiti; infezioni del torrente circolatorio di qualsiasi origine (definite come: qualsiasi emocoltura positiva raccolta da accesso periferico mentre è posizionato un accesso venoso o entro le prime 48 dalla sua rimozione); costi (in termini di materiali e lavoro associato al posizionamento di un accesso venoso periferico).

Outcome secondari: stravaso, occlusione o malfunzionamento dell’accesso, infezione locale, mortalità.

N° di studi inclusi: 7 trial randomizzati, di cui 5 nella meta-analisi

Qualità degli studi inclusi: il bias principale riguarda l’assenza di blinding in tutti gli studi. In altri termini, sia il paziente che l’operatore erano a conoscenza del trattamento cui veniva sottoposto il paziente.

N° di pazienti: 4895.

Risultati:


Interpretazione – conclusioni

I limiti principali di questa revisione sistematica riguardano che i trial considerati non erano in cieco e la discreta dipendenza dei risultati da un singolo studio, da cui provengono i 2/3 di tutti i pazienti arruolati. Inoltre, in considerazione dei pochissimi eventi verificatisi, le conclusioni riguardanti le infezioni del torrente circolatorio totali e accesso-correlate non sono affidabili, così come per le infezioni locali.

In base ai risultati di questa revisioni sistematica, non vi sono chiare evidenze a supporto del riposizionamento degli accessi venosi ogni 72-96 ore piuttosto che quando indicato clinicamente. Bisogna però tenere conto che, sebbene non vi siano dati a riguardo in questo lavoro, è stato ipotizzato che quest’ultima strategia possa ridurre il numero di accessi effettivamente posizionati garantendo una riduzione del dolore e del discomfort associato alla procedura così come i relativi costi, sia in termini monetari che di impegno lavorativo.

Si ringrazia per la supervisione del post Vincenzo Peloponneso, infermiere presso il Dipartimento di Emergenza e Urgenza ASO S. Croce e Carle – Cuneo (@vinpel su Twitter).

Bibliografia

1. CDC. National Hospital Ambulatory Medical Care Survey: 2010 Emergency Department Summary Tables. link

2. Infusion Nurses Society. Infusion Nurses standards of practice. J Infus Nurs 2011; 34: S1 – S109. Link

3. Loveday HP, Wilson JA, Pratt RJ, Golsorkhi M, Tingle A, Bak A, Browne J, Prieto J, Wilcox M, UK Department of Health. epic3: national evidence-based guidelines for preventing healthcare-associated infections in NHS hospitals in England. J Hosp Infect. 2014;86 Suppl 1:S1-70. Link

4. O’Grady NP, Alexander M, Burns LA, Dellinger EP, Garland J, Heard SO, Lipsett PA, Masur H, Mermel LA, Pearson ML, Raad II, Randolph AG, Rupp ME, Saint S; Healthcare Infection Control Practices Advisory Committee. 2011 Guidelines for the prevention of intravascular catheter-related infections. Link

COCHRANE CORNER: La manovra di Epley per la vertigine parossistica posturale benigna

mercoledì, aprile 1st, 2015


Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

Su Twitter: @P_Balzaretti

 

Conoscenze attuali

La vertigine parossistica posturale benigna (VPPB) viene definita come una disturbo caratterizzato dal susseguirsi di brevi episodi di vertigini, della durata inferiore ad un minuto, generalmente indotti da cambiamenti di posizione del capo (1, 2) come può succedere quando ci si gira nel letto, si oscilla la testa all’indietro o ci si china in avanti (1). E’ un quadro di riscontro piuttosto frequente in Pronto Soccorso (circa il 9% dei casi di vertigine secondo Navi e colleghi (3)) con massima incidenza d’esordio tra i 60 e 70 anni; nella maggior parte non è possibile trovare una chiara causa scatenante. Questa diagnosi dovrebbe essere presa in considerazione solo nel momento in cui siano escluse cause centrali di vertigini, come per esempio ischemie del circolo posteriore, decisamente più rilevanti dal punto di vista prognostico.

La spiegazione fisiopatologica più accreditata chiama in causa la dislocazione all’interno dei canali semicircolari di piccoli otoliti (cristalli di carbonato di calcio), normalmente posizionati in corrispondenza della macula dell’utricolo. Essendo in posizione più declive rispetto all’utricolo, il canale semicircolare posteriore è quello più frequentemente coinvolto (1, 2).

Per il trattamento della VPPB del canale posteriore si è progressivamente diffuso l’impiego della manovra di Epley (o di riposizionamento dei canaliti), la cui base razionale risiede proprio nella mobilizzazione degli otoliti dal canale semicircolare posteriore nuovamente nell’utricolo, dove non provocano disturbi (2).

Al momento sono disponibili in letteratura due importanti linee guida relative al trattamento della VPPB. La prima, rilasciata dall’American Academy of Otolaryngology – Head and Neck Surgery Foundation, raccomanda di sottoporre il paziente con BPPV del canale posteriore a manovre di riposizionamento degli otoliti, tra le quali segnalano la manovra di Epley e quella di Semont (Bhattacharyya 2008). Il secondo documento, pubblicato dall’American Academy of Neurology, raccomanda più direttamente la prima (Fife 2008).

La revisione sistematica di cui parleremo (2) è l’aggiornamento di precedente versione del 2010 e si pone come obiettivo quello di valutare l’efficacia della manovra di Epley nel trattamento dei pazienti con VPPB.

 

La Revisione Cochrane

Titolo: The Epley (canalith repositioning) manoeuvre for benign paroxymal positional vertigo

Autori: Hilton MP, Pinder DK.

Obiettivo: valutare l’efficacia della manovra di Epley nel trattamento della VPPB.

Outcome primario: risoluzione completa della vertigine

Outcome secondari: negativizzazione del test di Dix-Hallpike, effetti avversi.

N°. di studi inclusi: 11 trial controllati e randomizzati, 10 dei quali inseriti nella meta-analisi

Qualità degli studi inclusi: mediamente bassa; i problemi principali riguardano le procedure di blinding.

N° di pazienti: 745 (tra 60 e 100 pazienti per studio)

Risultati:

 

Parametro

Risultato

N° di pazienti

Manovra di Epley vs. placebo

Risoluzione completa della vertigine

Odds Ratio

4,42 (I.C. 95%: 2,62 – 7,44)

273 (5 studi)

Negativizzazione del test di Dix-Hallpike

Odds Ratio

9,62 (I.C. 95%: 6 – 15,42)

507 (8 studi)

 

Tab. 1. Risultati della meta-analisi. Non è stata condotta la metanalisi per il confronto tra la manovra di Epley e altri trattamenti.

Gli eventi avversi sono stati pochi e non è stata riportata una sintesi. I principali sono stati l’insorgenza di nausea e vomito durante la procedura e l’intolleranza alla manovra legata alla presenza di problemi della colonna cervicale.

 

Interpretazione – conclusioni

In base a risultati di questa meta-analisi, la manovra di Epley è più efficace del placebo (nella maggior parte dei casi si trattava di manovre verosimili ma prive di rilevanza terapeutica) per la completa risoluzione della vertigine in pazienti affetti da VPPB; la decisione di trattare il paziente dovrebbe essere presa tenendo comunque conto della tendenza alla risoluzione spontanea del disturbo (1).

Il principale aspetto positivo di questo lavoro è la capacità di dimostrare un’efficacia terapeutica consistente (il trattamento quadruplica di fatto la probabilità di risoluzione del disturbo) a fronte di effetti avversi quasi trascurabili. Per altro verso, la portata di questo risultato positivo è in parte ridimensionata da alcuni problemi metodologici. In primo luogo, l’eterogeneità tra i singoli studi è alta (I2 tra 68% e 72%) e gli Autori non provano neanche ad ipotizzarne le potenziali cause (tra le quali, si possono annoverare, secondo me, il differente setting in cui sono stati eseguiti gli studi e alcune differenze nelle manovre eseguite). Inoltre, i lavori erano mediamente di bassa qualità, cosa che potrebbe aver comportato una sovrastima dei benefici stimati. Infine, un ultimo problema è legato alla natura “soft” dell’outcome principale, il quale è esposto ad una certa soggettività nell’attribuzione. Per garantire una’analisi più oggettiva è stata valutata la negativizzazione del test di Dix-Hallpike, la quale sembrerebbe anch’essa assai più probabile nei pazienti trattati.

Sempre sul tema, a corredo di questo questo post, è disponibile online il video Maneuvers to Diagnosis and Treat Benign Paroxysmal Positional Vertigo su Nejm Video, il canale youtube del New England Journal of Medicine.

Bibliografia

  1. Kim J-S, Zee DS. Benign paroxysmal positional vertigo. New Engl J Med 2014; 370: 1138-1147. Link

  2. Hilton MP, Pinder DK. The Epley (canalith repositioning) manoeuvre for benign paroxysmal positional vertigo. Cochrane Database Syst Rev. 2014;12: CD003162. Link

  3. Navi BB, Kamel H, Shah MP, et al. Rate and Predictors of Serious Neurologic Causes of Dizziness in the Emergency Department. Mayo Clin Proc 2012; 87: 1080-1088. Link

  4. Bhattacharyya N, Baugh RF, Orvidas L, et al. Clinical practice guideline: Benign paroxysmal positional vertigo. Otolaryngol Head Neck Surg 2008; 139 (5 Suppl 4): S47-S81. Link

  5. Fife TD, Iverson DJ, Lempert T. Practice Parameter: Therapies for benign paroxysmal positional vertigo (an evidence-based review). Report of the Quality Standard Subcommittee of the American Academy of Neurology. Neurology 2008; 70: 2067-2074. Link

COCHRANE CORNER: Gli antibiotici per la bronchite acuta

lunedì, gennaio 5th, 2015

Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

Su Twitter: @P_Balzaretti

 

Conoscenze attuali

La bronchite acuta è un disturbo caratterizzato dalla presenza di tosse, produttiva o meno, protratta (della durata media di circa 14-21 giorni), per la quale sia stata ragionevolmente esclusa una polmonite. E’ autolimitantesi e si ritiene che la causa sia più frequentemente virale, anche se non si può avere una risposta definitiva visto che l’effettivo isolamento di un micro-organismo si verifica solo in una minoranza dei casi.

Per escludere la presenza di polmonite è possibile utilizzare l’Rx torace, tenendo presente che l’assenza di TUTTI questi riscontri riduce sostanzialmente la presenza di polmonite: a) temperatura corporea ≥ 38°C, b) frequenza respiratoria ≥ 24 atti/min, c) frequenza cardiaca ≥ 100 battiti/min, d) assenza di crepitii, fremito ed egofonia all’auscultazione toracica (1, 2).

Costituiscono situazioni a parte i pazienti con sospetta pertosse e quelli che presentano, quali comorbidità, BPCO o scompenso cardiaco, tutti casi di cui non tratteremo in questo post.

 

Ente

Anno

Raccomandazione

Forza della raccomandazione

ACP-CDC (1)

2001

Il trattamento antibiotico empirico non indicato per i pazienti con bronchite acuta.

ACCP (3)

2006

Per pazienti con verosimile diagnosi di bronchite acuta, il trattamento di routine con antibiotici non è giustificato e non dovrebbe essere offerto. La decisione di non impiegare antibiotici dovrebbe essere effettuata su base individuale […].

D (raccomandazione contraria); buona qualità dell’evidenza.

Wenzel (4)

2006

Gli antibiotici non sono raccomandati nella maggior parte dei casi di bronchite acuta.

Opinione di esperto

 

Tab. 1. Sintesi delle raccomandazioni attuali.

La Revisione Cochrane (5)

Titolo: Antibiotics for acute bronchitis

Autori: Smith SM, Fahey T, Smucny J, Becker LA.

Obiettivo: valutare l’impatto sugli outcome e gli eventi avversi della terapia antibiotica in pazienti con una diagnosi clinica di bronchite acuta.

Outcome primario: correlati alla tosse (durata della tosse, incidenza di espettorazione, proporzione dei pazienti con tosse, tosse notturna e tosse produttiva), valutazione complessiva del miglioramento da parte del medico al follow up, gravità dei sintomi, limitazione delle attività, alterazione dell’obiettività polmonare all’obiettività.

Outcome secondari: Eventi avversi.

N°. di studi inclusi: 17.

Qualità degli studi inclusi: complessivamente buona; i problemi principali si sono registrati in relazione alla randomizzazione e alla possibilità di selective reporting.

N° di pazienti: 3936

Risultati: sono riassunti nella tabella sottostante.

 

Parametro

Risultato

N° di pazienti

Tosse alla visita di follow up

Risk ratio

0,64 (I.C. 95% 0,49 – 0,85)

275

Differenza media dei giorni con tosse

Risk ratio

0,46 (I.C. 95% -0,87 – -0,004)

2776

Differenza media dei giorni in cui il paziente non si sente bene

Risk ratio

-0,64 (I.C. 95% -1,16 – -0,13)

809

Pazienti non migliorati alla valutazione complessiva di follow up*

Risk ratio

0,61 (I.C. 95% 0,48 – 0,79)

891

Eventi avversi

Risk ratio

1,20 (I.C. 95% 1,05 – 1,36)

3496

 

Tab.2. Sinossi dei risultati della revisione sistematica di Smith e colleghi. (*) In altri termini, l’impiego di antiobitici riduce il numero di pazienti che non risultano complessivamente migliorati alla visita di follow up.

Conclusioni

Complessivamente, l’utilizzo di antibiotici riduce la durata media della tosse, dei giorni di malessere e di quelli necessari per il recupero clinico.

Nonostante ciò, il bilancio tra rischi e benefici non sembra a favore dell’uso degli antibiotici, confermando le raccomandazioni riportate in precedenza. Infatti, a fronte di una riduzione modesta della durata della malattia (mezza giornata), si espone il paziente al rischio di eventi avversi (sebbene di scarsa entità) e si contribuisce all’incremento del rischio globale di antibiotico-resistenza per una patologia auto-limitantesi. Dato che, comunque, il bilancio rischi-benefici è dubbio, la valutazione se effettuare o meno deve essere fatta assolutamente su base individuale.

 

Bibliografia

  1. CDC. Acute Cough Illness (Acute bronchitis). Ultima revisione: Novembre 2013. Accesso in data 4/01/2014. Link

  2. Metlay JP, Kapoor WN, Fine MJ. Does this patient have community-acquired pneumonia? Diagnosing pneumonia by history and physical examination. J Am Med Ass 1997; 278: 1440-1445. Link

  3. Braman SS. Chronic cough due to acute bronchitis. ACCP Evidence-based Clinical Practice Guidelines. Chest 2006; 129: 95S-103S. Link

  4. Wenzel RP, Fowler AA, III. Acute bronchitis. New Engl J Med 2006; 355: 2125-2130. Link

  5. Smith SM, Fahey T, Smucny J, Becker LA. Antibiotics for acute bronchitis. Cochrane Database Syst Rev 2014; 3: CD000245. Link

COCHRANE CORNER: Il magnesio solfato nel trattamento del paziente adulto con esacerbazione di asma in pronto soccorso

martedì, luglio 22nd, 2014

 

Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

Su Twitter: @P_Balzaretti

 

Conoscenze attuali

L’asma è una patologia infiammatoria cronica delle vie aeree, caratterizzata dalla possibilità di periodiche esacerbazioni acute, le quali talvolta possono diventare potenzialmente fatali.

Gli strumenti terapeutici a disposizione nel Dipartimento d’Emergenza sono: l’ossigeno, in caso di insufficienza respiratoria, i beta-agonisti inalatori a breve durata d’azione, l’ipatropio bromuro inalatorio (in associazione ai beta-agonisti), i corticosteroidi (sistemici o inalatori) e il magnesio solfato per via endovenosa.

Quest’ultimo trova attualmente un ruolo come farmaco di seconda linea nel trattamento dell’attacco acuto grave di asma che non abbia avuto una risposta iniziale soddisfacente ai bronco-dilatatori inalatori e ai corticosteroidi o in caso di attacchi potenzialmente fatali (1, 2). La sua efficacia è stata già valutata in diverse revisioni sistematiche, le più recenti delle quali sono quella di Mohammed et al (3) e quella di Shan e colleghi (4) (i relativi risultati sono sintetizzati nella tabella 1). La necessità di una nuova sintesi delle evidenze disponibili (nella forma di un aggiornamento di una precedente revisione Cochrane, prodotta da Rowe e colleghi nel 2009), nasce dalla pubblicazione nel 2013 di un trial randomizzato da parte di Goodacre et al (5), il quale, con i suoi 1109 pazienti, è lo studio con la maggiore numerosità campionaria tra quelli in letteratura.

 

Autore Tipo di analisi Parametro Risultati Campione dell’analisi

Mohammed 2007

Funzione respiratoria

SMD

0,25 (I.C. 95% -0,01 – 0,51)

1699 pazienti

Ricovero ospedaliero

Risk ratio

0,87 (I.C. 95% 0,70 – 1,08)

Shan 2013

Funzione respiratoria

SMD

0,30 (I.C. 95% 0,05 – 0,55)

1754 pazienti

Ricovero ospedaliero

Risk ratio

0,86 (I.C. 95% 0,73 – 1,01)

Tab. 1. Sinossi. I dati riguardano solo la somministrazione per via endovenosa e solo in pazienti adulti. SMD: deviazione standard dalla media; un valore positivo indica un miglioramento della funzione respiratoria.

 

La Revisione Cochrane (6)

Titolo: Intravenous magnesium sulfate for treating adults with acute asthma in the Emergency Department.

Autori: Kew KM, Kirtchuk L, Michell CI

Obiettivo: valutazione della sicurezza e dell’efficacia della somministrazione di magnesio solfato (MgSO4) in adulti trattati per asma acuto in Pronto Soccorso.

Outcome primario: ricovero ospedaliero

Outcome secondari: durata della permanenza in Pronto Soccorso, incidenza del ricovero in Terapia Intensiva, parametri vitali (frequenza cardiaca, frequenza respiratoria, pressione arteriosa, saturazione di ossigeno), parametri spirometrici (picco di flusso espiratorio, volume espiratorio forzato nel primo secondo (FEV1)), punteggio di intensità dei sintomi, eventi avversi.

N°. di studi inclusi: 14, di cui 13 inclusi nella meta-analisi

Qualità degli studi inclusi: sono stati inclusi trial randomizzati; i problemi più rilevanti riguardano la possibilità di attrition bias (legato all’elevato numero di pazienti che si sono ritirati dallo studio prima di raggiungere l’outcome) e pubblicazione selettiva dei risultati.

N° di pazienti: 2313 pazienti

Risultati: sono riassunti nella tabella seguente.

 

Parametro

Risultato

N° di pazienti

Ricovero ospedaliero

Odds Ratio

0,75 (I.C. 95% 0,60 – 0,92)

1769

Ricovero in unità di Terapia Intensiva

Odds Ratio

2,03 (I.C. 95% 0,7 – 5,89)

752

Durata del ricovero ospedaliero

Riduzione della durata media (giorni)

-0,03 (I.C. 95% -0,33 – 0,27)

949

Durata del trattamento in P.S.

Riduzione della durata media (minuti)

-4,00 (I.C. 95% -37,02 – 29,02)

96

FEV1 (% del predetto)

Variazione del valore medio

4,41 (I. C. 95% 1,75 – 7,06)

523

PEF

Variazione del valore medio (l/min)

4,78 (I. C. 95% 2,14 – 7,43)

1129

Frequenza respiratoria

Variazione del valore medio (atti/min)

-0,28 (I.C.95% -0,77 – 0,20)

1276

Frequenza cardiaca

Variazione del valore medio (battiti/min)

-2,37 (I.C. -4,13 – -0,61)

1195

 

Tab.2. Sinossi dei risultati della revisione sistematica di Kew e colleghi.

Per quanto riguarda gli eventi avversi, quelli segnalati più frequenti sono vampate di calore, astenia, nausea e cefalea. Nello studio più ampio, quello di Goodacre e colleghi (5), sebbene il rischio di eventi collaterali aumenti nei pazienti sottoposti a trattamento con MgSO4, interessa comunque non più del 16% dei pazienti. Questi dati riguardano un trattamento costituito da una singola somministrazione; dosi ripetute possono condurre a ipermagnesemia con relativa ipostenia muscolare e insufficienza respiratoria (1).

Conclusioni

Secondo questa revisione Cochrane, la somministrazione di 2 g di magnesio solfato in 100 ml di soluzione fisiologica infusi in 20-30 minuti, in aggiunta alla terapia con broncodilatatori inalatori, steroidi sistemici e ossigeno (impiegati nella maggior parte degli studi), ridurrebbe il rischio di ricovero ospedaliero e migliorerebbe la funzione respiratoria nei pazienti con asma acuto in Pronto Soccorso. Sebbene quest’ultima sia statisticamente significativa, l’impatto clinico è dubbio. La somministrazione contemporanea di ipatropio non sembrerebbe modificare l’efficacia del magnesio solfato. L’azione del farmaco sembrerebbe la medesima a prescindere dalla gravità del quadro clinico, anche se questa considerazione si basa su classificazioni di gravità incomplete ed eterogenee.

 

Bibliografia

  1. Scottish Intercollegiate Guidelines Network. British Guideline on the management of asthma. A national clinical guideline (SIGN 101). 2012 revision. Link al free full text

  2. Global Initiative for Asthma. Gobal strategy for Asthma management and prevention 2014. Available from: www.ginasthma.org.

  3. Mohammed S, Goodacre S. Intravenous and nebulised magnesium sulphate for acute asthma: systematic review and meta-analysis. Emerg Med J 2007; 24: 823-830. Link al free ful text

  4. Shan Z, Rong Y, Yang W, Wang D, Yao P, Xie J, Liu L. Intravenous and nebulized magnesium sulphate for treating acute asthma in adults and children: a systematic review and meta-analysis. Respir Med 2013; 107: 321-330. Link

  5. Goodacre S, Cohen J, Bradburn M, Gray A, Benger J, Coats T, on the behalf of the 3Mg Research Team. Intravenous or nebulised magnesium sulphate versus standard therapy for severe acute asthma (3Mg trial): a double-blind, randomised controlled trial. Lancet Respir Med 2013; 1: 293-300. Link al free full text

  6. Kew KM, Kirtchuk L, Michell CI. Intravenous magnesium sulfate for treating adults with acute asthma in the Emergency Department. Cochrane Database of Systematic Reviews 2014, Issue 5. Art.No.: CD010909. Link

MUBEE#12: Come cercare le revisioni sistematiche

mercoledì, luglio 9th, 2014

Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

@P_Balzaretti

La notevole espansione della letteratura scientifica (1) ha reso molto difficile, se non impossibile, riuscire a tenere il passo con le novità pubblicate. Per altro verso, i singoli studi primari spesso presentano risultati contradditori, sono costituiti da piccole popolazioni e presentano significativi limiti metodologici. Per superare questi problemi ha ricevuto un crescente impulso l’impiego di revisioni sistematiche, ovvero studi che tentano di identificare e rivalutare sistematicamente tutti gli articoli pertinenti a una campo, […] mettendone assieme i risultati (2). Per mezzo di questi lavori è possibile farsi un’idea di tutti gli articoli riguardanti uno specifico provvedimento clinico (terapeutico o diagnostico), della loro qualità e dell’efficacia complessiva dell’intervento, calcolata tenendo conto contemporaneamente dei risultati di tutti i singoli studi.

Quando si tratta di rispondere a quesiti specifici, il ricorso a revisioni sistematiche rappresenta un ottimo punto di partenza, così come confermato dalla posizione prossima al vertice nella piramide dell’evidenza. In questo post tenterò fornire qualche coordinata su come individuarle.

Banche dati: PubMed

Come nel caso delle linee guida, esistono banche dati generiche, che contengono lavori scientifici di varia natura tra cui revisioni sistematiche, e quelle specifiche, contenenti unicamente revisioni sistematiche. Tra le prime, le già citate MEDLINE® e Trip Database.

Ipotizziamo di voler approfondire l’efficacia della cardioversione elettrica nel trattamento della fibrillazione atriale parossistica. La stringa di ricerca che ho ipotizzato è la seguente:

Atrial fibrillation”[Mesh] AND (“Electric countershock”[MeSH] OR “Cardioversion”[Text Word])

Nel caso di MEDLINE®, è possibile partire nel modo più semplice utilizzando il filtro di ricerca fornito dal database stesso.

E’ possibile farvi ricorso in tre modi diversi:

1) Passando attraverso le Clinical Queries (vedi post precedente sull’argomento): dopo aver effettuato l’accesso al servizio attraverso l’homepage di PubMed e aver inserito la nostra stringa di ricerca, otterremo la seguente videata:

Fig. 1. Ricerca delle revisioni sistematiche tramite PubMed Queries.

Nella colonna centrale compariranno i risultati individuati attraverso il filtro di PubMed. Cliccando su “See all” si accederà alla schermata classica dei risultati di PubMed con tutte le citazioni.

2) Un’altra possibilità consiste nell’inserirlo come filtro della categoria “Article types” dalla pagina dei risultati della ricerca:

Fig. 2. Pagina dei risultati per una ricerca in PubMed. Nella colonna di sinistra è presente la lista dei filtri, tra cui quello del tipo di pubblicazioni.

Per vedere come aggiungere delle voci nei filtri laterali si può tornare al relativo post.

3) Infine, è possibile inserirlo “a mano”, direttamente nella nostra stringa di ricerca, che diventerà:

(“Atrial fibrillation”[Mesh] AND (“Electric countershock”[MeSH] OR “Cardioversion”[Text Word])) AND “systematic”[sb]

Dove il tag [sb] sta per “subset”. Come noterete se replicate gli esempi, il numero dei risultati è sempre lo stesso.

Vi segnalerei alcune possibilità aggiuntive. Si può inserire nella stringa di ricerca un termine per selezionare per il tipo di pubblicazione: quelle inerenti alle revisioni sistematiche sono “Review”[ptyp] e “Meta-Analysis”[ptyp]. La prima è gravata dal limite di non essere particolarmente specifica, essendo associata anche a revisioni non sistematiche.

E’ possibile infine inserire i termini revisione sistematica e meta-analisi come stringhe di testo da ricercare nel titolo e nell’abstract della citazione: “Sistematic review”[TIAB] OR “Meta-analysis”[TIAB]. Non ho idea di quanto sia sensibile e specifico il loro impiego, ma quanto meno permette di individuare articoli recenti, appena inseriti in PubMed ma non ancora indicizzati (per approfondire la questione, si veda il post relativo).

Banche dati: Trip Database

Passiamo ora a Trip Database (per chi desiderasse dare una ripassata su cosa sia e come funzioni, abbiamo pubblicato un post dedicato qualche tempo fa’). Inserendo nel box di ricerca la stringa:

Atrial fibrillation” AND (“Electric countershock” OR “Cardioversion”),

 

si ottengono 1589 risultati, di cui circa 66 sono revisioni sistematiche. E’ possibile filtrare i risultati utilizzando i tasti sulla barra destra.

Fig. 3. I risultati della ricerca in Trip Database.

Questo servizio offre un’ulteriore classificazione dei risultati sono in rapporto al database da cui sono state ottenute (vedi fig. 4). Com’è noto, cliccando sui titoli delle citazioni, si può accedere direttamente all’URL del documento per poterlo leggere.

Fig. 4. Classificazione dei risultati in Trip Database. Non saprei dire perché, dopo avervi cliccato sopra, il numero di revisioni sistematiche si riduca a 64.

 

Banche dati specifiche: DARE

Il Database of Abstracts of Reviews of Effects, DARE, è un archivio specifico di revisioni sistematiche mantenuto dal Center for Reviews and Dissemination dell’Università di Sheffield ed è parte del britannico National Health Service.

Gli operatori del CRD “sondano” settimanalmente, per mezzo di uno specifico filtro di ricerca, i database CINAHL, Embase, MEDLINE, PsycINFO, PubMed per individuare revisioni sistematiche, articoli di valutazione economica e di Health Technology Assessment. Ognuno di questi lavori viene sintetizzato e analizzato criticamente. DARE è gratuito ma offre unicamente l’abstract e il commento critico alla revisione sistematica, non l’intero lavoro.

 

Fig. 5. Homepage del database DARE.

 

Inseriamo la nostra stringa di ricerca, spezzettandola come richiesto. E’ possibile effettuare ricerche anche tramite i termini MeSH. Otteniamo 39 citazioni, come riportato nella figura seguente.

Fig. 6. E’ importante ricordarsi di impostare il “campo” dove vogliamo sia ricercato il termine (uno qualsiasi, titolo, autore, etc.) (freccia blu). E’ altresì importante selezionare il database in cui desideriamo che sia fatta la ricerca (nel nostro casio, DARE) (freccia rossa).

Cliccando sul titolo della citazione viene aperta la scheda dedicata al lavoro, contenente una sintesi della revisione (con i relativi risultati) e il commento metodologico degli esperti del CRD.

Il DARE rappresenta un ottimo punto di partenza per le nostre ricerche, soprattutto perché offre anche una valutazione critica dei risultati.

Vi segnalo infine Health Evidence (www.health-evidence.ca), un servizio gratuito ma con registrazione obbligatoria, gestito dalla McMaster University, che archivia, con un sistema simile a quello del DARE, revisioni sistematiche riguardanti temi di sanità pubblica, come la prevenzione e l’informazione sanitaria.

Per approfondire i singoli filtri di ricerca e relative metodologie si può consultare il lavoro di Lee e colleghi. Stranamente non è incluso il filtro di ricerca impiegato da PubMed per il suo “Systematic”[sb] (3).

Enti redattori di revisioni sistematiche: la Cochrane Library

La Cochrane Collaboration è una rete di medici e ricercatori che, elaborando sintesi delle evidenze disponibili soprattutto in forma di revisioni sistematiche, vuole renderle più accessibili e fruibili agli operatori e ai pazienti. Per una breve storia della Cochrane Collaboration potete cliccare qui.

Una delle iniziative della Cochrane Collaboration è la Cochrane Library, un database che contiene le revisioni sistematiche pubblicate dall’organizzazione, oltre ad altri documenti quali le revisioni commentate del DARE e i trial clinici archiviati in CENTRAL.

Fig. 7. L’homepage della Cochrane Library.

La revisioni Cochrane sono ricercabili in tre modi: navigando tra i singoli argomenti attraverso il menu nella colonna sinistra, operando una ricerca semplice con il box in alto o una più avanzata.

Fig. 8. Pagina dei risultati di una ricerca nella Cochrane Library.

A prescindere del metodo utilizzato, si otterrà una pagina dei risultati come quella illustrata nella figura 8. Cliccando sul titolo della citazione, si accede all’abstract competo (fig. 9.).

Fig. 9. Pagina dell’abstract della Cochrane Library. Modificata.

Le versioni complete in pdf delle revisioni (riassunto, standard e completa) sono a pagamento. Com’è nella tradizione della Cochrane Collaboration, gli abstract sono molto accurati ed esaustivi. E’ possibile farsi un idea abbastanza precisa dei risultati del lavoro leggendo solo questi.

Bibliografia

  1. Bastian H, Glasziou P, Chalmers I. Seventy-five trials and eleven systematic reviews a day: how will we ever keep up? PLoS Med. 2010;7(9):e1000326. Link al free full text

  2. Gosall N, Gosall G. The Doctor’s Guide to Critical appraisal. 3rd ed. Knutsford, UK: PasTest Ltd.; 2012. Section D, Systematic reviews and meta-analyses; e-book.

  3. Lee E, Dobbins M, DeCorby K, McRae L, Tirilis D, Husson H. An optimal search filter for retrieving systematic reviews and meta-analyses. BMC Med Res Methodol 2012; 12: 51. Link free full text

Note: la ricerca bibliografica contenuta in questo post ha solo un scopo esemplificativo e non può considerarsi completa o validata. Tutte le ricerche sono state effettuate il 5 luglio 2014.

COCHRANE CORNER: l’attacco acuto di emicrania in pronto soccorso

martedì, dicembre 10th, 2013

Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

@P_Balzaretti


La cefalea è un disturbo che causa una quota non indifferente di accessi in Pronto Soccorso. Nell’iter diagnostico, il primo passo è quello di escludere che si tratti di una forma secondaria a una patologia sistemica o primitiva del sistema nervoso centrale; quando queste possibilità sono state escluse con un sufficiente grado di sicurezza, si deve prendere in considerazione la possibilità di una cefalea primaria: tra queste quella di più frequente riscontro è l’emicrania.

Secondo le linee guida per la classificazione dei disturbi cefalalgici dell’International Headache Society, l’emicrania è un “disturbo cefalalgico ricorrente con attacchi della durata di 4-72 ore, tipicamente caratterizzati da dolore pulsante a localizzazione unilaterale, di intensità media o forte, peggiorato da attività fisica di routine e associato a nausea e/o fotofobia e fonofobia”. Un aspetto rilevante, per l’approccio in P.S., è la cronicità del disturbo: sono richiesti infatti almeno 5 episodi analoghi nella storia clinica del paziente per poter confermare la diagnosi. In uno studio del 2007, circa il 39% dei pazienti giunti in P.S. lamentando cefalea presentava i criteri per la diagnosi di emicrania dell’International Headache Society; la percentuale saliva al 60% dei pazienti con cefalea primaria (1).

Secondo l’americana Agency for Healthcare Research and Quality, negli Stati Uniti vi è una ampia difformità nella gestione della cefalea emicranica in urgenza e credo che questa considerazione sia valida anche per la realtà italiana. Farmaci ampiamente utilizzati per il trattamento di questo disturbo in urgenza sono gli anti-infiammatori e il paracetamolo. Nel corso del 2013 la Cochrane Collaboration ha pubblicato diverse revisioni sistematiche volte a valutare l’efficacia di questi farmaci, da soli o in associazione con un antiemetico, per il trattamento dell’emicrania.

Sintesi dei risultati

Sono stati presi in considerazione 5 studi che rispondevano a questo quesito: “in pazienti con un attacco acuto di emicrania l’impiego del farmaco x, associato o meno ad anti-emetici, è più efficace del placebo per controllare il dolore?”. In alcuni studi il confronto non avveniva con il placebo bensì con un triptano, ma di questi non tratteremo.

In tutti gli studi si fa riferimento a formulazioni somministrabili per via orale: ciò si adatta solo in parte alla realtà del Pronto Soccorso, dove spesso ricorriamo alla somministrazione di farmaci per via endovenosa. Tuttavia ritengo i risultati comunque rilevanti sia perchè si può ipotizzare che la somministrazione per via endovenosa sia quantomeno ugualmente efficace rispetto a quella per os, sia perchè questi risultati ci garantiscono la possibilità di fornire delle indicazioni ai pazienti su quali farmaci impiegare al domicilio per situazioni analoghe.

Nella tabella 1 sono riassunte le caratteristiche salienti delle revisioni sistematiche.

 

Studio

Confronto

Dosaggio

Studi

Pazienti

Derry 2013 (2)

Diclofenac vs. placebo 50 mg

5

1356

Kirthi 2013 (3)

Aspirina vs. placebo 900 o 1000 mg

13

4222

Aspirina + metoclopramide vs. placebo 900 mg + 10 mg

3

765

Derry 2013 (4)

Paracetamolo vs. placebo 1000 mg

11

2942

Rabbie 2013 (5)

Ibuprofene vs. placebo 400 mg

9

4373

Law 2013 (6)

Naprossene vs. placebo 500 mg o 825 mg*

6

2735

 

Tab.1 Caratteristiche delle revisioni sistematiche prese in considerazione. * non si sono registrate differenze significative tra i diversi dosaggi di naprossene.

Risultati

Per renderli confrontabili, i risultati sono stati presentati come number needed to treat (NNT). Questo parametro statistico indica il numero di pazienti cui è necessario somministrare un farmaco per ottenere un evento nell’ intervallo di tempo preso in esame. Si calcola con la seguente formula:

100

NTT =

|(Rischio nel gruppo di trattamento – Rischio nel gruppo sperimentale)| (in %)

 

Prendendo un esempio da i nostri dati, potremo dire che è necessario trattare circa 7 pazienti con ibuprofene affinchè un paziente risulti asintomatico per cefalea emicranica a due ore. Chiaramente, minore è il NNT, maggiore è l’efficacia del farmaco. Simmetricamente, il “number needed to harm” (NNH) indica il numero di pazienti cui è necessario somministrare il trattamento perché si verifichi un evento avverso; in questo caso, maggiore è il numero, maggiore è la sicurezza del farmaco. Per interpretare e confrontare gli NNT è necessario tenere conto che questi sono specifici per le caratteristiche di gravità del paziente e per il tempo di osservazione. Per esempio, non è possibile confrontare l’NNT dei beta-bloccanti per prevenire l’infarto miocardico tra pazienti in prevenzione primaria e pazienti che hanno già avuto una sindrome coronarica acuta, perché quest’ultimi presenteranno verosimilmente una situazione coronarica di base più compromessa. Allo stesso modo, non è corretto confrontare l’NNT di una statina per prevenire l’ictus in prevenzione primaria calcolato per un follow up di 5 anni e uno calcolato su un follow up di 10 anni. Per chi volesse approfondire, suggerisco due letture (qui e qui).

Come si può vedere nella tabella 2, il farmaco più efficace in acuto sembrerebbe essere l’ibuprofene, seguito dall’aspirina.

 

 

Confronto

Assenza di cefalea a 2 h (NNT)

Riduzione del dolore a 2 h (NNT)

Qualità dell’evidenza*

Ibuprofene vs. placebo

7,2 (5,9 – 9,2)

3,2 (2,8 – 3,7)

Moderata

Aspirina vs. placebo

8,1 (6,4 – 11)

4,9 (4,1 – 6,2)

Moderata

Aspirina + metoclopramide vs. placebo

8,8 (5,9 – 17)

3,3 (2,7 – 4,2)

?

Diclofenac vs. placebo

8,9 (6,7 – 13)

6,2 (4,7 – 9,1)

Moderata

Naprossene vs placebo

11 (8,7 – 17)

6 (4,8 – 7,9)

Moderata

Paracetamolo vs. placebo

12 (7,5 – 32)

5 (3,7 – 7,7)

Bassa

 

Tab.2 Risultati a breve termine del trattamento. * per entrambe gli outcome.Tra parentesi, gli intervalli di confidenza al 95%.

La perfomance risulterebbe simile anche per l’efficacia a 24 ore, come sintetizzato della tabella 3.

 

Confronto

Assenza di cefalea a 24 h (NNT)

Riduzione della cefalea a 24 h (NNT)

Qualità dell’evidenza*

Ibuprofene vs. placebo

No dati

4,0 (3,2 – 5,2)

Moderata

Aspirina vs. placebo

No dati

6,6 (4,9 – 10)

Moderata

Diclofenac vs. placebo

9,5 (7,2 – 14)

No dati

Moderata

Naprossene vs placebo

19 (13 – 34)

8,3 (6,4 – 12)

Moderata

 

Tab. 3. Risultati a lungo termine del trattamento. Non ci sono dati riguardanti l’associazione aspirina + metoclopramide e paracetamolo vs. placebo per gli outcome considerati. * per entrambe gli outcome.

Contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, il paracetamolo sembrerebbe correlarsi a un maggior rischio di eventi avversi, sebbene la qualità dei dati per questa analisi sia bassa.

 

Confronto

Almeno un evento avverso (NNH)

Qualità dell’evidenza*

Aspirina vs. placebo

34 (18 – 340)

Bassa

Ibuprofene vs. placebo

26 (15 – 100)

Moderata

Naprossene vs placebo

28 (15 – 130)

Bassa

Paracetamolo vs. placebo

21 (11 – 300)

Bassa

 

Tab. 4. Eventi avversi. NNH = number needed to harm. Per il diclofenac non era disponibile il NNH ma solo l’odds ratio. * per entrambe gli outcome.

Note: il ruolo della metoclopramide

L’impiego della metoclopramide per via endovenosa è stato introdotto da lungo tempo; il razionale risiederebbe nel trattamento sintomatico della nausea e del vomito (con relativo miglioramento della motilità gastro-intestinale, l’aumento dell’assorbimento e dunque della biodisponibilità del farmaco) (6). L’unica revisione sistematica che ho trovato sull’argomento risale al 2004 (7): per quanto riguarda il confronto con il placebo, venivano presi in considerazione 3 studi per un totale di 207 pazienti. L’odds ratio era pari a 2,84 (95% CI 1,05 – 7,68), favorendo il trattamento rispetto al placebo; la mia stima del NNT è 4,5 (95% CI non calcolabile)..

Conclusione

In conclusione, vi sono evidenze di moderata qualità che gli anti-infiammatori per via orale siano abbastanza efficaci per il controllo del dolore in corso di attacco emicranico acuto; si può supporre che le formulazioni per via endovenosa siano quanto meno altrettanto efficaci. L’associazione con metoclopramide per via endovenosa potrebbe ulteriormente potenziare questo effetto.

Bibliografia

  1. Friedman BW, Hochberg ML, Esses D, Grosberg B, Corbo J, Toosi B, Meyer RH, Bijur PE, Lipton RB, Gallagher EJ. Applying the International Classification of Headache Disorders to the Emergency Department: An Assessment of Reproducibility and the Frequency With Which a Unique Diagnosis Can Be Assigned to Every Acute Headache Presentation. Ann Emerg Med 2007; 49: 409-419. Link

  2. Derry S, Rabbie R, Moore RA. Diclofenac with or without an antiemetic for acute migraine headaches in adults. Cochrane Database of Systematic Reviews 2013; Issue 4. Art. N°: CD008783. Link

  3. Kirthi V, Derry S, Moore RA. Aspirin with or without an antiemetic for acute migraine headaches in adults. Cochrane Database of Systematic Reviews 2013; Issue 4. Art. N°: CD008041. Link

  4. Derry S, Moore RA. Paracetamol (acetaminophen) with or without an antiemetic for acute migraine headaches in adults. Cochrane Database of Systematic Reviews 2013; Issue 4. Art. N°: CD008040. Link

  5. Rabbie R, Derry S, Moore RA. Ibuprofen with or without an antiemetic for acute migraine headaches in adults. Cochrane Database of Systematic Reviews 2013; Issue 4. Art. N°: CD008039. Link

  6. Law S, Derry S, Moore RA. Naproxen with or without an antiemetic for acute migraine headaches in adults. Cochrane Database of Systematic Reviews 2013; Issue 10. Art. N°: CD009455. Link

  7. Colman I, Brown MD, Innes GD, Grafstein E, Roberts TE, Rowe BH. Parenteral metoclopramide for acute migraine: meta-analysis of randomized controlled trials. BMJ 2004; 329 (7479): 1369-73. Link

COCHRANE CORNER: New is better. Or not?

giovedì, ottobre 31st, 2013

 

di Primiano Iannone

Direttore SC Pronto Soccorso

ASL4 Chiavarese. Ospedali del Tigullio. Lavagna, GE

Contributor del Prehospital Emergency Care Field

Cochrane Collaboration

 

Nella grande maggioranza dei casi i trials clinici randomizzati e controllati sono considerati “la prova regina” per dimostrare (o confutare) l’efficacia di un trattamento, non solo farmacologico. Si dice che quando vi è reale incertezza sull’efficacia di un intervento sanitario rispetto ad un altro allora vi sono le condizioni per un trial clinico randomizzato e controllato. D’altra parte, l’arruolamento dei pazienti in trials di questo tipo è (o dovrebbe essere) etico solo se vi è incertezza reale su quale dei due sia migliore. Questo principio dell’incertezza (o “equipoise”) è un importante presupposto etico e scientifico che dovrebbe informare la ricerca clinica. E’ anche un metodo indiretto, ma molto sensibile, per valutare l’integrità della ricerca stessa (dell’altro requisito che contribuisce alla integrità, la rilevanza, ce ne occuperemo magari prossimamente). Infatti, se ogni ricercatore (o gruppo di ricercatori) si attenesse fedelmente al principio dell’incertezza, la probabilità di studi con risultati favorevoli al trattamento sperimentale (il “nuovo”) dovrebbe più o meno essere simile a quella del gruppo di controllo (il “vecchio”: standard of care, o placebo) e gli esiti finali dei trials dovrebbero pertanto rispettare questa distribuzione più o meno casuale.

Questo presupposto, non immediatamente intuitivo ma, se ci pensate bene, del tutto ineccepibile, è alla base della meta-analisi Cochrane di Djulbegovici, su quattro coorti di studi di superiorità, randomizzati e controllati, non sponsorizzati, condotti in contesto di ricerca governativa o di organizzazioni not for profit (743 studi, su 297.744 pazienti) riguardanti la ricerca sul cancro (2 coorti), quella in ambito neurologico (1 coorte) o in un ambito composito di malattie (1 coorte). Gli studi sono stati raccolti indipendentemente dal loro status di pubblicazione (da registri o dispositivi similari, per evitare il bias di pubblicazione). I risultati hanno evidenziato una lieve prevalenza degli effetti a favore dei trattamenti sperimentali per gli outcomes primari (hazard ratio (HR)/odds ratio (OR) 0.91, 99% intervalli di confidenza (CI) 0.88 to 0.95) e la mortalità complessiva (HR 0.95, 99% CI 0.92 to 0.98). In altri termini i trattamenti sperimentali sono – in media – associati ad un migliore esito rispetto al trattamento di controllo con un margine favorevole che va dal 5 al 10%. La quasi–simmetria di questi risultati si traduce nella assoluta imprevedibilità degli effetti dei nuovi trattamenti rispetto ai controlli – e nella conseguente impossibilità di prevedere, a priori, al momento della randomizzazione, il trattamento migliore. Questi effetti non risentono di trend temporali, nel senso che tale andamento si è mantenuto nel corso del tempo, né del tipo controllo (trattamento standard o placebo).

La meta analisi dimostra che il principio etico e scientifico dell’incertezza è stato sostanzialmente rispettato in un campione di studi randomizzati e controllati, in un ambito di ricerca pubblico e/o not for profit. Ciò è rassicurante per la società, i pazienti, i medici e i ricercatori, poiché giustifica la necessità e l’eticità, quantomeno, di questo tipo ricerca sperimentale. La meta-analisi indaga tuttavia solo un piccolissimo campione (1% di tutti gli studi randomizzati e controllati) e soprattutto solo trials not for profit.

E La ricerca a fini commerciali ?

La storia qui è molto diversa: i trials pubblicati della ricerca commerciale, for profit, mostrano un 70% circa di effetti favorevoli ai nuovi trattamenti rispetto ai vecchi (o al placebo), con un evidente sbilanciamento nei due bracci di allocazione (e seri dubbi, perciò, sulla eticità e validità dei risultati stessi). Questo accade per una serie di motivi: dal bias di pubblicazione (i trials con risultati favorevoli alle attese dei ricercatori – e dell’industria – hanno più probabilità di essere pubblicati, per cui viene sovrastimato l’effetto favorevole dei nuovi trattamenti) alla cattiva qualità metodologica (difetti di allocation concealment, attrition bias e così via); dalla enfatizzazione di risultati statisticamente – ma non clinicamente – rilevanti, all’abuso degli endpoints compositi e surrogati, per finire con la scelta di gruppi di controllo inadeguati (dosaggi troppo bassi, che aumentano i benefici apparenti del trattamento sperimentale; o troppo alti, che aumentano gli effetti indesiderati del trattamento di controllo; o la scelta del placebo, invece di un confronto testa a testa). I soliti trucchi… che magari sfuggono ad una lettura superficiale degli studi, e vengono sapientemente offuscati da campagne molto aggressive dell’industria, fino alla manipolazione delle stesse Linee Guida, che da strumento della Evidence Based Medicine sono in molti casi diventate raffinato strumento di marketing dell’industria stessa.

Cosa ci insegna questa meta-analisi? Innanzitutto, che i vantaggi dei nuovi trattamenti, quando ci sono, sono spesso marginali. Perciò, per distinguere i reali benefici degli interventi dalle speranze vane e dalle aspettative ottimistiche di pazienti, medici e ricercatori il trial clinico randomizzato e controllato, concepito e condotto a regola d’arte, è lo strumento migliore, quando fattibile, per dimostrarne l’efficacia. In medicina, purtroppo, la penicillina o l’insulina non si scoprono tutti i giorni, e trattamenti di successo così eclatante da rendere i trials eticamente non giustificabili e scientificamente futili sono molto rari. I migliori presupposti fisiopatologici, invece, non sono sufficienti per sostenere l’efficacia di un intervento ma, al massimo, per stimolare ulteriore ricerca, fino al trial clinico randomizzato e controllato. La storia della medicina è piena di costosi – e tragici – errori dell’approccio epistemologico “riduzionista” che ha voluto fare a meno dei trials, ne ha ignorato le conseguenze, o è stato clamorosamente smentito dagli stessi (dalla talidomide alla trombolisi dell’infarto miocardico, dalla mastectomia radicale estesa per il cancro della mammella agli antiaritmici di classe IC nel post infarto). Le vicende –allucinanti- del “metodo Stamina” confermano, peraltro, la bruciante attualità di quello che stiamo dicendo. Poi, che non bisogna essere aprioristicamente fiduciosi nel “nuovo” , che non è affatto sinonimo di “meglio”, soprattutto perché non è detto che i benefici di un nuovo trattamento, sbandierati dal trial (sponsorizzato) di turno sulla rivista con elevato impact factor, testato in condizioni ideali, in centri di eccellenza e su pazienti selezionati, sia riproducibile nella real life su pazienti complessi (la differenza che passa cioè fra efficacy teorica e effectiveness pratica), né in altri studi. Questo è il motivo per cui le meta-analisi sono utili e spesso necessarie per appurare la efficacy dei trattamenti, la loro consistenza (omogeneità di risultati fra studi diversi) e migliorare la precisione delle stime degli effetti degli stessi.

Lunga vita quindi al trial clinico randomizzato e controllato (e alle meta-analisi), se eseguito nel più assoluto rigore metodologico, in presenza di autentica incertezza scientifica, per quesiti clinicamente rilevanti, senza contaminazioni derivate da conflitti d’interesse, per dare ai pazienti, ai medici e alla società la migliore garanzia della integrità, pertinenza e validità delle scelte terapeutiche che vengono decise nella nuova, trasparente, esplicita e paritaria alleanza fra medico e paziente.

P.S. Per chi è interessato invito alla visita di due bei siti: www.testingtreatments.org, e www.jameslindlibrary.org , dove queste tematiche sono ampiamente dibattute.

i Djulbegovic B, Kumar A, Glasziou PP, Perera R, Reljic T, Dent L, Raftery J, Johansen M, Di Tanna GL, Miladinovic

B, Soares HP, Vist GE, Chalmers I. New treatments compared to established treatments in randomized trials. Cochrane Database of Systematic Reviews 2012, Issue 10. Art. No.: MR000024. DOI: 10.1002/14651858.MR000024.pub3.

 

COCHRANE CORNER – Corticosteroidi come terapia aggiuntiva nella meningite batterica

mercoledì, ottobre 9th, 2013

Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

Su Twitter: @P_Balzaretti

 

La meningite batterica, sebbene sia andata incontro a una riduzione dell’incidenza grazie all’introduzione di vaccini efficaci contro i principali agenti etiologici, presenta ancora oggi un’elevata mortalità, anche nei Paesi Occidentali. Per questo dobbiamo sempre tenerla ben presente tra le ipotesi diagnostiche differenziali dell’alterazione della stato di coscienza in Pronto Soccorso.

In Italia l’incidenza è pari a 3,67 casi/100.000 abitanti/anno, l’82% dei quali è acquisito in comunità. Per le meningiti comunitarie il Pneumococco rappresenta la causa più frequente, seguito dal meningococco (24,6% e 18% dei casi rispettivamente); l’H. Influenzae è responsabile del 5,1% dei casi. Infine, la mortalità delle meningiti acquisite in comunità è pari al 12,1% (1).

Una delle questioni che a tutt’oggi costituisce motivo di dibattito riguarda l’efficacia della somministrazione di corticosteroidi. Fin’ora, infatti, i risultati dei trial randomizzati pubblicati sono eterogenei e contrastanti.

Conoscenze attuali

Le lineeguida IDSA sulla meningite del 2004 (2) raccomandavano la somministrazione di desametasone nei bambini nel caso di infezione da H. Influenzae tipo B (racc. A-I). Qualora la meningite sia sostenuta dallo pneumococco, non vi erano raccomandazioni definitive e l’impiego era da considerarsi opzionale (racc. C-II). Comunque, non era indicata la somministrazione di desametasone dopo l’avvio della terapia antibiotica (racc. A-I).

Negli adulti l’uso era raccomandato nei pazienti con sospetta meningite pneumococcica (racc. A-I), continuando solo se questa era confermata microbiologicamente. Dato che non sempre è chiaro all’inizio quale sia il micro-organismo coinvolto, veniva consigliato di considerare la somministrazione per ogni paziente adulto con meningite (Racc. B-III). Di nuovo, non vi era indicazione alla somministrazione di desametasone dopo l’avvio della terapia antibiotica (racc. A-I).

Più recentemente, una revisione sistematica basata sui dati individuali di 2029 pazienti arruolati in 5 trial non rilevava alcuna efficacia del desametasone nel ridurre mortalità. Contemporaneamente segnalava una riduzione del rischio di perdita dell’udito nei pazienti trattati e sopravvissuti (OR 0,77; 95% C.I. 0,60 – 0,99). L’analisi per sottogruppi non individuava alcuna caratteristica del paziente che permettesse di predire una maggiore efficacia del farmaco, a parte l’età superiore a 55 anni. Tra gli effetti avversi, solo l’iperglicemia risultava più frequente nei pazienti nel gruppo di trattamento (3).

Il farmaco di scelta è il desametasone, il quale presenta una maggiore penetrazione attraverso la barriera emato-encefalica e una più lunga durata d’azione rispetto agli altri corticosteroidi. La posologia proposta nella maggior parte degli studi è di 0,15 mg/Kg ogni 6 per 2-4 giorni (2) (nella maggior parte degli studi la durata era di 4 giorni, alla quale non sia associava una maggiore frequenza di eventi avversi rispetto a cicli più brevi) (4).

La Revisione Cochrane

In questo post ci occuperemo della revisione dal titolo “Corticosteroids for acute bacterial meningitis” (4) che analizza i risultati di 25 studi (in 22 dei quali veniva impiegato il desametasone) per un totale di 4121 pazienti. L’obiettivo principale è quello di valutare l’effetto dell’impiego dei corticosteroidi rispetto al placebo come terapia aggiuntiva rispetto a quella antibiotica sulla mortalità, la perdita dell’udito e altre sequele neurologiche. Tra gli studi inclusi, 4 risultavano essere di alta, 14 di media e 7 di bassa qualità.

I risultati sono riassunti nelle tabella seguente.

 

Mortalità (RR, 95% I.C) Perdita dell’udito (RR, 95% I.C)
Corticosteroidi vs. placebo 0,90 (0,80 – 1,01) 0,74 (0,63 – 0,87)
Sequele neurologiche a breve termine (RR, 95% I.C) Sequele neurologiche a lungo termine(RR, 95% I.C)
Corticosteroidi vs. placebo 0,83 (0,69 – 1,00) 0,90 (0,74 – 1,10)

 

Tab. 1 Risultati complessivi. RR < 1 indicano la superiorità del trattamento con corticosteroidi.

Tra gli eventi avversi, solo la febbre ricorrente risultava essere più frequente nei pazienti trattati con desametasone.

I risultati dell’analisi per sottogruppi è riassunta nella tabella 2.

 

Mortalità (RR, 95% I.C) Perdita dell’udito (RR, 95% I.C)

Fasce d’età

Età < 16 anni

0,89 (0,74 – 1,07)

0,73 (0,61 – 0,86)

Età ≥ 16 anni

0,74 (0,53 – 1,05)

0,74 (0,56 – 0,98)

Agenti etiologici

H. Influenzae

0,76 (0,53 – 1,09)

S. Pneumoniae

0,84 (0,72 – 0,98)

N. Meningitidis

0,71 (0,35 – 1,46)

Quadro socio-economico

Nazioni con basso reddito medio

0,87 (0,67 – 1,15)

0,89 (0,76 – 1,04)

Nazione con elevato reddito medio

0,81 (0,63 – 1,05)

0,58 (0,45 – 0,73)

Tempo di somministrazione del farmaco

Prima o insieme alla prima dose di antibiotico

0,87 (0,69 – 1,09)

0,80 (0,70 – 0,92)

Dopo la prima dose di antibiotico

0,83 (0,55 – 1,26)

0,62 (0,43 – 0,89)

Qualità degli studi

Alta qualità

1,00 (0,88 – 1,14)

0,90 (0,73 – 1,12)

 

Tab. 2 Analisi per sottogruppi pre-definiti. RR < 1 indicano la superiorità del trattamento con corticosteroidi.

Interpretazione – conclusioni

Complessivamente, la somministrazione di desametasone si correla con una riduzione dell’incidenza di calo dell’udito. L’impatto sulla mortalità sarebbe limitato ai casi sostenuti dallo pneumococco. La tendenza, non statisticamente significativa, alla riduzione della mortalità nei pazienti residenti in paesi con reddito pro-capite alto si spiegherebbe con il fatto che in queste nazioni è proprio lo S. Pneumoniae l’agente etiologico di più frequente riscontro. Nell’interpretare le differenze tra i paesi a basso e alto reddito pro-capite, è necessario tenere conto della più alta incidenza di malnutrizione, di AIDS e di presentazione ritardata in Ospedale nei primi.

Non vi sono dati definitivi riguardo al momento migliore per avviare il trattamento. I risultati più favorevoli sulla riduzione del calo dell’udito in caso di somministrazione successiva alla prima dose di antibiotico non sono sufficienti a mio avviso a sostenere una modifica delle indicazioni IDSA di somministrare il farmaco prima o insieme alla prima dose di antibiotico (2).

La somministrazione di desametasone sembrerebbe complessivamente sicura, sebbene la valutazione degli effetti avversi è in parte inficiata dalle diverse definizioni fornite nei singoli studi. Sono stati avanzate preoccupazioni riguardo alla possibilità che l’effetto anti-infiammatorio del desametasone riduca la permeabilità della barriera emato-encefalica limitando la penetrazione degli antibiotici nel liquor cefalo-rachidiano, in particolare della vancomicina. Sebbene dati di laboratorio sembrerebbero ridimensionare questo allarme, è comunque necessario monitorizzare con ulteriore attenzione i pazienti cui vengono somministrati entrambe i farmaci contemporaneamente.

Bibliografia

  1. Giorgi Rossi P, Mantovani J, Ferroni E, Forcina A, Stanghellini E, Curtale F, Borgia P. Incidence of bacterial meningitis (2001-2005) in Lazio, Italy: the results of an integrated survelliance system. BMC Infect Dis 2009; 9: 13. Link

  2. Tunkel AR, Hartman BJ, Kaplan SL, Kaufman BA, Roos KL, Scheld WM, Whitley RJ. Practical guidelines for the management of bacterial meningitis. Clin Infect Dis 2004;39: 1267-1284. Link

  3. van de Beek D, Farrar JJ, de Gans J, Mai NTH, Molyneux EM, Peltola H, Peto TE, Roine I, Scarborough M, Schultsz C, Thwaites GE, Tuan PQ, Zwinderman AH. Adjunctive dexamethasone in bacterial meningitis. A meta-analysis of individual patient data. Lancet Neurol 2010; 9: 254-263. Link

  4. Brouwer MC, McIntyre P, Prasad K, van de Beek D. Corticosteroids for acute bacterial meningitis. Cochrane Database of systematic Reviews 2013; Issue 6. Art. No: CD004405. Link

COCHRANE CORNER – Iniziare la terapia per un episodio acuto di malattia trombo-embolica venosa

mercoledì, settembre 11th, 2013

Dott. Paolo Balzaretti, redazione Blog SIMEU

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In questo post ci occuperemo di due recenti revisioni della Cochrane Collaboration riguardanti il trattamento iniziale di un episodio di malattia trombo-embolica venosa (MTEV): la posologia dell’eparina a basso peso molecolare (EBPM) e il dosaggio iniziale di warfarin.

Mono- o bi-somministrazione per l’eparina a basso peso molecolare (EBPM)?

Nei primi studi che verificarono l’efficacia del trattamento con EBPM per la MTEV furono impiegati regimi terapeutici che prevedevano la somministrazione del farmaco 2 volte al giorno, approccio dovrebbe garantire una maggiore stabilità dell’attività anti-coagulante e dunque un minor rischio di complicanze.

Per altro verso, dato che un’unica somministrazione favorisce solitamente una maggiore compliance terapeutica, nel corso degli anni sono stati condotti alcuni trial per valutarne l’efficacia e la sicurezza rispetto alla bi-somministrazione. I loro risultati sono stati incorporati in precedenti revisioni Cochrane (1) e nelle Linee Guida ACCP “per la terapia anti-trombotica a la prevenzione della trombosi” (9° ed.) (2), nella quali si concludeva che “in pazienti con TVP acuta dell’arto inferiore o TEP trattati con EBPM, si suggerisce l’impiego della mono piuttosto che della bi-somministrazione giornaliera (a parità di dose giornaliera)” (Racc. 2.5.2, grado 2C e racc. 5.4.2, grado 2C).

Queste raccomandazioni sono attuali? Un aggiornamento delle evidenze a riguardo è contenuto nella revisione sistematica Cochrane dal titolo “Once versus twice daily low molecular weight heaprin for the initial treatment of venous thromboembolism” (3). Gli outcome primari dello studio sono l’incidenza di recidiva sintomatica di MTEV e quella di emorragie maggiori (ovvero intracraniche, retro-peritoneali, fatali o per le quali è stato necessario ricorrere a trasfusioni, all’interruzione del trattamento o a intervento chirurgico).

Sono stati inclusi 5 trial clinici randomizzati per un totale di 1508 pazienti. Nella tabella 1 vi è una sintesi dei regimi terapeutici impiegati nei singoli studi.

 

Patologia

Gruppo di intervento

Gruppo di controllo

Charbonnier 1998

TVP prossimale sintomatica

Nadroparina 20.500 AXa-U al giorno

Nadroparina 10.250 AXa-U x 2 volte al giorno

Holmstrom 1992

Primo episodio TVP

Dalteparina 200 AXa-U/kg al giorno

Dalteparina 200 AXa-U/kg x 2 volte al giorno

Merli 2001

TVP sintomatica

Enoxaparina 1,5 mg/kg al giorno

Enoxaparina 1 mg/kg x 2 volte al giorno

Partsch 1996

TVP prossimale

Dalteparina 200 AXa-U/kg al giorno

Dalteparina 200 AXa-U/kg x 2 volte al giorno

Siegbahn 1989

TVP

Logiparina 150 AXa-U/kg al giorno

Dalteparina 75 AXa-U/kg x 2 volte al giorno

 

Tab.1 Regimi terapeutici utilizzati negli studi inclusi nella revisione. La logiparina non è in commercio in Italia. Enoxaprina 1 mg equivale a enoxaparina 100 AXa-UI.

I risultati sono riassunti nella tab. 2.

 

OR (I.C. 95%) N° di studi che includevano l’outcome (n° di pazienti)
Recidiva di METV 0,82 (0,49 – 1,39) 2 (1281)
Incidenza di eventi emorragici 0,77 (0,40 – 1,45) 5 (1508)
Mortalità 1,14 (0,62 – 2,08) 4 (1421)

 

Tab. 2. Analisi dei risultati. OR < 1 favoriscono la mono-somministrazione.

 

I risultati di questo lavoro sembrerebbero suggerire che le due modalità di somministrazione sono equivalenti in termini di efficacia e di sicurezza. Nel complesso però queste evidenze non possono considerarsi conclusive. In primo luogo, gli studi riguardano unicamente pazienti con TVP e non con TEP: pur essendo ormai riconosciuto universalmente che le due entità rappresentano differenti aspetti del medesimo processo patologico, sarebbe comunque opportuno valutare che le conclusioni ottenute siano effettivamente applicabili anche nei pazienti con embolia polmonare.

Bisogna per altro tenere a mente che questi risultati non si applicano a pazienti con insufficienza renale, sistematicamente esclusi dall’arruolamento in questi lavori.

5 o 10 mg di warfarin per avviare la terapia anti-coagulante orale (TAO)?

Abitualmente, il secondo passo nella gestione iniziale del paziente con MTEV è quello di avviare la TAO. Una delle questioni da sempre più dibattute concerne il dosaggio iniziale di warfarin cui far ricorso, 5 o 10 mg. Il vantaggio di utilizzare dosi più elevate è teoricamente quello di raggiungere il range terapeutico più rapidamente, correndo però i rischi di eventi avversi legati all’alta variabilità della risposta individuale al warfarin. In questo caso, le già citate linee guida ACCP (4) contengono la seguente indicazione: “in pazienti in condizioni generali sufficientemente buone da poter essere trattati in sede ambulatoriale, si suggerisce di iniziare la terapia con inibitori della vitamina K impiegando il warfarin 10 mg al giorno per i primi due giorni seguito da un dosaggio basato sulle misurazioni dell’INR […]”.

Questa è una raccomandazione debole basata su evidenze di bassa qualità (grado 2C), certificando di fatto le molte incertezze sull’argomento. La revisione di cui ci apprestiamo a parlare ha come obiettivo proprio quello di mettere insieme le evidenze migliori, quelle tratte dai trial clinici randomizzati, per tentare di fornire indicazioni più consistenti.

La revisione, dal titolo “Warfarin initiation nomograms for venous thromboembolism” (5), include 4 studi per complessivi 494 pazienti arruolati. L’outcome primario è la proporzione di pazienti nel range terapeutico dell’INR (2-3) al 5° giorno dopo l’avvio del trattamento. Outcome secondari sono l’incidenza di recidive di MTEV, l’incidenza di emorragie maggiori e minori e la durata della degenza ospedaliera. Complessivamente la qualità degli studi era accettabile.

 

RR (I.C. 95%) N° di studi che includevano l’outcome (n° di pazienti) Qualità dell’evidenza
Efficacia terapeutica 1,27 (1,05 – 1,54) 3 (383) Moderata
Recidiva di METV 1,48 (0,39 – 5,56) 3 (362) Bassa
Incidenza di eventi emorragici maggiori 0,97 (0,27 – 3,51) 4 (494) Moderata
Incidenza di eventi emorragici minori 0,52 (0,15 – 1,83) 2 (243) Molto bassa

 

Tab. 3. Risultati della metanalisi. Valori > 1 favoriscono il trattamento con 10 mg

 

Dunque avviare il trattamento con 10 mg si correla ad un più rapido raggiungimento del range terapeutico, confermando quanto raccomandato dall’ACCP. Il risultato è statisticamente significativo ma l’ampia eterogeneità, legata almeno in parte al fatto che in alcuni studi sono stati arruolati pazienti ambulatoriali e in altri pazienti ricoverati, ne limita la consistenza. Questa maggiore efficacia non va a scapito della sicurezza: il rischio di eventi emorragici maggiori è sovrapponibile tra i due trattamenti.

 

Bibliografia

  1. van Dongen CJ, Mac Gillavry MR, Prins MH. Once versus twice daily low molecular weight heparin for the initial treatment of venous thromboembolism. Cochrane Database Systematic Rev 2005; Issue 3. [DOI: 10.1002/14651858.CD003074.pub2] Link

  2. Kearon C, Akl EA, Comerota AJ, et al. Antithrombotic therapy for VTE disease. Antithrombotic therapy and prevention of thrombosis, 9th ed: American College of Chest Physicians Evidence-based Clinical Practice Guidelines. Chest 2012; 141 (2 suppl): e419S-e494S. Link

  3. Bhutia S, Wong PF. Once versus twice daily low molecular weight heaprin for the initial treatment of venous thromboembolism. Cochrane Database Systematic Rev 2013; Issue 7. [DOI: 10.1002/14651858.CD003074.pub3] Link

  4. Holbrook A, Schulman S, Witt DM, et al. Evidence-based management of anticoagulant therapy. Antithrombotic therapy and prevention of thrombosis, 9th ed: American College of Chest Physicians Evidence-based Clinical Practice Guidelines. Chest 2012; 141 (2 suppl): e152S-e184S. Link

  5. Garcia P, Ruiz W, Loza Munarriz C. Warfarin initiation nomograms for venous thromboembolism. Cochrane Database Systematic Rev 2013; Issue 7. Art: CD007699. [DOI: 10.1002/14651858.CD007699.pub2] Link





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